Nel secondo
capitolo di questo meraviglioso
romanzo facciamo la conoscenza della sorella di Pip, che ha il compito di
allevare “con le sue mani” il piccolo orfano, e di suo marito, il fabbro Joe
Gargery, un buon uomo anche lui vittima di una moglie dispotica.
Come in altre
opere di Dickens, la descrizione del mondo infantile (dei suoi terrori, dell’incomprensione
del mondo degli adulti, delle improvvise tenerezze che poche persone sono in
grado di riservare ai bambini) acquista il livello della credibilità più
totale, direi della perfezione.
CAPITOLO II
CAPITOLO II
Mia
sorella, la moglie di Joe Gargery, più vecchia di me di oltre vent'anni, godeva
di grande stima nella propria e nell'altrui opinione per avermi allevato con le
sue mani. Dovendo a quel tempo scoprire da me il senso di quell'espressione e
sapendo quanto fossero rudi e pesanti le sue mani e quanto fosse radicata in
lei l'abitudine di metterle addosso al marito e a me, credevo che con le sue mani
ci stesse allevando entrambi.
Non era
per niente attraente, mia sorella, e avevo la vaga impressione che anche a
farsi sposare ci fosse riuscita con le sue mani. Joe aveva la carnagione
chiara, riccioli d'un biondo pallido che gli incorniciavano il viso liscio,
occhi di un celeste così incerto che parevano essersi stinti a contatto del
bianco. Era una cara persona, mite, buona, gentile, placida, ingenua. Una
specie di Ercole quanto a forza e anche quanto a debolezza.
Mia
sorella aveva occhi e capelli neri, e una pelle talmente arrossata, che mi
chiedevo talvolta se per lavarsi usasse una grattugia da spezie al posto del
sapone. Era alta e ossuta e indossava quasi sempre un ruvido grembiule annodato
dietro con un doppio laccio, provvisto sul davanti di una pettorina quadrata e
inespugnabile, letteralmente ricoperta di aghi e spilli. Il fatto di portare
quell'indumento tanto spesso, le forniva l'occasione per lodare altamente sé
stessa e biasimare pesantemente Joe; anche se in effetti non riesco a trovare una
ragione perché ogni giorno se lo mettesse o perché, pur mettendolo, non se lo
dovesse poi togliere.
La fucina
di Joe confinava con la casa, costruita in legno come molte abitazioni dalle
nostre parti - quasi tutte, a quel tempo. Quando tornai correndo dal cimitero,
la fucina era chiusa e Joe se ne stava seduto da solo in cucina. In quanto
compagni di sventura, ci scambiavamo abitualmente le nostre confidenze e Joe me
ne fece una non appena sollevai il saliscendi e sbirciai verso l'angolo del
camino dove stava seduto.
«Tua
sorella è uscita a cercarti una dozzina di volte, Pip, e anche adesso è fuori e
così fa tredici.»
«Davvero?»
«Sì, e il
peggio è che si è portata dietro Tickler.» (1)
A questa
lugubre notizia, afferrai l'unico bottone del mio panciotto e mi misi a
rigirarlo guardando tristemente il fuoco. Tickler era un bastone dalla punta cosparsa
di pece, che il contatto con le mie forme titillate aveva reso liscio.
«Si è
seduta» disse Joe «e si è alzata, e ha dato di piglio a Tickler, ed è schizzata
fuori. Proprio così ha fatto,» disse Joe, attizzando lentamente il fuoco tra le
grate e restando a fissarlo, «è schizzata fuori come un’ossessa.»
«È tanto
che è uscita, Joe?» Lo trattavo sempre come un mio pari, considerandolo
semplicemente un ragazzo di una specie più grossa.
«Be',»
fece Joe, lanciando un'occhiata all'orologio olandese, «quest’ultima volta è
schizzata fuori che saranno cinque minuti, Pip. Eccola che torna! Svelto,
dietro la porta, vecchio mio, e metti fra te e lei l’asciugamano!»
Seguii il
suo consiglio. Mia sorella, spalancando la porta e trovandole dietro un
ostacolo, ne comprese al volo la ragione e ricorse a Tickler per ulteriori indagini.
Concluse scaraventandomi - servivo spesso da proiettile coniugale - addosso a
Joe, il quale, felice di tenermi tra le braccia comunque, mi trasferì
nell'angolo del camino, e senza parere mi mise al riparo della sua grossa
gamba.
«Dove sei
stato scimmiotto?» chiese la signora Gargery, pestando i piedi. «Cos'è che hai
combinato per mettermi in croce e darmi il tormento? Sbrigati a dirlo, se no ti
tiro fuori da lì, ce ne fossero anche cinquanta di Pip e cinquecento di
Gargery.»
«Sono
solo andato al cimitero» risposi dalla mia sedia, piangendo e sfregandomi.
«Al
cimitero» ripeté mia sorella. «Se non fosse per me, al cimitero ci andavi da un
pezzo e ci restavi, anche. Chi è che ti ha tirato su con le sue mani?»
«Tu sei stata,»
dissi.
«E perché
l'ho fatto, mi piacerebbe proprio sapere?» esclamò mia sorella.
«Io non
lo so» mugolai.
«Io non
lo so!» disse, «ma so che non lo rifarei mai più! Giuro che da quando sei nato,
questo grembiule ce l'ho sempre addosso. Non mi bastava essere la moglie di un
fabbro (e di un Gargery, poi), mi toccava anche esser tua madre.»
Mentre
guardavo sconsolato il fuoco, i miei pensieri vagarono in un'altra direzione.
Il fuggiasco nella palude coi ferri alla gamba, il misterioso giovane, la lima,
il cibo, l'impegno tremendo che mi ero preso di rubare in quella casa
accogliente, presero forma tra le braci avide di vendetta.
«Ah!»
riprese, rimettendo Tickler al suo posto. «Sì, al cimitero! Venite a parlarmi
di cimitero, voi due!» Uno dei due, sia detto per inciso, non ne aveva parlato
affatto. «Tra tutt'e due, a me mi ci mandate al cimitero uno di questi giorni!
Proprio due bei campioni sareste senza di me!»
Mentre lei
si metteva ad apparecchiare per il tè, Joe mi sbirciò sopra la gamba, come se
stesse mentalmente soppesando e valutando che tipo di coppia saremmo stati io e
lui, nella luttuosa eventualità prospettata. Poi, come faceva abitualmente se
c'era aria di burrasca, se ne rimase seduto a tastarsi la fedina destra e i
riccioli chiari seguendo con gli occhi i movimenti di Mrs. Gargery.
Mia
sorella aveva un suo modo invariato e incisivo di prepararci il pane imburrato.
Per prima cosa afferrava la pagnotta con la mano sinistra e se la schiacciava
contro la pettorina - infilzandoci ora uno spillo, ora un ago, che poi ci
ritrovavamo in bocca. Passava poi a spalmare il burro (non troppo) sul pane,
con l'accuratezza di uno speziale che stesse preparando un impiastro, usando
entrambi i lati del coltello con destrezza e vigore, rifilando e rimodellando
il burro accumulato intorno alla crosta. Dava infine una bella pulita alla lama
sul bordo dell'impiastro e recideva una grossa fetta tonda: prima di staccarla
definitivamente dalla pagnotta, la trinciava in due parti uguali, di cui una
toccava a Joe, l'altra a me.
Pur
avendo fame, in quell'occasione non osai mangiare la mia parte. Sentivo di
dover fare un po' di scorta per il mio spaventoso conoscente e per il suo
giovane complice, anche più terrificante di lui. Conoscevo l'estrema parsimonia
di mia sorella e sapevo che le mie ricerche truffaldine nella credenza potevano
rivelarsi del tutto infruttuose. Decisi così di infilarmi il pezzo di pane e burro
nella gamba dei pantaloni. Per attuare questo proposito, mi ci volle un
tremendo sforzo di volontà. Era come trovarmi a decidere di saltare dal tetto
di una casa altissima, o di tuffarmi in acque molto profonde. E l'ignaro Joe
non faceva che accrescere le mie difficoltà. Eravamo massoni, come ho già detto,
uniti da comune sventura, e il suo atteggiamento nei miei confronti era di
solidale cameratismo; sicché avevamo preso l'abitudine, la sera, di confrontare
silenziosamente la dimensione dei nostri bocconi, offrendo a più riprese le
fette di pane alla nostra reciproca ammirazione - il che ci spronava a
rinnovare gli sforzi. Quella sera Joe continuò a invitarmi a partecipare alla
solita gara amichevole, mostrandomi la fetta che si riduceva a vista d'occhio;
ma io ero sempre lì con la mia gialla tazza del tè su un ginocchio e il pane
intatto sull'altro. Infine conclusi disperatamente che il mio piano andava
eseguito e anche nel modo meno improbabile consentito dalle circostanze.
Approfittai di un istante in cui Joe aveva appena distolto lo sguardo da me e
mi infilai pane e burro giù per la gamba.
Joe era
palesemente inquieto per la mia supposta mancanza di appetito; diede un morso
pensieroso al pane, evidentemente senza gustarlo. Lo rigirò in bocca molto più
a lungo del solito, rimuginandoci sopra per un bel po' e infine lo mandò giù
come fosse una pillola. Stava per dare un altro morso, con la testa
girata di fianco per staccare un bel boccone, quando lo sguardo gli cadde su di
me e vide che il mio pane e burro era sparito.
La
meraviglia, lo sgomento che lo arrestarono a occhi sgranati sulla soglia del
morso, erano troppo evidenti perché mia sorella non se ne accorgesse.
«Cosa c'è
adesso?» chiese acida, poggiando la tazza.
«Ma dico,
insomma!» borbottò Joe, scuotendo la testa con un'aria di grave rimprovero. «Pip,
vecchio mio! Guarda che ti prendi un accidente. Ti si ficca da qualche parte.
Mica puoi averlo masticato!»
«Cosa c'è
adesso?» ripeté mia sorella più aspramente di prima.
«Se ce la
fai a buttar fuori anche una briciola con un colpo di tosse, ti raccomando di
farlo, Pip» disse Joe preoccupatissimo. «La creanza è creanza, ma anche la
salute è salute.»
A quel
punto mia sorella era già su tutte le furie e si avventò su Joe, lo afferrò per
le basette, gli sbatté per qualche tempo la testa contro il muro mentre io dal
mio angolo, con aria colpevole, assistevo alla scena.
«E adesso
forse ti decidi a dire cosa succede,» disse mia sorella ansimando, «razza di
grosso maiale inebetito!»
Joe le
rivolse uno sguardo impotente, diede un morso impotente al pane e poi di nuovo
mi fissò gli occhi addosso.
«Tu sai,
Pip,» disse solennemente, con l'ultimo boccone in bocca e un tono confidenziale,
come se fossimo soli, «che io e te si è sempre stati amici e non sarò io
l'ultimo a farti la spia, mai e poi mai. Ma un…» spostò la sedia e guardò il
pavimento in mezzo a noi, e di nuovo su di me, «ma un malloppo di quella
sorta!»
«Ha ingoiato
il cibo senza masticarlo, eh?» urlò mia sorella.
«Sai,
vecchio mio,» disse Joe guardando me e non lei, col boccone ancora in bocca, «anch'io
alla tua età inghiottivo senza masticare e da ragazzo ne ho conosciuti molti
della stessa risma; ma, come te, non ne ho mai visto nessuno, Pip; è un
miracolo che non ti ci sei strozzato.»
Mia
sorella si tuffò verso di me, mi ripescò per i capelli e disse solo queste
orrende parole: «Vieni! La purga!»
A quei
tempi, non so che bestia di medico aveva riesumato come buon farmaco l’infuso
di pece, e la signora Gargery ne teneva sempre una scorta nella credenza,
convinta che la sua efficacia fosse proporzionale al suo sapore disgustoso. Nel
migliore dei casi, l'elisir mi veniva somministrato come ricostituente di
prim'ordine in quantità tali, da darmi la sensazione di andare in giro puzzando
come uno steccato dipinto a nuovo. In quella situazione particolare l'urgenza
del mio caso esigeva un'intera pinta dell'intruglio che, per facilitarmi il
compito, mia sorella mi rovesciò in gola tenendomi ferma la testa
sotto il braccio, come uno stivale tenuto fermo da un cavastivali. Joe se la
cavò con mezza pinta, che fu costretto a ingoiare (con suo gran fastidio mentre
se ne stava accanto al fuoco ruminando e meditando), perché uno scossone se
l'era preso anche lui. Giudicando in base alla mia esperienza, direi che
sicuramente lo scossone l'ebbe dopo, anche se non se l'era preso prima.
È un peso
tremendo, per un uomo o un ragazzo, essere accusato dalla propria coscienza; ma
se, nel caso di un ragazzo, quel segreto fardello si aggrava in presenza di un
altro fardello segreto lungo la gamba dei pantaloni, è davvero (e ne sono
testimone) un grande castigo. La colpevole consapevolezza di esser
sul punto di derubare mia sorella - non pensavo a Joe poiché non avevo mai
considerato di sua appartenenza alcuna proprietà domestica – sommata alla
necessità di tenere una mano sul pane e burro, seduto che fossi oppure spedito
in giro per la cucina per qualche piccola incombenza, quasi mi fece impazzire.
Quando poi all'improvviso il fuoco avvampò, destato dal vento della palude, mi
parve di sentire là fuori la voce dell'uomo coi ferri alla gamba cui avevo
giurato segretezza, che gridava di non potere né volere sopportare la fame sino
all'indomani, e di dover essere nutrito all'istante. Vi erano momenti in cui
pensavo: e se il giovane faticosamente trattenuto dall'affondarmi dentro le
mani, cedesse a una sua naturale propensione all'impazienza, o sbagliasse
giorno sentendosi autorizzato al possesso del mio cuore e del mio fegato non
domani ma stasera? Se mai a qualcuno capelli si rizzarono per il terrore, quell’uno
ero io. Ma, forse, a nessuno si sono mai rizzati!
Era la
vigilia di Natale e, dalle sette alle otto secondo l’orologio olandese, dovevo
rimestare il budino per l'indomani con un mestolo di rame. Ci provai con quell'ingombro
sulla gamba (il che mi riportò all'uomo e all'ingombro sulla sua gamba), ma mi
accorsi che quel movimento rendeva incontrollabile il pane e burro che tendeva
a sgusciare verso la caviglia. Fortunatamente sgattaiolai fuori dalla cucina e
depositai quella parte di coscienza nella mia stanza da letto in soffitta.
«Ascolta!»
dissi, quand'ebbi finito di mescolare, seduto nell'angolo del camino a
prendermi l'ultimo caldo prima d'esser mandato a letto. «Erano scariche di
artiglieria, Joe?»
«Oh!»
disse Joe. «C’è in giro un altro galeotto.»
«Cosa
vuol dire, Joe?» chiesi.
La
signora Gargery, che si assumeva regolarmente il compito di fornire qualunque risposta,
disse stizzosamente: «Evaso, evaso», e mi somministrò questa definizione al
modo dell’infuso di pece.
Mentre
era china sul cucito, col solo moto delle labbra chiesi a Joe: «Cos'è un galeotto?».
Il movimento delle sue labbra mise insieme una risposta talmente elaborata, che
non mi riuscì di ricavarne altro che la parola «Pip».
«Un
forzato se l'è filata ieri dopo il cannone del tramonto,» disse Joe a voce alta,
«e hanno sparato per dare l'allarme. Ne sarà scappato un altro, se sparano di
nuovo.»
«Chi
spara?» dissi io.
«Accidenti
a te!» s'intromise mia sorella, guardandomi arcigna da sopra il lavoro. «Che
razza di ficcanaso sei! Non far domande, e non ti si diranno bugie.»
Non mi parve
gentile, nei confronti di sé stessa, sottintendere che, pur trovandomi io a
fare delle domande, lei mi avrebbe risposto con delle menzogne. Ma gentile non
lo era mai, mia sorella, a meno che non vi fossero degli estranei
A quel
punto Joe mi fece incuriosire ancor di più, sforzandosi di spalancare la bocca
a più non posso per dar forma a una parola, che mi parve «megera». Mi sembrò
quindi naturale indicare mia sorella, formando la parola «Lei?» Ma Joe non mi
badò e spalancando di nuovo la bocca, ne scrollò fuori la forma di una parola
altamente enfatica, che comunque non riuscii a capire.
«Signora
Gargery,» dissi come ultima risorsa, «gradirei sapere (se non ha nulla in
contrario) da dove vengono gli spari.»
«Dio ti
benedica!» esclamò come non intendesse dir quello, ma piuttosto il contrario. «Dalla
galera!»
«Oh!»
dissi io, guardando Joe. «Galera!»
Joe tossì
in tono di rimprovero, come per dire: «Be', non te l'avevo detto?»
«E, di
grazia, che cos’è una galera?» domandai.
«Ecco
come vanno le faccende, con questo ragazzo!» esclamò mia sorella, puntando su
di me mi ago e filo e scuotendo la testa. «Dagli una risposta e ne vuole cento.
La galera è la nave-prigione dall'altra parte dell'acquamorta.» Dalle nostre
parti usavamo sempre quel nome per indicare la palude.
«Mi piacerebbe
sapere chi ci mettono, nella nave-prigione, e perché ce li mettono» dissi io, in
modo generale, e con tranquilla disperazione.
Era
troppo, per la signora Gargery, che si alzò di scatto, e: «Ti dico una cosa,
giovanotto,» disse «non ti ho tirato su con le mie mani perché cavassi il fiato
alla gente. Sarebbe un titolo non di lode, ma di biasimo, per me, se l’avessi
fatto. In galera ci finiscono quelli che ammazzano, rubano, imbrogliano e ne
combinano di tutti i colori; comunque cominciano sempre facendo domande. E
adesso fila a letto!»
Non mi
era mai consentito farmi luce con una candela, e mentre salivo le scale al buio
con un ronzio in testa - ci aveva suonato il tamburello col ditale, come
accompagnamento alle sue ultime parole - mi sentii paurosamente consapevole del
vantaggio che la vicinanza della galera mi offriva. Era lì che sarei
finito. Avevo iniziato facendo domande, avrei proseguito derubando mia sorella.
Da
allora, e di tempo ne è passato parecchio, ho pensato spesso che sono in pochi
a sapere quale senso del segreto abbia un ragazzo in preda al terrore. Poco
importa che esso sia assurdo, conta solo il fatto che esista. Io avevo un
terrore mortale del giovane avido del mio cuore e del mio fegato; avevo un
terrore mortale del mio interlocutore coi ferri alla gamba; avevo un terrore
mortale di me stesso e della spaventosa promessa che mi era stata estorta. Non
vi era speranza di salvezza nella mia onnipotente sorella che non perdeva
occasione per respingermi; tremo pensando a quanto sarei stato disposto
a fare, nel segreto impostomi dal terrore.
Se quella
notte dormii, fu solo per vedermi scivolare sul fiume, a cavallo di un’impetuosa
marea verso la galera; mentre passavo davanti alla forca, un pirata spettrale
urlava col portavoce di tornare a riva per farmi impiccare all'istante, senza
aspettare dell'altro tempo. Avevo paura di addormentarmi, ammesso pure che ne sentissi
l'inclinazione, sapendo che avrei dovuto saccheggiare la dispensa al primo
fioco chiarore dell'alba. Non potevo agire di notte, essendo impossibile a quel
tempo procurarsi una luce con una semplice strofinata; per vederci, avrei
dovuto battere l'acciarino sulla pietra focaia, facendo non meno rumore del
pirata che scuoteva le sue catene.
Non
appena il grande manto di velluto nero fuori dalla mia finestrella si striò di
grigio, mi alzai e scesi dabbasso, mentre ogni tavola su cui poggiavo i piedi,
e ogni fessura di ogni tavola mi gridava: «Al ladro!» e «Sveglia, signora
Gargery!» Nella dispensa, molto più rifornita del solito in quella stagione
dell'anno, fui messo in grande agitazione da una lepre appesa per le zampe che
mi parve di sorprendere, mentre passavo, a farmi l'occhiolino. Non ebbi tempo
di verificare, né di vagliare, né di fare qualsiasi altra cosa, perché non
avevo tempo da perdere. Rubai del pane, qualche crosta di formaggio, un mezzo
vaso di frutta secca (che legai nel fazzoletto insieme al pane imburrato della
sera precedente), un po' di acquavite (che travasai dall'orcio in una bottiglia
di vetro, già usata di nascosto nella mia stanza per preparare quella bibita
inebriante che è l'acqua di liquirizia; diluendo poi l'acquavite rimasta col
liquido di una brocca che stava nella credenza in cucina), un osso mezzo
spolpato e un pasticcio di maiale bello tondo e compatto. Me ne stavo quasi
andando senza il pasticcio, quando ebbi la tentazione di arrampicarmi su uno
scaffale per vedere cosa fosse quella pietanza riposta con tanta cura
nell'angolo in un recipiente di terracotta ben coperto, e scoprii che era il
pasticcio, e me ne appropriai nella speranza che non servisse a un uso
immediato e che per qualche tempo non se ne notasse la mancanza. Una porta
metteva in comunicazione la cucina con la bottega; girai la chiave, tolsi il
catenaccio e presi una lima dagli utensili di Joe. Poi rimisi chiave e
catenaccio al loro posto, aprii la porta da cui ero entrato dopo la corsa della
sera precedente, la richiusi e mi precipitai verso la palude nebbiosa.
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(1)
Tickler = il termine viene da to tickle,
che significa titillare, accarezzare.
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