martedì 29 novembre 2016

23 Orlando furioso - Canto trentesimoquarto: ottave 69-86 (di Ludovico Ariosto)


ASTOLFO SULLA LUNA

Astolfo, paladino allegro e balzano, s’impossessa dell’ippogrifo; con esso e con l’appoggio di san Giovanni Evangelista, sale sulla luna, dove trova il senno perduto d’Orlando. Infatti sulla luna vanno a finire tutte le cose labili ed effimere che inseguiamo nella nostra vita e che sono tutte vanità. E soprattutto lassù c’è il cervello degli uomini, racchiuso in ampolle con tanto di nome e di cognome. L’unica cosa che manca è la pazzia, poiché essa dimora stabilmente sulla terra.

69
Quattro destrier via più che fiamma rossi
al giogo il santo evangelista aggiunse;
e poi che con Astolfo rassettossi,
e prese il freno, inverso il ciel li punse.
Ruotando il carro, per l’aria levossi,
e tosto in mezzo il fuoco eterno giunse;
che ’l vecchio fe’ miracolosamente,
che, mentre lo passar, non era ardente.
70
Tutta la sfera varcano del fuoco,
ed indi vanno al regno de la luna.
Veggon per la più parte esser quel loco
come un acciar che non ha macchia alcuna;
e lo trovano uguale, o minor poco
di ciò ch’in questo globo si raguna,
in questo ultimo globo de la terra,
mettendo il mar che la circonda e serra.
71
Quivi ebbe Astolfo doppia meraviglia:
che quel paese appresso era sì grande,
il quale a un picciol tondo rassimiglia
a noi che lo miriam da queste bande;
e ch’aguzzar conviengli ambe le ciglia,
s’indi la terra e ’l mar ch’intorno spande,
discerner vuol; che non avendo luce,
l’imagin lor poco alta si conduce.
72
Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
sono là su, che non son qui tra noi;
altri piani, altre valli, altre montagne,
c’han le cittadi, hanno i castelli suoi,
con case de le quai mai le più magne
non vide il paladin prima né poi:
e vi sono ample e solitarie selve,
ove le ninfe ognor cacciano belve.
73
Non stette il duca a ricercar il tutto;
che là non era asceso a quello effetto.
Da l’apostolo santo fu condutto
in un vallon fra due montagne istretto,
ove mirabilmente era ridutto
ciò che si perde o per nostro diffetto,
o per colpa di tempo o di Fortuna:
ciò che si perde qui, là si raguna.
74
Non pur di regni o di ricchezze parlo,
in che la ruota instabile lavora;
ma di quel ch’in poter di tor, di darlo
non ha Fortuna, intender voglio ancora.
Molta fama è là su, che, come tarlo,
il tempo al lungo andar qua giù divora:
là su infiniti prieghi e voti stanno,
che da noi peccatori a Dio si fanno.
75
Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desideri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.
76
Passando il paladin per quelle biche,
or di questo or di quel chiede alla guida.
Vide un monte di tumide vesiche,
che dentro parea aver tumulti e grida;
e seppe ch’eran le corone antiche
e degli Assiri e de la terra lida,
e de’ Persi e de’ Greci, che già furo
incliti, ed or n’è quasi il nome oscuro.
77
Ami d'oro e d’argento appresso vede
in una massa, ch’erano quei doni
che si fan con speranza di mercede
ai re, agli avari principi, ai patroni.
Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede,
ed ode che son tutte adulazioni.
Di cicale scoppiate imagine hanno
versi ch’in laude dei signor si fanno.
78
Di nodi d’oro e di gemmati ceppi
vede c’han forma i mal seguiti amori.
V’eran d’aquile artigli; e che fur, seppi,
l’autorità ch’ai suoi danno i signori.
I mantici ch’intorno han pieni i greppi,
sono i fumi dei principi e i favori
che danno un tempo ai ganimedi suoi,
che se ne van col fior degli anni poi.
79
Ruine di cittadi e di castella
stavan con gran tesor quivi sozzopra.
Domanda, e sa che son trattati, e quella
congiura che sì mal par che si cuopra.
Vide serpi con faccia di donzella,
di monetieri e di ladroni l’opra:
poi vide bocce rotte di più sorti,
ch’era il servir de le misere corti.
80
Di versate minestre una gran massa
vede, e domanda al suo dottor ch’importe.
- L’elemosina è (dice) che si lassa
alcun, che fatta sia dopo la morte.
Di vari fiori ad un gran monte passa,
ch’ebbe già buono odore, or putia forte.
Questo era il dono (se però dir lece)
che Costantino al buon Silvestro fece.
81
Vide gran copia di panie con visco,
ch’erano, o donne, le bellezze vostre.
Lungo sarà, se tutte in verso ordisco
le cose che gli fur quivi dimostre;
che dopo mille e mille io non finisco,
e vi son tutte l’occurrenze nostre:
sol la pazzia non v’è poca né assai;
che sta qua giù, né se ne parte mai.
82
Quivi ad alcuni giorni e fatti sui,
ch’egli già avea perduti, si converse;
che se non era interprete con lui,
non discernea le forme lor diverse.
Poi giunse a quel che par sì averlo a nui,
che mai per esso a Dio voti non ferse;
io dico il senno: e n’era quivi un monte,
solo assai più che l’altre cose conte.
83
Era come un liquor suttile e molle,
atto a esalar, se non si tien ben chiuso;
e si vedea raccolto in varie ampolle,
qual più, qual men capace, atte a quell’uso.
Quella è maggior di tutte, in che del folle
signor d’Anglante era il gran senno infuso;
e fu da l’altre conosciuta, quando
avea scritto di fuor: Senno d’Orlando.
84
E così tutte l’altre avean scritto anco
il nome di color di chi fu il senno.
Del suo gran parte vide il duca franco;
ma molto più maravigliar lo fenno
molti ch’egli credea che dramma manco
non dovessero averne, e quivi dénno
chiara notizia che ne tenean poco;
che molta quantità n’era in quel loco.
85
Altri in amar lo perde, altri in onori,
altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze;
altri ne le speranze de’ signori,
altri dietro alle magiche sciocchezze;
altri in gemme, altri in opre di pittori,
ed altri in altro che più d’altro aprezze.
Di sofisti e d’astrologhi raccolto,
e di poeti ancor ve n’era molto.
86
Astolfo tolse il suo; che gliel concesse
lo scrittor de l’oscura Apocalisse.
L’ampolla in ch’era al naso sol si messe,
e par che quello al luogo suo ne gisse:
e che Turpin da indi in qua confesse
ch’Astolfo lungo tempo saggio visse;
ma ch’uno error che fece poi, fu quello
ch’un'altra volta gli levò il cervello.

PARAFRASI:

69
Il santo Evangelista [san Giovanni] aggiunse al giogo quattro destrieri rossi più d’una fiamma e dopo essersi sistemato con Astolfo sul carro e aver preso le redini, li spronò verso il cielo: ruotando il carro si levò per aria e giunse subito in mezzo al fuoco eterno [la sfera del fuoco che, si credeva, circondasse la Terra], che miracolosamente il Vecchio fece sì che non fosse ardente, mentre lo attraversavano.
70
Varcano tutta la sfera del fuoco e quindi vanno nel regno della luna; vedono che quel luogo è per la maggior parte come un acciaio senza alcuna macchia: e lo trovano uguale o poco meno grande di quanto sia la superficie di questo globo, questo infimo globo della terra, comprendendovi il mare che lo circonda e lo racchiude.
71
Qui Astolfo vi ebbe una doppia meraviglia; che quel paese, che assomiglia a un piccolo tondo a noi che lo guardiamo da questa parte, visto da vicino era così grande: e gli conviene aguzzare entrambi gli occhi, se vuole distinguere la terra e il mare che vi si spande attorno; poiché, non avendo luce propria, la loro immagine non arriva così in alto [La doppia meraviglia di Astolfo consiste nel fatto che la luna, che a noi sembra piccola, vista da vicino è enorme e la terra, vista dalla luna, ci appare piccola, tanto da non distinguere ciò che vi si trova sulla superficie]
72
Ben altri fiumi, altri laghi, altre montagne vi sono lassù, diversi da quelli che ci sono qui tra noi; altre pianure, altre valli, altre campagne, piene di città e di propri castelli, con case che mai il paladino ne vide di più grandi né prima né poi: e vi sono selve ampie e solitarie, dove le Ninfe cacciano le belve di continuo.
73
Il duca non stette a esplorare tutto quanto, dato che non era salito lassù con questo scopo. Fu condotto dal santo Apostolo in una valle stretta tra due montagne, dove era miracolosamente raccolto ciò che noi perdiamo per colpa nostra, o per colpa del tempo o della Fortuna: ciò che noi perdiamo qui [sulla Terra], là si raccoglie.
74
Non parlo solo di regni o di ricchezze, sui quali agisce la ruota instabile [della Fortuna]; ma di ciò che la Fortuna non ha in potere di togliere o di dare, voglio intendere. Lassù vi è molta fama, che, come un tarlo il tempo quaggiù divora a lungo andare: lassù stanno infinite preghiere e voti, che si fanno a Dio da noi peccatori.
75
Le lacrime e i sospiri degli amanti, il tempo inutile che si perde nel gioco e l’ozio completo in cui vivono gli uomini ignoranti, i vani progetti che non hanno mai effetto, i vani desideri sono così tanti, che ingombrano la maggior parte di quel luogo: insomma ciò che quaggiù avessi perso, potresti ritrovare salendo lassù.
76
Passando il paladino tra quei mucchi, ora di questo ora di quello chiede alla sua guida. Vide un monte di vesciche gonfie, che sembrava avesse dentro tumulti e grida; e seppe che erano le antiche corone [regni] degli Assiri, della Lidia, dei Persiani e dei Greci, che furono famosi un tempo ed ora il loro nome è quasi sconosciuto.
77
Poi vede in massa ami d’oro e d’argento, che erano quei doni che si fanno con la speranza di riceverne ricompensa ai re, ai principi avari, ai protettori. Vede in ghirlande lacci nascosti; e chiede e ode che sono tutte adulazioni. Hanno l’aspetto di cicale scoppiate [per il troppo cantare] i versi che si fanno in lode dei signori.
78
Vede che gli amori sfortunati hanno forma di nodi d’oro e di ceppi gemmati. V’erano artigli d’aquile, che furono, seppi, l’autorità che i signori concedono ai loro seguaci. I mantici di cui sono pieni i pendii intorno sono gli onori vani dei principi e i favori che un tempo diedero ai loro favoriti, che svaniscono poi col fiore degli anni [= con il passar del tempo].
79
Rovine di città e di castelli stavano con grandi tesori qui sottosopra. Domanda e viene a sapere che sono trattati [violati] e congiure scoperte. Vide serpenti con volti di fanciulle, che sono l’opera dei falsari di moneta e dei ladroni: poi vide bocce rotte di diversi tipi, che erano il servilismo delle misere corti [i signori le gettano via, quando non servono più, come fanno dei loro cortigiani].
80
Vede una gran massa di minestre rovesciate e domanda alla sua guida che cosa significa. – È l’elemosina (dice) che si fa dopo esser morti [Intende le elemosine che si lasciano per testamento e che risultano inutili, poiché gli eredi non le fanno. Ma può significare anche le elemosine fatte in punto di morte per paura dell’inferno e che quindi sono poco meritorie] – Passa accanto a un gran monte di vari fiori, che aveva un buon odore prima ed ora puzzava assai. Questo era il dono (se mi è lecito dir così) che Costantino fece al buon Silvestro [si riferisce alla famosa donazione di Roma fatta dall’imperatore Costantino a papa Silvestro, da cui ebbe origine il potere temporale dei papi; donazione che al tempo dell’Ariosto era già risultata falsa].
81
Vide un gran numero di panie con il vischio [= sostanze vischiose che servivano per catturare gli uccelli] che erano, o donne, le vostre bellezze. Sarebbe lunga, se volessi mettere in versi le cose che qui gli furono mostrate; che dopo mille e mille non avrei ancor finito e in pratica vi è tutto ciò di cui abbiamo bisogno: solo la pazzia non c’è né poca né molta; perché essa sta tutta quaggiù [sulla Terra] e non se ne va mai via.
82
Qui Astolfo si rivolse ad alcuni giorni e alcune azioni ch’egli aveva perduto; ma, se non ci fosse stato con lui un interprete [cioè la sua guida, san Giovanni], lui non li avrebbe riconosciuti date le loro strane forme. Poi giunse a quella cosa che a tutti noi sembra di possedere, tanto che mai facciamo voti a Dio per averla; parlo del senno; e qui ce n’era una montagna, assai più di tutto le altre cose raccontate.
83
Era come un liquore sottile e molle [= leggero e sfuggente], pronto ad evaporare, se non si tiene ben chiuso; lo si vedeva raccolto in varie ampolle, alcune più alcune meno capaci, fatte proprio per quell’uso. La maggiore di tutte è quella nella quale era contenuto il grande senno del folle signore d’Anglante; e fu riconosciuta in mezzo alle altre, dal momento che fuori vi era scritto: senno d’Orlando.
84
E anche tutte le altre avevano scritto il nome di coloro di cui erano state il senno. Il duca valoroso [ma franco potrebbe significare anche francese, nel senso di “cavaliere di Francia, di Carlo Magno”, poiché Astolfo era in realtà inglese] vide una gran parte del suo senno; ma ciò che ancor più gli fece meraviglia, fu vedere che molti che egli credeva che non dovessero averne nemmeno una piccola quantità di meno, in realtà qui dimostravano chiaramente di averne assai poco; perché davvero in quel luogo ve n’era una gran quantità.
85
Alcuni lo perdono nell’amore, altri negli onori, altri nella ricerca di ricchezze correndo per il mare, altri nelle speranze riposte nei signori, altri dietro allo sciocche pratiche di magia, altri nelle gemme, altri nelle opere dei pittori, e altri in tutto ciò d’altro che apprezzino più di ogni altra cosa. Di sofisti [= filosofi] e di astrologi e di poeti ancora ve n’era raccolto assai [qui sulla luna].
86
Astolfo prese il suo; che glielo concesse colui che aveva scritto l’oscura Apocalisse [cioè san Giovanni, autore, appunto, dell’Apocalisse, l’oscura profezia sulla fine del mondo]. L’ampolla in cui era contenuto si portò soltanto al naso e pare che quello se ne andasse al suo posto [basta aspirare il senno contenuto nell’ampolla, perché – sembra – che questo torni nel cervello]; e pare che Turpino [un monaco dei tempi di Carlo Magno, presunto autore di una cronaca da cui Ariosto in vari punti del poema dice di aver ricavato informazioni – ma di solito le più inverosimili] confessi che da qui in poi Astolfo visse gran tempo saggiamente; ma che un errore che poi fece, fu quello che gli levò il cervello un’altra volta.

Astolfo sulla Luna, illustrazione di Gustave Doré












domenica 27 novembre 2016

22 Orlando furioso - Canto ventesimoterzo: ottave 100-136 (di Ludovico Ariosto)




LA PAZZIA D'ORLANDO

Angelica, la principessa del Catai di cui tutti sono innamorati, fugge da ciascuno dei suoi spasimanti, finché anche lei incontra Medoro, un giovanetto che ella accudisce ferito e poi se ne innamora. Quando Orlando viene a sapere, prima attraverso le scritte che Angelica e Medoro hanno lasciato sulle cortecce degli alberi, poi attraverso il racconto del pastore presso cui ha trovato riparo, che i due sono diventati amanti, impazzisce. Si abbandona alle stranezze più furiose, dimentico dell’onore cavalleresco che lo vorrebbe a combattere per Carlo Magno.

100
Lo strano corso che tenne il cavallo
del Saracin pel bosco senza via,
fece ch’Orlando andò duo giorni in fallo,
né lo trovò, né poté averne spia.
Giunse ad un rivo che parea cristallo,
ne le cui sponde un bel pratel fioria,
di nativo color vago e dipinto,
e di molti e belli arbori distinto.
101
Il merigge facea grato l’orezzo
al duro armento ed al pastore ignudo;
sì che né Orlando sentia alcun ribrezzo,
che la corazza avea, l’elmo e lo scudo.
Quivi egli entrò per riposarvi in mezzo;
e v’ebbe travaglioso albergo e crudo,
e più che dir si possa empio soggiorno,
quell’infelice e sfortunato giorno.
102
Volgendosi ivi intorno, vide scritti
molti arbuscelli in su l’ombrosa riva.
Tosto che fermi v’ebbe gli occhi e fitti,
fu certo esser di man de la sua diva.
Questo era un di quei lochi già descritti,
ove sovente con Medor veniva
da casa del pastore indi vicina
la bella donna del Catai regina.
103
Angelica e Medor con cento nodi
legati insieme, e in cento lochi vede.
Quante lettere son, tanti son chiodi
coi quali Amore il cor gli punge e fiede.
Va col pensier cercando in mille modi
non creder quel ch’al suo dispetto crede:
ch’altra Angelica sia, creder si sforza,
ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza.
104
Poi dice: - Conosco io pur queste note:
di tal’io n’ho tante vedute e lette.
Finger questo Medoro ella si puote:
forse ch’a me questo cognome mette.
Con tali opinion dal ver remote
usando fraude a sé medesmo, stette
ne la speranza il malcontento Orlando,
che si seppe a se stesso ir procacciando.
105
Ma sempre più raccende e più rinuova,
quanto spenger più cerca, il rio sospetto:
come l’incauto augel che si ritrova
in ragna o in visco aver dato di petto,
quanto più batte l’ale e più si prova
di disbrigar, più vi si lega stretto.
Orlando viene ove s’incurva il monte
a guisa d’arco in su la chiara fonte.
106
Aveano in su l’entrata il luogo adorno
coi piedi storti edere e viti erranti.
Quivi soleano al più cocente giorno
stare abbracciati i duo felici amanti.
V’aveano i nomi lor dentro e d’intorno,
più che in altro dei luoghi circostanti,
scritti, qual con carbone e qual con gesso,
e qual con punte di coltelli impresso.
107
Il mesto conte a piè quivi discese;
e vide in su l’entrata de la grotta
parole assai, che di sua man distese
Medoro avea, che parean scritte allotta.
Del gran piacer che ne la grotta prese,
questa sentenza in versi avea ridotta.
Che fosse culta in suo linguaggio io penso;
ed era ne la nostra tale il senso:
108
 - Liete piante, verdi erbe, limpide acque,
spelunca opaca e di fredde ombre grata,
dove la bella Angelica che nacque
di Galafron, da molti invano amata,
spesso ne le mie braccia nuda giacque;
de la commodità che qui m’è data,
io povero Medor ricompensarvi
d’altro non posso, che d’ognor lodarvi:
109
e di pregare ogni signore amante,
e cavallieri e damigelle, e ognuna
persona, o paesana o viandante,
che qui sua volontà meni o Fortuna;
ch’all’erbe, all’ombre, all’antro, al rio, alle piante
dica: benigno abbiate e sole e luna,
e de le ninfe il coro, che proveggia
che non conduca a voi pastor mai greggia.
110
Era scritto in arabico, che ’l conte
intendea così ben come latino:
fra molte lingue e molte ch’avea pronte,
prontissima avea quella il paladino;
e gli schivò più volte e danni ed onte,
che si trovò tra il popul saracino:
ma non si vanti, se già n’ebbe frutto;
ch’un danno or n’ha, che può scontargli il tutto.
111
Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto
quello infelice, e pur cercando invano
che non vi fosse quel che v’era scritto;
e sempre lo vedea più chiaro e piano:
ed ogni volta in mezzo il petto afflitto
stringersi il cor sentia con fredda mano.
Rimase al fin con gli occhi e con la mente
fissi nel sasso, al sasso indifferente.
112
Fu allora per uscir del sentimento
sì tutto in preda del dolor si lassa.
Credete a chi n’ha fatto esperimento,
che questo è ’l duol che tutti gli altri passa.
Caduto gli era sopra il petto il mento,
la fronte priva di baldanza e bassa;
né poté aver (che ’l duol l’occupò tanto)
alle querele voce, o umore al pianto.
113
L’impetuosa doglia entro rimase,
che volea tutta uscir con troppa fretta.
Così veggiàn restar l’acqua nel vase,
che largo il ventre e la bocca abbia stretta;
che nel voltar che si fa in su la base,
l’umor che vorria uscir, tanto s’affretta,
e ne l’angusta via tanto s’intrica,
ch’a goccia a goccia fuore esce a fatica.
114
Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come
possa esser che non sia la cosa vera:
che voglia alcun così infamare il nome
de la sua donna e crede e brama e spera,
o gravar lui d’insopportabil some
tanto di gelosia, che se ne pera;
ed abbia quel, sia chi si voglia stato,
molto la man di lei bene imitato.
115
In così poca, in così debol speme
sveglia gli spiriti e gli rifranca un poco;
indi al suo Brigliadoro il dosso preme,
dando già il sole alla sorella loco.
Non molto va, che da le vie supreme
dei tetti uscir vede il vapor del fuoco,
sente cani abbaiar, muggiare armento:
viene alla villa, e piglia alloggiamento.
116
Languido smonta, e lascia Brigliadoro
a un discreto garzon che n’abbia cura;
altri il disarma, altri gli sproni d’oro
gli leva, altri a forbir va l'armatura.
Era questa la casa ove Medoro
giacque ferito, e v’ebbe alta avventura.
Corcarsi Orlando e non cenar domanda,
di dolor sazio e non d’altra vivanda.
117
Quanto più cerca ritrovar quiete,
tanto ritrova più travaglio e pena;
che de l’odiato scritto ogni parete,
ogni uscio, ogni finestra vede piena.
Chieder ne vuol: poi tien le labra chete;
che teme non si far troppo serena,
troppo chiara la cosa che di nebbia
cerca offuscar, perché men nuocer debbia.
118
Poco gli giova usar fraude a se stesso;
che senza domandarne, è chi ne parla.
Il pastor che lo vede così oppresso
da sua tristizia, e che voria levarla,
l’istoria nota a sé, che dicea spesso
di quei duo amanti a chi volea ascoltarla,
ch’a molti dilettevole fu a udire,
gl’incominciò senza rispetto a dire:
119
come esso a prieghi d’Angelica bella
portato avea Medoro alla sua villa,
ch’era ferito gravemente; e ch’ella
curò la piaga, e in pochi dì guarilla:
ma che nel cor d’una maggior di quella
lei ferì Amor; e di poca scintilla
l’accese tanto e sì cocente fuoco,
che n’ardea tutta, e non trovava loco:
120
e sanza aver rispetto ch’ella fusse
figlia del maggior re ch’abbia il Levante,
da troppo amor costretta si condusse
a farsi moglie d’un povero fante.
All’ultimo l’istoria si ridusse,
che ’l pastor fe’ portar la gemma inante,
ch’alla sua dipartenza, per mercede
del buono albergo, Angelica gli diede.
121
Questa conclusion fu la secure
che ’l capo a un colpo gli levò dal collo,
poi che d’innumerabil battiture
si vide il manigoldo Amor satollo.
Celar si studia Orlando il duolo; e pure
quel gli fa forza, e male asconder pòllo:
per lacrime e suspir da bocca e d’occhi
convien, voglia o non voglia, al fin che scocchi.
122
Poi ch’allargare il freno al dolor puote
(che resta solo e senza altrui rispetto),
giù dagli occhi rigando per le gote
sparge un fiume di lacrime sul petto:
sospira e geme, e va con spesse ruote
di qua di là tutto cercando il letto;
e più duro ch’un sasso, e più pungente
che se fosse d’urtica, se lo sente.
123
In tanto aspro travaglio gli soccorre
che nel medesmo letto in che giaceva,
l’ingrata donna venutasi a porre
col suo drudo più volte esser doveva.
Non altrimenti or quella piuma abborre,
né con minor prestezza se ne leva,
che de l’erba il villan che s’era messo
per chiuder gli occhi, e vegga il serpe appresso.
124
Quel letto, quella casa, quel pastore
immantinente in tant’odio gli casca,
che senza aspettar luna, o che l’albore
che va dinanzi al nuovo giorno nasca,
piglia l’arme e il destriero, ed esce fuore
per mezzo il bosco alla più oscura frasca;
e quando poi gli è aviso d’esser solo,
con gridi ed urli apre le porte al duolo.
125
Di pianger mai, mai di gridar non resta;
né la notte né ’l dì si dà mai pace.
Fugge cittadi e borghi, e alla foresta
sul terren duro al discoperto giace.
Di sé si meraviglia ch’abbia in testa
una fontana d’acqua sì vivace,
e come sospirar possa mai tanto;
e spesso dice a sé così nel pianto:
126
- Queste non son più lacrime, che fuore
stillo dagli occhi con sì larga vena.
Non suppliron le lacrime al dolore:
finir, ch’a mezzo era il dolore a pena.
Dal fuoco spinto ora il vitale umore
fugge per quella via ch’agli occhi mena;
ed è quel che si versa, e trarrà insieme
e ’l dolore e la vita all’ore estreme.
127
Questi ch’indizio fan del mio tormento,
sospir non sono, né i sospir sono tali.
Quelli han triegua talora; io mai non sento
che ’l petto mio men la sua pena esali.
Amor che m’arde il cor, fa questo vento,
mentre dibatte intorno al fuoco l’ali.
Amor, con che miracolo lo fai,
che ’n fuoco il tenghi, e nol consumi mai?
128
Non son, non sono io quel che paio in viso:
quel ch’era Orlando è morto ed è sotterra;
la sua donna ingratissima l’ha ucciso:
sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra.
Io son lo spirto suo da lui diviso,
ch’in questo inferno tormentandosi erra,
acciò con l’ombra sia, che sola avanza,
esempio a chi in Amor pone speranza.
129
Pel bosco errò tutta la notte il conte;
e allo spuntar de la diurna fiamma
lo tornò il suo destin sopra la fonte
dove Medoro isculse l’epigramma.
Veder l’ingiuria sua scritta nel monte
L’accese sì, ch’in lui non restò dramma
che non fosse odio, rabbia, ira e furore;
né più indugiò, che trasse il brando fuore.
130
Tagliò lo scritto e ’l sasso, e sin al cielo
a volo alzar fe' le minute schegge.
Infelice quell’antro, ed ogni stelo
in cui Medoro e Angelica si legge!
Così restar quel dì, ch’ombra né gielo
a pastor mai non daran più, né a gregge:
e quella fonte, già si chiara e pura,
da cotanta ira fu poco sicura;
131
che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle
non cessò di gittar ne le bell’onde,
fin che da sommo ad imo sì turbolle
che non furo mai più chiare né monde.
E stanco al fin, e al fin di sudor molle,
poi che la lena vinta non risponde
allo sdegno, al grave odio, all’ardente ira,
cade sul prato, e verso il ciel sospira.
132
Afflitto e stanco al fin cade ne l’erba,
e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto.
Senza cibo e dormir così si serba,
che ’l sole esce tre volte e torna sotto.
Di crescer non cessò la pena acerba,
che fuor del senno al fin l’ebbe condotto.
Il quarto dì, da gran furor commosso,
e maglie e piastre si stracciò di dosso.
133
Qui riman l’elmo, e là riman lo scudo,
lontan gli arnesi, e più lontan l’usbergo:
l’arme sue tutte, in somma vi concludo,
avean pel bosco differente albergo.
E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo
L’ispido ventre e tutto ’l petto e ’l tergo;
e cominciò la gran follia, sì orrenda,
che de la più non sarà mai ch’intenda.
134
In tanta rabbia, in tanto furor venne,
che rimase offuscato in ogni senso.
Di tor la spada in man non gli sovenne;
che fatte avria mirabil cose, penso.
Ma né quella, né scure, né bipenne
era bisogno al suo vigore immenso.
Quivi fe’ ben de le sue prove eccelse,
ch’un alto pino al primo crollo svelse:
135
e svelse dopo il primo altri parecchi,
come fosser finocchi, ebuli o aneti;
e fe’ il simil di querce e d’olmi vecchi,
di faggi e d’orni e d’illici e d’abeti.
Quel ch’un ucellator che s’apparecchi
il campo mondo, fa, per por le reti,
dei giunchi e de le stoppie e de l’urtiche,
facea de cerri e d’altre piante antiche.
136
I pastor che sentito hanno il fracasso,
lasciando il gregge sparso alla foresta,
chi di qua, chi di là, tutti a gran passo
vi vengono a veder che cosa è questa.
Ma son giunto a quel segno il qual s’io passo
vi potria la mia istoria esser molesta;
ed io la vo’ più tosto diferire,
che v’abbia per lunghezza a fastidire.


PARAFRASI:

100
L’insolito corso che il cavallo del Saracino [si tratta di Mandricardo, con cui Orlando si è precedentemente scontrato a duello, finché il cavallo del moro è fuggito via spaventato: Orlando lo sta inseguendo] tenne nel bosco senza lasciare traccia della via seguita, fece sì che Orlando andò per due giorni invano, senza trovarlo, senza averne indizio. Egli giunse ad un fiume che pareva cristallo, sulle cui sponde fioriva un bel praticello, grazioso e dipinto dei colori naturali e ornato di molti alberi belli.
101
Il meriggio rendeva gradevole l’ombra ventilata agli animali induriti [dalle intemperie] e ai pastori ignudi; tanto che neppure Orlando sentiva alcuna spiacevole sensazione di freddo, pur indossando la corazza, l’elmo e lo scudo. Qui in mezzo egli entrò per riposare; ma vi trovò dolorosa e crudele dimora, e soggiorno più funesto di quanto si possa dire, quell’infelice e sfortunato giorno.
102
Volgendosi qui intorno, vide sull’ombrosa riva molti alberelli scritti [cioè che recavano delle scritte nella corteccia]. Non appena fermò gli occhi su di essi e poi li fissò attentamente, fu sicuro che fossero di mano della sua Dea [cioè Angelica]. Questo era uno di quei luoghi già descritti [nel canto XIX], dove la bella donna regina del Catai veniva spesso con Medoro dalla casa del pastore lì vicina.
103
Vede i nomi di Angelica e Medoro intrecciati assieme in cento nodi diversi e in cento luoghi [praticamente, ovunque]. Quante sono le lettere, tanti sono i chiodi con i quali Amore gli punge il cuore e lo ferisce. Va cercando con il pensiero in mille modi di non credere a quello a cui a suo dispetto crede: si sforza di credere che sia un’altra Angelica, quella che ha scritto il suo nome in quella scorza.
104
Poi dice: - Pure io conosco questa scrittura: l’ho veduta e letta tante volte. Forse ella può aver immaginato questo Medoro: forse ha messo a me questo cognome. - Con simili opinioni ben lontane dalla verità, ingannando sé stesso, lo scontento Orlando stette nella speranza che egli seppe procurare a sé stesso.
105
Ma quanto più cerca di spegnere il doloroso sospetto, tanto più lo riaccende e lo rinnova: come l’incauto uccello che si ritrova ad essere incappato nella rete o nel vischio, quanto più batte le ali e prova a districarsene, tanto più vi si lega stretto. Orlando giunge dove il monte si incurva formando una specie di arco sulla chiara sorgente.
106
Sull’entrata edere e viti flessibili con i loro rami storti avevano adornato il luogo. Qui erano soliti starsene abbracciati nelle ore più calde del giorno i due felici amanti. Vi avevano scritto i loro nomi dentro e d’intorno, più che negli altri luoghi circostanti, o con il carbone o con il gesso, o lo avevano impresso con la punta di un coltello.
107
L’afflitto conte a piedi qui discese; e vide sull’entrata della grotta un gran numero di parole, che di sua mano aveva tracciate Medoro, che sembravano state scritte proprio allora. Del grande piacere che aveva ricevuto nella grotta, aveva scritto in versi questa sentenza. Io penso che fosse espressa nella sua lingua e questo ne era il senso nella nostra:
108
- Liete piante, verdi erbe, limpide acque, spelonca oscura e gradevole per le fredde ombre, dove la bella Angelica, che nacque da Galafrone, amata invano da molti, spesso giacque nuda tra le mie braccia; del piacere che qui mi è stato dato, io povero Medoro non posso ricompensarvi con altro, che con le mie lodi:
109
e con il pregare ogni signore amante, i cavalieri, le damigelle, qualunque persona, del luogo o viandante, qui condotta per sua volontà o per caso fortuito, di dire alle erbe, alle ombre, all’antro, al ruscello, alle piante: abbiate benigni e sole e luna, e il coro delle ninfe, che provveda affinché il pastore non porti mai qui il proprio gregge –
110
Era scritto in arabo, che il conte intendeva bene quanto il latino: tra molte e molte lingue ch’egli conosceva bene, il paladino conosceva benissimo quella, e ciò più volte gli aveva evitato danni e vergogne, quando si trovò tra il popolo saraceno. Ma non si vanti, se ne ebbe altre volte giovamento; perché ora ne ha un danno, che può fargli ripagare tutto.
111
Quell’infelice lesse lo scritto tre volte e quattro e sei, e ogni volta cercando invano che non ci fosse scritto quel che c’era scritto; e lo vedeva sempre più chiaro e preciso: e ogni volta sentiva in mezzo al petto, afflitto, stringersi il cuore con fredda mano. Infine rimase con gli occhi e con la mente fissi nel sasso, non differente dal sasso [cioè anche lui pietrificato].
112
Fu allora sul punto di uscire totalmente di sé: così tutto in preda al dolore si abbandona. Credete a chi ne ha fatto esperienza, che questo è il dolore che supera tutti gli altri. Il mento gli era caduto sul petto, la fronte priva di baldanza e abbassata; e non poté avere (tanto il dolore lo oppresse) voce per lamentarsi, o lacrime per piangere.
113
L’affanno impetuoso gli rimase dentro, che voleva uscire tutto con troppa fretta. Così vediamo l’acqua restare nel vaso, che abbia largo il ventre e stretta la bocca; se lo capovolgiamo, il liquido che vorrebbe uscire tanto s’affretta, e nello stretto passaggio tanto s’intralcia, che ne esce fuori a goccia a goccia e a fatica.
114
Poi ritorna un poco in sé e pensa se è possibile che la cosa non sia vera: crede che qualcuno abbia voluto in quel modo infamare il nome della sua Donna e lo brama e lo spera, oppure che abbia voluto gravarlo di tanto insopportabile peso di gelosia, da farlo morire; e che quello, chiunque sia stato, abbia imitato molto bene la mano [la grafia] di lei.
115
Con così poca, con così debole speranza rianima lo spirito e un poco si rinfranca; quindi preme il dorso al suo Brigliadoro [sale sul suo cavallo e lo preme con il suo peso], mentre il Sole lascia il posto alla sua sorella [= la Luna]. Non fa molta strada ed ecco che da sopra i tetti [= dai camini delle case] vede uscire il vapore del fuoco [cioè il fumo], sente cani che abbaiano, mandrie che muggiscono; giunge alla casa e vi prende alloggio:
116
Languido smonta e lascia Brigliadoro a un garzone esperto, perché ne abbia cura. Altri gli tolgono le armi, altri gli speroni d’oro gli levano, altri vanno a pulire l’armatura. Questa era la casa dove Medoro giacque ferito e vi trovò una grande fortuna. Orlando si corica e non chiede di cenare, sazio di dolore e non di altre vivande.
117
Quanto più cerca di trovare quiete, tanto più trova affanno e pena; perché vede pieni delle scritte odiate ogni parete, ogni uscio, ogni finestra. Ne vorrebbe chiedere [informazioni]: poi tiene le labbra quiete; perché teme di rendere a se stesso troppo limpida, troppo chiara la cosa che cerca di velare di nebbia, affinché gli debba nuocere di meno.
118
Gli giova poco imbrogliare se stesso; perché, senza che egli lo domandi, c’è chi gliene parla. Il pastore, che lo vede così oppresso dalla sua tristezza, e che vorrebbe levargliela, cominciò senza rispetto [cioè senza considerarne le conseguenze sull’animo del paladino] a raccontargli la storia a lui ben nota di quei due amanti che egli ripeteva spesso a chi voleva ascoltarla:
119
com’egli in seguito alle preghiere di Angelica aveva portato nella sua casa Medoro; che era ferito gravemente ed ella curò la piaga e la guarì in pochi giorni: ma Amore ferì lei nel cuore d’una piaga maggiore di quella; e da una piccola scintilla l’accese tanto fuoco e così cocente, che ne ardeva tutta e non trovava pace;
120
e senza avere riguardo per la sua condizione di figlia del più grande re che ci sia in Oriente, spinta da troppo amore si ridusse a farsi moglie d’un povero fante. La conclusione della storia fu che il pastore fece portare davanti [a Orlando] la gemma che, alla sua partenza, per ringraziarlo della buona ospitalità, Angelica gli aveva dato [è lo stesso anello con pietra preziosa che Orlando aveva donato ad Angelica].
121
Questa conclusione fu la scure che con un colpo solo gli levò la testa dal collo, dopo che il manigoldo Amore lo aveva ripetutamente battuto [i manigoldi erano i carnefici che decapitavano il condannato dopo averlo battuto con la frusta]. Orlando cerca di celare il dolore; eppure è quello che lo sforza e malamente lo può nascondere: per lacrime e sospiri dalla bocca e dagli occhi conviene, voglia o non voglia, che infine prorompa.
122
Allorché può togliere il freno al suo dolore (poiché resta solo, senza ritegno per la presenza di altri) sparge un fiume di lacrime, rigando le gote giù dagli occhi e fino al petto: sospira e geme e con continui rivolgimenti va di qua di là per tutto il letto: è più duro d’un sasso e se lo sente più pungente che se fosse d’ortica.
123
In tanto aspro dolore gli sovviene che nello stesso letto in cui giaceva, l’ingrata donna doveva essere venuta a porsi più volte con il suo amante. Ora abborrisce quel letto di piume non diversamente, né con minore sveltezza se ne leva, di quanto faccia un contadino che si sia fatto un giaciglio d’erba per dormire e subito ne veda uscire una serpe.
124
Quel letto, quella casa, quel pastore subito gli vengono in tanto odio, che, senza aspettare che la Luna [tramonti], o che l’alba, che precede il nuovo giorno, sorga, piglia le armi e il destriero ed esce fuori in mezzo al bosco dove le frasche sono più buie; e quando poi è sicuro di essere da solo, con grida ed urli offre una via di sfogo al dolore.
125
Non cessa mai di piangere, mai di gridare; non si dà pace mai né di notte né di giorno: fugge da città e da borghi e giace nella foresta sul duro terreno all’aperto. Si meraviglia di sé, d’avere nella testa una così vivace sorgente d’acqua [cioè di lacrime] e di come possa mai sospirare così tanto; e spesso dice così a se stesso mentre piange:
126
- Queste non sono più lacrime, che mando fuori dagli occhi in maniera così copiosa. Le lacrime non sono bastate a sfogare il dolore: sono finite, quando il dolore era appena a metà. Spinta dal fuoco l’essenza vitale ora fugge per quella via [quella delle lacrime] che porta agli occhi; ed è essa [cioè l’essenza vitale] quella che sto versando e che porterà alle ore estreme [alla fine] insieme il dolore e la mia vita.
127
Questi che manifestano il mio tormento non sono sospiri, perché i sospiri non sono fatti così. Quelli hanno tregua talvolta; io non sento mai che il mio petto mandi fuori la sua pena con minore intensità. Amore che mi arde il cuore provoca questa vento, mentre batte le sue ali intorno al fuoco [cioè, l’Amore, che brucia e consuma il mio cuore, produce questi apparenti sospiri, che in realtà sono il vento prodotto dalle sue ali agitate intorno al fuoco da lui stesso acceso e alimentato]. Amore, con quale stratagemma lo fai, di tenere il mio cuore nel fuoco e non lo consumi mai?
128
Non sono, non sono io quel che sembro in viso: quello che era Orlando è morto ed è sotto terra; la sua donna ingratissima l’ha ucciso: così, mancandogli di fede, gli ha fatto guerra. Io sono il suo spirito da lui separato, che erra tormentandosi in questo inferno, affinché con la sua ombra, la sola cosa che resta di me, sia di esempio per chi pone speranza nell’Amore. -
129
Per il bosco errò il Conte tutta la notte; e allo spuntar della fiamma diurna [= il Sole] il suo destino lo fece tornare sopra la fonte, dove Medoro aveva scolpito le sue parole. Vedere la sua ingiuria scritta nel monte lo accese a tal punto, che in lui non restò neppure una minima parte che non fosse odio, rabbia, ira e furore; non più indugiò, che tirò fuori la spada.
130
Tagliò la scritta e il sasso e fece alzare fino al cielo al volo le schegge minute. Infelice quell’antro ed ogni albero in cui si leggono i nomi di Medoro e di Angelica! Così restarono quel giorno, che non daranno mai più né ombra né fresco, né a pastore né a gregge: e quella fonte, prima così chiara e pura, fu poco sicura di salvarsi da così tanta ira;
131
che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle non smise di gettare nelle belle onde, finché dalla superficie al fondo talmente le sconvolse, che non furono mai più chiare né limpide; e infine stanco, infine molle di sudore, poiché il vigore, vinto, non risponde più al suo sdegno, al grave odio, all’ira ardente, cade sul prato e sospira verso il cielo.
132
Afflitto e stanco infine cade nell’erba e punta gli occhi al cielo, e non dice una parola. Così rimane senza cibo e senza dormire, che il sole esce e tramonta per tre volte. Non cessò di crescere la pena immensa, che infine lo condusse fuor di senno. Il quarto giorno spinto da gran pazzia si stracciò di dosso maglie e piastre.
133
Qui resta l’elmo, là rimane lo scudo, lontano le varie parti dell’armatura e più lontano la corazza: tutte le sue armi, insomma vi concludo, erano sparse per il bosco. Poi si squarciò i panni e mostrò nudo il ventre peloso e tutto il petto e il dorso; e cominciò la grande follia, così orrenda, che mai nessuno sentirà parlare di una maggiore.
134
Venne in tanta rabbia, in tanto furore, che rimase offuscato in ogni senso. Non gli venne in mente di prendere in mano la spada, che penso avrebbe potuto fare cose meravigliose. Ma il suo vigore immenso non aveva bisogno né di quella né di una scure né di una bipenne [= ascia a doppio taglio]. Qui fece molte delle sue più grandi imprese; che sradicò con un solo colpo un alto pino:
135
e dopo il primo ne sradicò parecchi altri, come fossero finocchi, ebbi [= piante simili a sambuchi] o aneti [= un altro tipo di finocchi]; e fece la stessa cosa di querce e di vecchi olmi, di faggi e di orni e di elci e di abeti. Ciò che fa un uccellatore [= cacciatore di uccelli] che si prepara il campo, prima di porvi le reti, mondandolo di giunchi, stoppie e ortiche, egli faceva di cerri e di altre antiche piante.
136
I pastori che hanno sentito il fracasso, lasciando il gregge sparso nella foresta, chi di qua, chi di là, tutti a passi veloci vengono a vedere che cosa sta succedendo. Ma sono giunto a quel punto che, se io l’oltrepasso, la mia storia potrebbe diventarvi molesta; perciò piuttosto la voglio rinviare, prima che per la troppa lunghezza vi debba infastidire.

La pazzia d’Orlando, illustrazione di Gustave Doré