lunedì 30 aprile 2018

184 Grandi speranze - Capitolo VII (di Charles Dickens)



Concludo questo breve invito alla lettura di “Grandi speranze” con il capitolo settimo, in cui si precisano meglio i caratteri di alcuni dei personaggi principali e compare per la prima volta Miss Havisham, una signora spaventosamente ricca e arcigna, che avrà nel seguito del romanzo un ruolo importante negli sviluppi dell’educazione di Pip.

All'epoca in cui al cimitero leggevo le epigrafi sulla tomba di famiglia, avevo appena quel po' di istruzione che mi permetteva di sillabarle. Mi riusciva difficile persino interpretare il loro semplice significato, poiché leggevo moglie del Sullodato come un complimentoso riferimento all'ascesa di mio padre a un mondo migliore; e non ho dubbi che se a uno dei miei parenti morti si fosse alluso come Sottolodato, mi sarei formato un'opinione pessima di quel membro della famiglia. E neppure avevo le idee chiare su quali posizioni teologiche pretendesse da me il catechismo; ricordo infatti nitidamente di aver supposto che il mio impegno a seguire la stessa via tutti i giorni della mia vita, mi imponesse l'obbligo, una volta fuori di casa, di attraversare il villaggio prendendo sempre la stessa direzione, senza mai variarla svoltando in giù all'altezza del carraio, o in su all'altezza del mulino.
Quando fossi stato grande abbastanza, sarei diventato apprendista fabbro, e fino al momento di assumere quella carica, non dovevo essere, come diceva mia sorella, vezzoso, o (come lo rendo io) viziato. Perciò non solo facevo il ragazzo di bottega di Joe, ma se capitava che un vicino avesse bisogno di un ragazzino per scacciare gli uccelli, o raccogliere pietre, o fare altri lavori del genere, il privilegio di essere il prescelto toccava a me. Ma affinché la nostra condizione di superiorità non ne risultasse compromessa, era di dominio pubblico che tutti i miei guadagni finivano in un salvadanaio posto sulla mensola del camino in cucina. Suppongo che fossero destinati a contribuire al saldo del debito nazionale, ma so per certo che non speravo affatto in una compartecipazione al tesoro.
La prozia di Wopsle teneva una scuola serale nel villaggio; vale a dire, era una vecchia ridicola, di mezzi limitati e illimitati acciacchi, che si addormentava tutte le sere dalle sei alle sette alla presenza di bambini che pagavano due pence a testa la settimana, per avere l'opportunità di migliorarsi vedendola dormire. Era affittuaria di una casetta di cui Wopsle occupava il primo piano; noi scolari lo sentivamo leggere nella sua stanza in modo austero e grandioso, e di tanto in tanto picchiare sul soffitto. Era in uso la finzione di un esame cui Wopsle sottoponeva gli allievi ogni tre mesi. Ciò che faceva in quelle occasioni, consisteva nell'arrotolarsi i polsini, scompigliarsi i capelli e declamarci l'orazione di Marcantonio sul corpo di Cesare, seguita regolarmente dall'Ode sulle passioni di Collins; lo veneravo soprattutto nella parte di Vendetta che getta a terra con fragore la spada insanguinata e afferra con furia la tromba foriera di guerra. Non ero ancora nella situazione, in cui mi sarei trovato in seguito, di intrattenere rapporti con le Passioni e di metterle a confronto con Collins e Wopsle, a tutto svantaggio di quei due signori.
Nella stessa stanza, oltre all'Istituzione Pedagogica, vi era anche un piccolo emporio. La prozia di Wopsle non aveva la minima idea di quale merce disponesse, né quale fosse il prezzo di ogni singolo articolo; conservato in un cassetto, vi era però un taccuino bisunto che fungeva da listino dei prezzi, e grazie a quell'oracolo Biddy regolava tutte le transazioni commerciali. Biddy era la nipote della prozia di Wopsle; devo ammettere di non essere in grado di dire che grado di parentela la legasse a lui. Era un'orfana come me, e come me era stata allevata da qualcun altro con le sue proprie mani. Mi sembrava degna di nota soprattutto per le sue estremità: i capelli avevano un costante bisogno di una spazzola, le mani di sapone, le scarpe scalcagnate di un calzolaio. La descrizione deve ritenersi appropriata per tutti i giorni della settimana tranne uno. La domenica andava in chiesa tutta ripulita.
Aiutandomi da solo, e assistito più da Biddy che dalla prozia di Wopsle, mi aprii a fatica un varco attraverso l'alfabeto, come si fosse trattato di un ammasso di rovi, ricevendo da ogni lettera non pochi crucci e graffi. Caddi poi in mezzo ai numeri, quei nove ladroni che parevano escogitare ogni sera nuovi travestimenti per non esser riconosciuti. Comunque alla fine, brancolando e annaspando, iniziai a leggere, scrivere e far di conto, su scala estremamente ridotta.
Una sera me ne stavo seduto nell'angolo del camino con la mia lavagna, sforzandomi di mettere insieme una lettera per Joe. Doveva essere più di un anno dopo la nostra caccia in palude, poiché era passato molto tempo, era inverno e faceva un gran freddo. Aiutandomi con un alfabeto che tenevo sul focolare ai miei piedi, riuscii dopo una o due ore a impiastricciare a stampatello la seguente epistola:

mIo CoRo JO spErO ce TU 6 bEne spErO ce So PREstO impa Rarti JO e sAro feLicHe e cuando iO sono prEndissta JO ce GUDduria salUtti PIP.

Non vi era alcuna necessità impellente di comunicare con Joe per lettera, visto che mi stava seduto accanto e che eravamo soli. Comunque, gli passai la comunicazione scritta (lavagna e tutto il resto) e Joe la ricevette come un prodigio di erudizione.
«Ehi, Pip, vecchio mio!» gridò spalancando gli occhi azzurri, «ma lo sai che sei proprio un letterato?»
«Mi piacerebbe,» dissi, dando un'occhiata alla lavagna che teneva in mano, con la brutta sensazione che la scrittura fosse piuttosto accidentata.
«Be', qui c'è una J e una O proprio perfetta! Qui c'è una J e una O, Pip, e un J-O, Joe.»
Non avevo mai sentito Joe leggere ad alta voce più di quel monosillabo, e quando la domenica precedente in chiesa mi era capitato di tenere il nostro libro di preghiere alla rovescia, avevo notato che la cosa non faceva alcuna differenza per lui. Volendo approfittare dell'occasione per scoprire se nelle mie lezioni avrei dovuto cominciare proprio dall'inizio, dissi: «Prova a leggere il resto, Joe.»
«Il resto, eh, Pip?» disse, percorrendo lo scritto con sguardo lento e indagatore. «Uno, due, tre. Ecco, qua ci stanno tre J e tre O, e tre J-O, tre Joe, Pip!»
Sporgendomi su di lui, con l'aiuto dell'indice, gli lessi tutta la lettera.
«Capperi! Che letterato che sei!» disse, quand'ebbi finito.
«Come scrivi Gargery?» chiesi con un certo paternalismo.
«Io non lo scrivo per niente.»
«Facciamo caso di sì.»
«Non è possibile. Anche se poi leggere mi piace proprio tanto.»
«Davvero, Joe?»
«Tan-to. Dammi un buon libro, o un buon giornale, e mettimi vicino a un bel fuoco; non chiedo di meglio. Buon Dio!» continuò dopo essersi strofinato un po' le ginocchia, «se poi arrivi a una J e una O, e ti dici Eccolo qua, finalmente, c'è un J-O, Joe, che interessante che è leggere!»
Dedussi che l'istruzione di Joe, come la Forza Vapore, era ancora ai primordi. Insistendo su quell'argomento, chiesi:
«Ci sei mai andato a scuola, Joe, quand'eri piccolo come me?»
«No, Pip.»
«E perché non ci sei mai andato a scuola, quand'eri piccolo come me?»
«Be',» disse, prendendo in mano l'attizzatoio e disponendosi a ravvivare lentamente il fuoco tra le grate inferiori, la sua occupazione consueta quand'era pensieroso: «adesso te lo dico. Mio padre beveva e quando che era ubriaco fradicio, gliele suonava a mia madre. A esser sinceri, non faceva quasi nient'altro, cettuato che me le suonava anche a me. E a pestarmi a me ci metteva un mucchio di impegno, come che ce lo metteva a non pestare il martello sull'incudine. Mi ascolti, Pip, mi capisci?»
«Sì, Joe.»
«E allora io e mia madre si scappava, e mia madre si metteva a lavorare e diceva “Joe”, diceva, “adesso, bambino mio, andrai un po' a scuola, se Dio vuole,” e mi metteva a scuola. Ma siccome che mio padre aveva un cuore grande così e non ce la faceva a campare senza di noi, arrivava con un mucchio di gente e faceva un gran baccano davanti alla casa dove si stava noi, e quelli mica potevano più tenerci e così ci consegnavano a lui. E lui ci portava a casa e ce le suonava. Che poi, vedi, Pip,» disse fermandosi nel suo pensieroso attizzare e guardandomi, «questo non è stato un avvantaggio per la mia istruzione.»
«Di sicuro, povero Joe!»
«Comunque,» disse con uno o due tocchi giudiziosi alla grata superiore, «se a ognuno gli dai il suo e a tutti li giudichi con giustizia, guarda che mio padre era buono di cuore, lo vedi anche tu, no?»
Non lo vedevo, ma non lo dissi.
«Insomma, qualcuno deve pur sgobbare, se no non si campa, ti pare?»
Mi pareva e lo dissi.
«Sicché mio padre non aveva da ridirci se andavo a lavorare e così ci sono andato e mi sono messo a fare questo mestiere, che poi era anche il suo, se gli sarebbe andato di farlo, e ho anche faticato parecchio, te l'assicuro, Pip. Poco per volta ce l'ho fatta a mantenerlo, e l'ho mantenuto finché non gli ha preso un colpo asproplettico. E sulla sua tomba volevo farci scrivere, “Qualunqueche è stato il suo errore, Tu che leggi ricorda che era buono di cuore.”»
Joe recitò il distico con tale manifesto orgoglio ed evidente accuratezza, che gli chiesi se a comporlo fosse stato lui stesso.
«Io medesimo in persona. Ci ho messo un attimo. È stato come tirar fuori un ferro da cavallo tutt'intero con un colpo solo. Non mi sono mai meravigliato tanto in vita mia - non ci davo credito alla mia testa - se son sincero, non ci credevo neanche che era la mia testa. Come ti dicevo, volevo farcelo incidere; ma la poesia costa cara, fa lo stesso come la incidi, in piccolo o in grande, e non se n'è fatto più niente. A parte i becchini, tutto quello che c'era, è servito per la mamma. Era debole e malandata. Non ci ha messo molto a seguirlo, poveretta, e un po' di pace alla fine l'ha trovata.»
Gli occhi azzurri di Joe si inumidirono, e lui se li strofinò, prima uno poi l'altro, nel modo più scomodo e malagevole, usando il pomo dell'attizzatoio.
«Era triste star qua da solo, e ho incontrato tua sorella. Dunque, Pip;» mi guardò con fermezza, come se avesse saputo che non sarei stato d'accordo; «tua sorella è un gran bel pezzo di donna.»
Non potei fare a meno di fissare il fuoco, palesemente dubbioso.
«Checché ne pensa la famiglia o la gente di questa faccenda, tua sorella è,» facendo seguire ognuna delle parole seguenti da un colpetto d'attizzatoio sulla grata, «un - gran - bel - pezzo - di - donna!»
Non mi venne in mente nulla di meglio da dire che: «Sono contento che lo pensi, Joe.»
«E anch'io,» rispose riagganciandosi alle mie parole. «Io sono contento che lo penso Pip. Qualche macchia rossa o uno spigolo di osso qua e là, cosa vuoi che me ne importi?»
Osservai sagacemente che se la cosa non importava a lui, a chi doveva importare?
«Esatto!» assentì Joe. «Proprio così. Giusto, vecchio mio! Quando che l'ho conosciuta, si parlava sempre che ti tirava su con le sue mani. La gente diceva che era gentile da parte sua, e lo dicevo anch'io, come tutti gli altri. E tu,» continuò con l'espressione di chi guardi un oggetto davvero disgustoso, «se vedevi che razza di scricciolo meschinello che eri, allora sì che di te ti facevi proprio una brutta opinione!»
Non esattamente compiaciuto, dissi: «Lascia perdere me, Joe.»
«Ma io a te non ti ho lasciato perdere, Pip,» rispose con semplicità e tenerezza. «Quando che ho offerto a tua sorella di metterci insieme e di portarla in chiesa quando gli andava bene di venire a stare alla fucina, ho detto, “E portati il povero piccolo. Che Dio lo benedica, quel povero piccolo,” ho detto a tua sorella, “che ce n'è di posto alla fucina anche per lui!”»
Scoppiai a piangere chiedendo perdono e buttandogli le braccia al collo; lui lasciò cadere l'attizzatoio per abbracciarmi dicendo: «Si è sempre stati i migliori amici, no Pip? Non piangere, vecchio mio!»
Quando la breve interruzione finì, Joe riprese a parlare.
«E adesso Pip, eccoci qua! Così è finita; eccoci qua! Allora, quando che prendi in mano la mia istruzione (e guarda che ti dico subito che sono duro di testa, ma proprio duro) tua sorella non deve vedere cosa combiniamo. Dobbiamo fare i clandestini, se posso dire così. E perché i clandestini? Adesso ti dico perché, Pip.»
Aveva ripreso in mano l'attizzatoio, senza il quale dubito che sarebbe riuscito a portare avanti la sua dimostrazione.
«Tua sorella si dedica al governo.»
«Al governo, Joe?» Ero stupefatto poiché confusamente pensavo (e temo di dover aggiungere, speravo) che Joe avesse divorziato in favore del Ministero della Marina o del Tesoro.
«Si dedica al governo. Chelaqualcosa è per dire al governo di noi due.»
«Oh!»
«E non è che gli va molto di averceli, di letterati per casa, e soprattutto non gli va molto che ci divento io, per paura che alzo la testa. Come una specie di ribelle, capisci, no?»
Stavo per ribattere con una domanda, ed ero arrivato a «Perché...», quando Joe mi interruppe.
«Aspetta un momento. So cosa vuoi dire, Pip; aspetta un momento. Non ti nego mica che certe volte la fa da Gran Mogol con noi. E non ti nego neanche che ci sbatte al tappeto e che ce le dà di santa ragione. Come quando va in bestia, Pip,» abbassò la voce a un sussurro e sbirciò verso la porta, «a esser sinceri, è un Disastro.» Pronunciò la parola come se iniziasse con perlomeno dodici D maiuscole.
«Perché non mi ribello? È lì che ti ho interrotto, Pip?»
«Sì, Joe.»
«Dunque,» disse passando l'attizzatoio nella mano sinistra, per potersi tastare la fedina; e quando si dedicava a quella placida occupazione, in lui non riponevo più alcuna speranza; «tua sorella è una gran mente. Una gran mente.»
«E cos'è una gran mente?» chiesi con una certa speranza di portarlo a una posizione di stallo. Ma fu più pronto a dare la sua definizione di quanto non mi fossi aspettato, e mi ridusse al silenzio con un'argomentazione che tornava su se stessa, rispondendomi con sguardo fisso: «Lei.»
«E io non sono una gran mente,» riprese, restituendo mobilità allo sguardo e tornando alla fedina. «E poi c'è ancora una cosa, Pip, e te la dico in tutta serietà, vecchio mio - ne ho visto abbastanza con la povera mamma, di una donna che sfacchina, si spacca la schiena e si spezza il cuore senza trovar mai un po' di pace in questo mondo, e ciò una paura tremenda che sbaglio, che non faccio per una donna quello che è giusto, e delle due mi va meglio finire dall'altra parte, e rimetterci un po' io. È che a me mi andrebbe di rimetterci solo io, Pip, e prendermi tutto sulle mie spalle; Tickler per te non ce lo vorrei; ma così va la vita, e spero che chiudi un occhio sulle magagne.»
Giovane com'ero, son convinto che da quella sera provai una nuova ammirazione per Joe. Dopo di allora continuammo a esser compagni alla pari, come in precedenza; ma dopo di allora, quando nei momenti di quiete me ne stavo seduto a guardarlo e a riflettere su di lui, ero consapevole di provare in fondo al cuore un nuovo senso di rispetto nei suoi confronti.
«Comunque,» disse, alzandosi per metter legna nel camino, «l'orologio olandese è qua che si carica per batterne otto, e lei non è ancora a casa! Spero che la cavalla di zio Pumblechook non è scivolata e andata giù sul ghiaccio.»
Talvolta, nei giorni di mercato, mia sorella usciva con zio Pumblechook per assisterlo nelle compere per la casa che richiedevano un parere femminile, essendo lui scapolo e non nutrendo fiducia alcuna nella sua domestica. Era giorno di mercato, e mia sorella era impegnata in una di quelle spedizioni.
Joe attizzò il fuoco, spazzò il focolare e poi ci mettemmo sulla porta per sentire se arrivava il calesse. La notte era fredda e asciutta, il vento pungente, il ghiaccio bianco e compatto. «Un uomo morirebbe stanotte, a restar fuori nella palude,» pensai. Poi guardai le stelle e pensai all'orrore che avrebbe provato nel volgere il viso verso di esse mentre moriva assiderato, senza vedere pietà o aiuto nell'immensità scintillante.
«Ecco la cavalla che arriva,» disse Joe, «senti che scampanio!»
Il suono degli zoccoli ferrati sulle lastre di ghiaccio era melodioso, mentre la cavalla avanzava a un trotto molto più vivace del solito. Portammo fuori una sedia per far scendere mia sorella e ravvivammo il fuoco perché vedessero la finestra illuminata e demmo un ultimo sguardo alla cucina perché niente fosse fuori posto. Avevamo appena completato i nostri preparativi, che arrivarono imbacuccati fino agli occhi. Mia sorella fu a terra in fretta, e anche zio Pumblechook, che coprì la cavalla con una coperta, e presto ci ritrovammo tutti in cucina, portandoci dentro una ventata di aria fredda che parve scacciar fuori tutto il calore del fuoco.
«Dunque,» disse mia sorella spogliandosi frettolosa ed eccitata e buttandosi indietro la cuffia, che le rimase sulle spalle appesa ai nastri; «se questo ragazzino non è grato stasera, non lo sarà mai più!»
Dimostrai tutta la gratitudine possibile a un ragazzo completamente ignaro del perché dovesse assumere quell'espressione.
«Non si può che sperare che non ne facciano un vezzoso, anche se ho i miei dubbi.»
«Lei non è proprio il tipo, Ma',» disse Pumblechook. «È in gamba, lei.»
Lei? Guardai Joe, con moto di labbra e sopracciglia: Lei? Joe guardò me, con moto di labbra e sopracciglia: Lei? Colto sul fatto da mia sorella, si passò il dorso della mano sul naso con l'aria conciliante usuale in quelle occasioni, e la guardò.
«Allora?» disse mia sorella, acida come al solito. «Perché sgrani gli occhi? Va a fuoco la casa?»
«Che una certa qual persona,» accennò Joe gentilmente, «ha menzionato... lei.»
«E lei è una lei, suppongo» rispose mia sorella. «A meno che non chiami Miss Havisham un lui. E dubito che persino tu arrivi a tanto.»
«Miss Havisham dei quartieri alti?»
«Perché, ce n'è una dei bassifondi?» rimbeccò mia sorella. «Vuole che il ragazzo vada da lei a giocare. E lui ci va di sicuro. E farebbe bene a giocarci, lì,» disse scuotendo la testa rivolta a me, in segno d'incoraggiamento a essere gaio e scattante, «che se no me lo lavoro io.»
Avevo sentito parlare di Miss Havisham dei quartieri alti - chiunque per miglia intorno ne aveva sentito parlare - come di una signora immensamente ricca e arcigna, che stava in una grande casa tetra, barricata contro i ladri, conducendo la vita di una reclusa.
«Ma tu guarda!» disse Joe stupefatto. «E Pip com'è che l'ha conosciuto?»
«Bestia!» gridò mia sorella. «E chi ha mai detto che l'ha conosciuto?»
«Che una certa qual persona,» accennò di nuovo Joe con gentilezza, «ha menzionato che ce lo voleva lì a giocare.»
«E non può averlo chiesto a zio Pumblechook se conosceva un ragazzo che andasse da lei a giocare? E non esiste la semplice possibilità che zio Pumblechook sia un suo inquilino e che qualche volta - non diremo ogni tre o sei mesi, perché sarebbe pretendere troppo da te, ma qualche volta - vada da lei a pagare l'affitto? E in quelle occasioni, non può avergli chiesto se sapeva di un qualche ragazzino che andasse a giocare da lei? E zio Pumblechook, sempre così pieno di attenzioni per noi - anche se tu forse non lo pensi, Joseph,» in tono di profondo rimprovero, come se si fosse trattato del più insensibile dei nipoti, «non può in quel caso aver accennato al ragazzo che se ne sta qua a gonfiarsi come un pavone - giuro solennemente che non era vero - e che ho sempre servito come una schiava?»
«Giusto!» gridò zio Pumblechook. «Ben detto! Chiaro come il sole! Ottimo! E adesso, Joseph, sai come stanno le cose.»
«No, Joseph,» disse mia sorella ancora carica di biasimo, mentre Joe pieno di rammarico si passava e ripassava il dorso della mano sul naso, «tu non lo sai ancora - anche se puoi pensare il contrario - come stanno le cose. Credi di saperlo, ma così non è, Joseph. Perché non sai che zio Pumblechook, rendendosi conto che, per quel che ne sappiamo, può essere la fortuna del ragazzo se va da Miss Havisham, si è offerto di portarlo in città sul calesse stasera, di tenerselo in casa stanotte e di portarlo con le sue mani da Miss Havisham domattina. Dio benedetto!» gridò strappandosi la cuffia di dosso in un improvviso attacco di disperazione, «e io me ne sto qua a parlare con degli scimuniti mentre zio Pumblechook aspetta, e la cavalla prende freddo in strada, e il ragazzo è lurido di sporcizia dalla testa ai piedi!»
A quelle parole mi piombò addosso come un'aquila su un agnello, e la faccia mi fu schiacciata in ciotole di legno dentro acquai, la testa mi fu cacciata sotto rubinetti di barili d'acqua piovana, e io fui insaponato e strigliato e strofinato e pestato e tormentato e grattato, finché fui più morto che vivo. (Potrei osservare a questo punto di considerarmi più esperto di qualsiasi autorità al mondo, sull'effetto aggrinzante di un anello matrimoniale passato senza garbo sulla faccia di un essere umano.)
Quando le abluzioni furono concluse, fui ficcato dentro biancheria pulita del tipo più rigido, come un giovane penitente dentro tela di sacco, e immobilizzato nel vestito più orrendamente stretto da me posseduto. Fui poi consegnato a Pumblechook, che mi accolse con l'ufficialità di uno sceriffo, e mi scaricò addosso il discorso che palesemente moriva dalla voglia di fare sin dall'inizio: «Ragazzo, sii eternamente grato ai tuoi amici, ma soprattutto a coloro che ti hanno allevato con le proprie mani!»
«Addio Joe!»
«Dio ti benedica, Pip, vecchio mio!»
Non mi ero mai separato da lui prima di allora, e un po' per l'emozione, un po' per la saponata, dal calesse non riuscii all'inizio a vedere le stelle. Ma poi una ad una ripresero a brillare, senza gettar luce sulle mie domande, perché mai andavo a giocare da Miss Havisham, e a cosa mai s'aspettava che io giocassi.






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