martedì 28 febbraio 2017

53 Il fantasma di Canterville - parte 3 (di Oscar Wilde)



3.
Allorché i componenti della famiglia Otis si riunirono il mattino successivo intorno al tavolo della prima colazione, la questione del fantasma venne discussa particolareggiatamente. Com'era naturale, il ministro degli Stati Uniti era piuttosto seccato che il suo dono fosse stato accolto con tanto malgarbo. «Io non ho l'intenzione» disse «di recargli alcuna offesa personale, e se si considera il lunghissimo periodo di tempo da cui egli è ospite di questa casa, trovo che non sia affatto educato accoglierlo con lanci di cuscini». Osservazione molto giusta e saggia, alla quale, mi dispiace di doverlo ammettere, i gemelli si misero a ridere. «D'altro canto» proseguì il ministro «se lui si ostina a non adoperare il Lubrificante Solare ci vedremo costretti a togliergli le catene, perché sarebbe impossibile dormire, altrimenti, con quel chiasso tremendo proprio a due passi dalle stanze da letto».
Il resto della settimana trascorse senza che essi venissero più disturbati: l'unico fenomeno che seguitava ad attrarre la loro attenzione era il continuo rinnovarsi della macchia di sangue sul pavimento della biblioteca. Questo era certamente un fatto inesplicabile, dato che la porta della biblioteca veniva chiusa a chiave ogni sera da Mister Otis in persona e le finestre ermeticamente sbarrate dall'interno. Lo stesso colore, per così dire camaleontico, della macchia, era di per sé sconcertante e dava adito ad un mucchio di commenti. Alcune mattine era di un rosso cupo, quasi ruggine, altre volte diventava vermiglia, poi trascolorava in fosca porpora, e un giorno che si erano riuniti in biblioteca per la preghiera in comune, secondo il semplice rito della Libera Chiesa Episcopale Americana Riformata, la trovarono trasformata in un bel verde smeraldo. Questi mutamenti caleidoscopici, com'era logico, divertivano moltissimo tutti quanti, e ogni sera davano luogo a scommesse. L'unica persona che non prendesse parte a quegli spassi era la piccola Virginia che, chissà per quale inesplicabile motivo, appariva sempre molto preoccupata alla vista della macchia di sangue, e il mattino che la trovò color verde smeraldo quasi quasi si mise a piangere.
Il fantasma fece la sua seconda comparsa nella notte della domenica. Erano da poco andati a letto quando intesero un pauroso fracasso nel vestibolo. Si precipitarono tutti di sotto e constatarono che una enorme, antichissima armatura, si era staccata dal suo supporto ed era caduta sul pavimento di pietra, mentre il fantasma di Canterville, seduto su una poltrona dall'alto schienale, si stava soffregando le ginocchia con un'espressione di acuta sofferenza dipinta sul volto. I gemelli, che erano venuti armati dei loro scacciacani, si affrettarono a sparargli addosso due scariche di pallottoline, con quella precisione di mira che si può ottenere soltanto dopo lunghe e attente esercitazioni sul proprio maestro di calligrafia, mentre il ministro degli Stati Uniti gli puntò addosso il revolver e, seguendo le regole dell'etichetta californiana, gli ingiunse di alzare le mani. Il fantasma balzò in piedi con un urlo inumano di rabbia e guizzò tra loro, dileguò come una nebbia, spegnendo al suo passaggio la candela che Washington Otis teneva in mano e lasciandoli così immersi in un'oscurità completa. Arrivato che fu in cima alle scale, si riprese e decise di prorompere nel suo celebre scroscio di risa demoniache. Queste gli erano state estremamente utili in più di un'occasione. Si dice che avessero fatta diventare grigia, in una sola notte, la parrucca di lord Raker, e comunque era un fatto che, per causa loro, ben tre governanti francesi di lady Canterville si erano licenziate prima della fine del mese di prova. Pertanto egli fece la sua raccapricciante risata, finché l'antica volta non risuonò ripetutamente in ogni recesso; ma la sua eco paurosa si era appena spenta che un uscio si aprì e la signora Otis vi si affacciò avvolta in una veste da camera azzurro chiaro dicendogli: «Ho proprio paura che lei non stia affatto bene. Perciò le ho portato una bottiglia di sciroppo del Dottor Dobell. Se si tratta di indigestione lo troverà un rimedio veramente eccellente». Il fantasma le lanciò un'occhiata satanica di indignazione e incominciò subito a fare i preparativi necessari per potersi trasformare in un enorme cane nero, impresa per la quale era giustamente famoso e alla quale il medico di famiglia aveva sempre attribuito l'idiozia congenita dello zio di lord Canterville, l'onorevole Thomas Horton. Ma un rumore di passi che si avvicinavano lo fece recedere dal suo bieco proposito, e si accontentò pertanto di diventare appena appena fosforescente, dileguandosi con un profondo e funereo gemito proprio nel momento in cui i gemelli stavano per piombargli addosso.
Come egli fu nella sua stanza, le forze lo abbandonarono e cadde in preda ad una violenta agitazione. La volgarità dei gemelli e il rozzo materialismo della signora Otis erano, si capisce, molto spiacevoli, ma ciò che lo rendeva addirittura disperato era l'aver dovuto constatare di non essere stato capace d'indossare la cotta di maglia. Aveva sperato che persino degli americani moderni si sarebbero emozionati a vedere uno spettro in armatura, se non per altro motivo, almeno per rispetto del loro poeta nazionale Longfellow, sulle cui poesie così piene di grazia e di fascino egli stesso si era intenerito nelle lunghe ore d'ozio, mentre i Canterville erano in città. Era la sua armatura, per giunta: l'aveva indossata al torneo di Kenilworth, e ne era stato molto complimentato niente di meno che dalla Regina Vergine in persona. Tuttavia, non appena aveva tentato di mettersela, poc'anzi, il peso dell'enorme corazza e dell'elmo di acciaio lo avevano completamente sopraffatto, ed era caduto pesantemente sul pavimento di pietra sbucciandosi le ginocchia e ammaccandosi seriamente le nocche della mano destra. Dopo questa disavventura si ammalò gravemente per diversi giorni e non abbandonò la propria stanza se non per tenere in efficienza la macchia di sangue. Alla fine però, a forza di curarsi, si rimise in salute e decise di compiere un terzo tentativo per spaventare il ministro degli Stati Uniti e la sua famiglia. Scelse il 17 di agosto, che cadeva di venerdì, per fare la sua comparsa, e passò quasi l'intera giornata a rivedere il proprio guardaroba. Infine la sua scelta cadde su un grande cappello con la tesa all'ingiù ornato di una piuma rossa, di un sudario sfrangiato ai polsi e al collo, e di una daga arrugginita. Verso sera scoppiò un violento temporale accompagnato da pioggia, e il vento era così furibondo che tutte le porte e le finestre del vecchio castello tremavano con gemiti e scricchiolii paurosi. Era un tempo infernale, proprio come piaceva a lui. Il suo piano d'azione era il seguente: sarebbe entrato pian piano nella camera di Washington Otis, gli avrebbe borbottato parole sconnesse dai piedi del letto, poi si sarebbe pugnalato per tre volte alla gola al suono di una musica in sordina. Nutriva contro Washington un rancore particolare, sapendo perfettamente che era lui a togliere ogni giorno la famosa macchia di sangue dei Canterville, grazie a quel suo maledetto Detersivo Incomparabile Pinkerton. Dopo aver ridotto in uno stato di indicibile terrore quel giovane temerario e avventato, sarebbe passato nella stanza occupata dal ministro degli Stati Uniti e da sua moglie, dove avrebbe posato sulla fronte della signora Otis una mano umidiccia, mentre avrebbe sibilato nelle orecchie del suo tremebondo marito gli orrendi segreti della cappella mortuaria. In quanto alla piccola Virginia non aveva ancora deciso come comportarsi. In fondo essa non lo aveva mai né offeso né insultato, ed era graziosa e gentile. Pochi gemiti cavernosi dal guardaroba, pensò, sarebbero stati più che sufficienti, oppure, se non fosse riuscito a svegliarla, le avrebbe grattato la trapunta del letto con dita tremanti di paralisi. Ai gemelli, invece, era ben deciso a impartire una lezione coi fiocchi. Per prima cosa, naturalmente, si sarebbe seduto sui loro petti, in modo da provocare la sensazione soffocante dell'incubo.
Poi, dato che avevano i letti vicini, si sarebbe messo in mezzo assumendo l'aspetto di un cadavere verde e freddo come il ghiaccio, finché quelli si fossero sentiti immobilizzati dal terrore, e infine avrebbe gettato il sudario e si sarebbe messo a strisciare per la stanza con ossa calcinate e un'unica pupilla roteante, nella personificazione di "Daniele il Muto", ovvero "Lo Scheletro del Suicida", un rôle nel quale più di una volta era stato di effetto strepitoso e che egli considerava in tutto e per tutto eguale alla sua celebre creazione di "Martino il Maniaco", ovvero il "Mistero Mascherato".
Alle dieci e mezzo udì la famiglia che andava a coricarsi. Fu disturbato per un certo tempo da urla e sghignazzate selvagge - i gemelli, naturalmente, i quali si stavano certamente divertendo prima di mettersi a dormire - ma alle undici e un quarto tutta la casa era immersa nel silenzio, e come scoccò la mezzanotte egli uscì dal suo rifugio. Il gufo batteva le ali contro le vetrate, il corvo gracchiava appollaiato in cima all'antico tasso, il vento errava gemendo attorno al castello come un'anima in pena, ma la famiglia Otis dormiva, inconsapevole della propria sorte, e alto sopra i rumori della pioggia e della tempesta il fantasma poté distinguere il sonoro russare del ministro degli Stati Uniti. Emerse cautamente dal pannello di legno che rivestiva la parete, con un sorriso malvagio sulla bocca avvizzita e crudele, e la luna si nascose la faccia dietro ad una nuvola mentre egli passava davanti al finestrone dove le sue insegne e quelle di sua moglie assassinata splendevano in campo azzurro e oro. Avanti, avanti; egli procedette, scivolando silenzioso come un'ombra malefica, e la stessa tenebra parve inorridire al suo passaggio. Ad un certo momento gli sembrò di udire un appello lontano, e si fermò, ma non era che l'abbaiare di un cane della Cascina Rossa, ed egli riprese ad avanzare, borbottando strane maledizioni del sedicesimo secolo e brandendo di quando in quando la daga rugginosa nell'aria notturna. Giunse infine all'angolo del corridoio che conduceva nella camera dello sfortunato Washington. Sostò per un istante: il vento gli faceva svolazzare intorno al capo le lunghe ciocche grigie, e scompigliava in pieghe fantastiche, grottesche, l'orrore senza nome del suo sudario. Quindi la pendola suonò il quarto ed egli comprese che l'ora era venuta. Ridacchiò tra sé, lugubremente, e svoltò l'angolo; ma subito cadde all'indietro con un gemito spaventoso di lamento e si nascose la faccia sbiancata tra le mani lunghe e ossute. Proprio davanti a lui si ergeva uno spettro mostruoso, immobile come un'immagine scolpita e allucinante come il sogno di un pazzo. Aveva il cranio calvo e lucido, e un riso osceno pareva gli avesse distorto i lineamenti in un ghigno perpetuo. Dagli occhi uscivano bagliori di luce scarlatta, la bocca era un vasto gorgo di fuoco, e un lenzuolo ributtante, simile al suo, ricopriva come neve immobile quella forma gigantesca. Sul suo petto era appeso un cartello vergato in strani caratteri antichi, che assomigliava a qualche bando vergognoso, a qualche testimonianza di peccati orrendi, a qualche spaventoso calendario del crimine, e alto nella mano destra impugnava un falcetto d'acciaio scintillante.
Non avendo mai visto uno spettro in vita sua, era troppo logico che il povero fantasma ne fosse terribilmente spaventato, e dopo un'altra fuggevole occhiata alla paurosa apparizione, fuggì precipitosamente nella propria stanza, inciampando nel sudario mentre correva lungo il corridoio, e alla fine lasciò cadere la spada negli stivaloni da caccia del ministro, dove fu trovata dal maggiordomo l'indomani mattina. Una volta al sicuro nel segreto del proprio appartamento, si lasciò cadere sul letto, un modesto pagliericcio, e nascose la faccia sotto le coperte. Dopo qualche tempo, l'antico spirito dei Canterville ebbe infine il sopravvento in lui, ed egli decise che sarebbe andato a parlamentare con l'altro fantasma non appena fosse spuntata l'alba. Perciò, proprio mentre l'aurora stava tingendo d'argento le cime dei colli, ritornò nel punto in cui i suoi occhi si erano posati per la prima volta sulla truce apparizione, poiché aveva riflettuto che, dopo tutto, due fantasmi valgono meglio di uno solo e che forse, con l'aiuto del suo nuovo amico, avrebbe potuto agire con maggiore efficacia contro i gemelli. Come fu giunto all'angolo del corridoio, uno spettacolo terribile si offrì alla sua vista. Qualcosa doveva certamente essere accaduto allo spettro, perché la luce era del tutto scomparsa dalle sue occhiaie vuote, il falcetto luccicante gli era caduto di mano, ed esso se ne stava poggiato contro il muro in una postura molto scomoda ed innaturale. Il fantasma diede un balzo e lo afferrò tra le braccia; ma, con suo grande orrore, la testa si staccò dal busto e scivolò a terra, il corpo assunse una posizione recline, ed egli si trovò a stringere una tenda da letto in cotonina bianca, con una scopa, un coltellaccio da cucina, e una zucca vuota ai piedi. Incapace di comprendere questa strana trasformazione, s'impadronì con ansia febbrile della scritta misteriosa ed ecco che nel grigio chiarore del mattino poté leggere queste inquietanti parole:
IL FANTASMA DE OTIS
Unico Fantasma Autentico e Originale
Guardatevi dalle Imitazioni
Tutti gli altri sono falsi

Ad un tratto capì ogni cosa. Era stato gabbato, burlato e sconfitto! Lo sguardo fiero dei Canterville gli balenò negli occhi: fece scricchiolare l'una contro l'altra le gengive sdentate, e levando alte sopra il capo le mani scheletriche giurò, secondo la pittoresca fraseologia dell'antica scuola, che allorquando Cantachiaro avesse fatto echeggiare due volte il suo allegro corno, imprese di sangue sarebbero state ordite e l'Omicidio si sarebbe aggirato per la contrada con passi felpati. Aveva appena terminato di proferire questo terribile giuramento, che dal tetto ricoperto di tegole rosse di un lontano cascinale, un gallo cantò. Il fantasma rise un lungo, sommesso, amaro riso, e attese. Attese per lunghe ore, ma il volatile, chissà per quale motivo, non cantò la seconda volta. Infine, alle sette e mezzo, il sopraggiungere delle cameriere lo costrinse ad abbandonare la sua veglia minacciosa, ed egli ritornò incespicando di stanchezza nella propria camera, rimuginando sulle sue vane speranze e sui suoi propositi così miseramente frustrati. Prese poi a consultare vari libri di cavalleria antica, e scoprì che in ogni occasione in cui quel giuramento era stato pronunciato, Cantachiaro aveva cantato sempre una seconda volta. «Maledetto volatile!» borbottò tra sé «e dire che nei bei tempi passati gli avrei trapassato la gola con la mia lancia appuntita e lo avrei fatto cantare per me nell'angoscia della morte!». Poco dopo si ritirò entro un comodo sarcofago di piombo dove rimase a riposare fino a tarda sera.

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