lunedì 30 aprile 2018

184 Grandi speranze - Capitolo VII (di Charles Dickens)



Concludo questo breve invito alla lettura di “Grandi speranze” con il capitolo settimo, in cui si precisano meglio i caratteri di alcuni dei personaggi principali e compare per la prima volta Miss Havisham, una signora spaventosamente ricca e arcigna, che avrà nel seguito del romanzo un ruolo importante negli sviluppi dell’educazione di Pip.

All'epoca in cui al cimitero leggevo le epigrafi sulla tomba di famiglia, avevo appena quel po' di istruzione che mi permetteva di sillabarle. Mi riusciva difficile persino interpretare il loro semplice significato, poiché leggevo moglie del Sullodato come un complimentoso riferimento all'ascesa di mio padre a un mondo migliore; e non ho dubbi che se a uno dei miei parenti morti si fosse alluso come Sottolodato, mi sarei formato un'opinione pessima di quel membro della famiglia. E neppure avevo le idee chiare su quali posizioni teologiche pretendesse da me il catechismo; ricordo infatti nitidamente di aver supposto che il mio impegno a seguire la stessa via tutti i giorni della mia vita, mi imponesse l'obbligo, una volta fuori di casa, di attraversare il villaggio prendendo sempre la stessa direzione, senza mai variarla svoltando in giù all'altezza del carraio, o in su all'altezza del mulino.
Quando fossi stato grande abbastanza, sarei diventato apprendista fabbro, e fino al momento di assumere quella carica, non dovevo essere, come diceva mia sorella, vezzoso, o (come lo rendo io) viziato. Perciò non solo facevo il ragazzo di bottega di Joe, ma se capitava che un vicino avesse bisogno di un ragazzino per scacciare gli uccelli, o raccogliere pietre, o fare altri lavori del genere, il privilegio di essere il prescelto toccava a me. Ma affinché la nostra condizione di superiorità non ne risultasse compromessa, era di dominio pubblico che tutti i miei guadagni finivano in un salvadanaio posto sulla mensola del camino in cucina. Suppongo che fossero destinati a contribuire al saldo del debito nazionale, ma so per certo che non speravo affatto in una compartecipazione al tesoro.
La prozia di Wopsle teneva una scuola serale nel villaggio; vale a dire, era una vecchia ridicola, di mezzi limitati e illimitati acciacchi, che si addormentava tutte le sere dalle sei alle sette alla presenza di bambini che pagavano due pence a testa la settimana, per avere l'opportunità di migliorarsi vedendola dormire. Era affittuaria di una casetta di cui Wopsle occupava il primo piano; noi scolari lo sentivamo leggere nella sua stanza in modo austero e grandioso, e di tanto in tanto picchiare sul soffitto. Era in uso la finzione di un esame cui Wopsle sottoponeva gli allievi ogni tre mesi. Ciò che faceva in quelle occasioni, consisteva nell'arrotolarsi i polsini, scompigliarsi i capelli e declamarci l'orazione di Marcantonio sul corpo di Cesare, seguita regolarmente dall'Ode sulle passioni di Collins; lo veneravo soprattutto nella parte di Vendetta che getta a terra con fragore la spada insanguinata e afferra con furia la tromba foriera di guerra. Non ero ancora nella situazione, in cui mi sarei trovato in seguito, di intrattenere rapporti con le Passioni e di metterle a confronto con Collins e Wopsle, a tutto svantaggio di quei due signori.
Nella stessa stanza, oltre all'Istituzione Pedagogica, vi era anche un piccolo emporio. La prozia di Wopsle non aveva la minima idea di quale merce disponesse, né quale fosse il prezzo di ogni singolo articolo; conservato in un cassetto, vi era però un taccuino bisunto che fungeva da listino dei prezzi, e grazie a quell'oracolo Biddy regolava tutte le transazioni commerciali. Biddy era la nipote della prozia di Wopsle; devo ammettere di non essere in grado di dire che grado di parentela la legasse a lui. Era un'orfana come me, e come me era stata allevata da qualcun altro con le sue proprie mani. Mi sembrava degna di nota soprattutto per le sue estremità: i capelli avevano un costante bisogno di una spazzola, le mani di sapone, le scarpe scalcagnate di un calzolaio. La descrizione deve ritenersi appropriata per tutti i giorni della settimana tranne uno. La domenica andava in chiesa tutta ripulita.
Aiutandomi da solo, e assistito più da Biddy che dalla prozia di Wopsle, mi aprii a fatica un varco attraverso l'alfabeto, come si fosse trattato di un ammasso di rovi, ricevendo da ogni lettera non pochi crucci e graffi. Caddi poi in mezzo ai numeri, quei nove ladroni che parevano escogitare ogni sera nuovi travestimenti per non esser riconosciuti. Comunque alla fine, brancolando e annaspando, iniziai a leggere, scrivere e far di conto, su scala estremamente ridotta.
Una sera me ne stavo seduto nell'angolo del camino con la mia lavagna, sforzandomi di mettere insieme una lettera per Joe. Doveva essere più di un anno dopo la nostra caccia in palude, poiché era passato molto tempo, era inverno e faceva un gran freddo. Aiutandomi con un alfabeto che tenevo sul focolare ai miei piedi, riuscii dopo una o due ore a impiastricciare a stampatello la seguente epistola:

mIo CoRo JO spErO ce TU 6 bEne spErO ce So PREstO impa Rarti JO e sAro feLicHe e cuando iO sono prEndissta JO ce GUDduria salUtti PIP.

Non vi era alcuna necessità impellente di comunicare con Joe per lettera, visto che mi stava seduto accanto e che eravamo soli. Comunque, gli passai la comunicazione scritta (lavagna e tutto il resto) e Joe la ricevette come un prodigio di erudizione.
«Ehi, Pip, vecchio mio!» gridò spalancando gli occhi azzurri, «ma lo sai che sei proprio un letterato?»
«Mi piacerebbe,» dissi, dando un'occhiata alla lavagna che teneva in mano, con la brutta sensazione che la scrittura fosse piuttosto accidentata.
«Be', qui c'è una J e una O proprio perfetta! Qui c'è una J e una O, Pip, e un J-O, Joe.»
Non avevo mai sentito Joe leggere ad alta voce più di quel monosillabo, e quando la domenica precedente in chiesa mi era capitato di tenere il nostro libro di preghiere alla rovescia, avevo notato che la cosa non faceva alcuna differenza per lui. Volendo approfittare dell'occasione per scoprire se nelle mie lezioni avrei dovuto cominciare proprio dall'inizio, dissi: «Prova a leggere il resto, Joe.»
«Il resto, eh, Pip?» disse, percorrendo lo scritto con sguardo lento e indagatore. «Uno, due, tre. Ecco, qua ci stanno tre J e tre O, e tre J-O, tre Joe, Pip!»
Sporgendomi su di lui, con l'aiuto dell'indice, gli lessi tutta la lettera.
«Capperi! Che letterato che sei!» disse, quand'ebbi finito.
«Come scrivi Gargery?» chiesi con un certo paternalismo.
«Io non lo scrivo per niente.»
«Facciamo caso di sì.»
«Non è possibile. Anche se poi leggere mi piace proprio tanto.»
«Davvero, Joe?»
«Tan-to. Dammi un buon libro, o un buon giornale, e mettimi vicino a un bel fuoco; non chiedo di meglio. Buon Dio!» continuò dopo essersi strofinato un po' le ginocchia, «se poi arrivi a una J e una O, e ti dici Eccolo qua, finalmente, c'è un J-O, Joe, che interessante che è leggere!»
Dedussi che l'istruzione di Joe, come la Forza Vapore, era ancora ai primordi. Insistendo su quell'argomento, chiesi:
«Ci sei mai andato a scuola, Joe, quand'eri piccolo come me?»
«No, Pip.»
«E perché non ci sei mai andato a scuola, quand'eri piccolo come me?»
«Be',» disse, prendendo in mano l'attizzatoio e disponendosi a ravvivare lentamente il fuoco tra le grate inferiori, la sua occupazione consueta quand'era pensieroso: «adesso te lo dico. Mio padre beveva e quando che era ubriaco fradicio, gliele suonava a mia madre. A esser sinceri, non faceva quasi nient'altro, cettuato che me le suonava anche a me. E a pestarmi a me ci metteva un mucchio di impegno, come che ce lo metteva a non pestare il martello sull'incudine. Mi ascolti, Pip, mi capisci?»
«Sì, Joe.»
«E allora io e mia madre si scappava, e mia madre si metteva a lavorare e diceva “Joe”, diceva, “adesso, bambino mio, andrai un po' a scuola, se Dio vuole,” e mi metteva a scuola. Ma siccome che mio padre aveva un cuore grande così e non ce la faceva a campare senza di noi, arrivava con un mucchio di gente e faceva un gran baccano davanti alla casa dove si stava noi, e quelli mica potevano più tenerci e così ci consegnavano a lui. E lui ci portava a casa e ce le suonava. Che poi, vedi, Pip,» disse fermandosi nel suo pensieroso attizzare e guardandomi, «questo non è stato un avvantaggio per la mia istruzione.»
«Di sicuro, povero Joe!»
«Comunque,» disse con uno o due tocchi giudiziosi alla grata superiore, «se a ognuno gli dai il suo e a tutti li giudichi con giustizia, guarda che mio padre era buono di cuore, lo vedi anche tu, no?»
Non lo vedevo, ma non lo dissi.
«Insomma, qualcuno deve pur sgobbare, se no non si campa, ti pare?»
Mi pareva e lo dissi.
«Sicché mio padre non aveva da ridirci se andavo a lavorare e così ci sono andato e mi sono messo a fare questo mestiere, che poi era anche il suo, se gli sarebbe andato di farlo, e ho anche faticato parecchio, te l'assicuro, Pip. Poco per volta ce l'ho fatta a mantenerlo, e l'ho mantenuto finché non gli ha preso un colpo asproplettico. E sulla sua tomba volevo farci scrivere, “Qualunqueche è stato il suo errore, Tu che leggi ricorda che era buono di cuore.”»
Joe recitò il distico con tale manifesto orgoglio ed evidente accuratezza, che gli chiesi se a comporlo fosse stato lui stesso.
«Io medesimo in persona. Ci ho messo un attimo. È stato come tirar fuori un ferro da cavallo tutt'intero con un colpo solo. Non mi sono mai meravigliato tanto in vita mia - non ci davo credito alla mia testa - se son sincero, non ci credevo neanche che era la mia testa. Come ti dicevo, volevo farcelo incidere; ma la poesia costa cara, fa lo stesso come la incidi, in piccolo o in grande, e non se n'è fatto più niente. A parte i becchini, tutto quello che c'era, è servito per la mamma. Era debole e malandata. Non ci ha messo molto a seguirlo, poveretta, e un po' di pace alla fine l'ha trovata.»
Gli occhi azzurri di Joe si inumidirono, e lui se li strofinò, prima uno poi l'altro, nel modo più scomodo e malagevole, usando il pomo dell'attizzatoio.
«Era triste star qua da solo, e ho incontrato tua sorella. Dunque, Pip;» mi guardò con fermezza, come se avesse saputo che non sarei stato d'accordo; «tua sorella è un gran bel pezzo di donna.»
Non potei fare a meno di fissare il fuoco, palesemente dubbioso.
«Checché ne pensa la famiglia o la gente di questa faccenda, tua sorella è,» facendo seguire ognuna delle parole seguenti da un colpetto d'attizzatoio sulla grata, «un - gran - bel - pezzo - di - donna!»
Non mi venne in mente nulla di meglio da dire che: «Sono contento che lo pensi, Joe.»
«E anch'io,» rispose riagganciandosi alle mie parole. «Io sono contento che lo penso Pip. Qualche macchia rossa o uno spigolo di osso qua e là, cosa vuoi che me ne importi?»
Osservai sagacemente che se la cosa non importava a lui, a chi doveva importare?
«Esatto!» assentì Joe. «Proprio così. Giusto, vecchio mio! Quando che l'ho conosciuta, si parlava sempre che ti tirava su con le sue mani. La gente diceva che era gentile da parte sua, e lo dicevo anch'io, come tutti gli altri. E tu,» continuò con l'espressione di chi guardi un oggetto davvero disgustoso, «se vedevi che razza di scricciolo meschinello che eri, allora sì che di te ti facevi proprio una brutta opinione!»
Non esattamente compiaciuto, dissi: «Lascia perdere me, Joe.»
«Ma io a te non ti ho lasciato perdere, Pip,» rispose con semplicità e tenerezza. «Quando che ho offerto a tua sorella di metterci insieme e di portarla in chiesa quando gli andava bene di venire a stare alla fucina, ho detto, “E portati il povero piccolo. Che Dio lo benedica, quel povero piccolo,” ho detto a tua sorella, “che ce n'è di posto alla fucina anche per lui!”»
Scoppiai a piangere chiedendo perdono e buttandogli le braccia al collo; lui lasciò cadere l'attizzatoio per abbracciarmi dicendo: «Si è sempre stati i migliori amici, no Pip? Non piangere, vecchio mio!»
Quando la breve interruzione finì, Joe riprese a parlare.
«E adesso Pip, eccoci qua! Così è finita; eccoci qua! Allora, quando che prendi in mano la mia istruzione (e guarda che ti dico subito che sono duro di testa, ma proprio duro) tua sorella non deve vedere cosa combiniamo. Dobbiamo fare i clandestini, se posso dire così. E perché i clandestini? Adesso ti dico perché, Pip.»
Aveva ripreso in mano l'attizzatoio, senza il quale dubito che sarebbe riuscito a portare avanti la sua dimostrazione.
«Tua sorella si dedica al governo.»
«Al governo, Joe?» Ero stupefatto poiché confusamente pensavo (e temo di dover aggiungere, speravo) che Joe avesse divorziato in favore del Ministero della Marina o del Tesoro.
«Si dedica al governo. Chelaqualcosa è per dire al governo di noi due.»
«Oh!»
«E non è che gli va molto di averceli, di letterati per casa, e soprattutto non gli va molto che ci divento io, per paura che alzo la testa. Come una specie di ribelle, capisci, no?»
Stavo per ribattere con una domanda, ed ero arrivato a «Perché...», quando Joe mi interruppe.
«Aspetta un momento. So cosa vuoi dire, Pip; aspetta un momento. Non ti nego mica che certe volte la fa da Gran Mogol con noi. E non ti nego neanche che ci sbatte al tappeto e che ce le dà di santa ragione. Come quando va in bestia, Pip,» abbassò la voce a un sussurro e sbirciò verso la porta, «a esser sinceri, è un Disastro.» Pronunciò la parola come se iniziasse con perlomeno dodici D maiuscole.
«Perché non mi ribello? È lì che ti ho interrotto, Pip?»
«Sì, Joe.»
«Dunque,» disse passando l'attizzatoio nella mano sinistra, per potersi tastare la fedina; e quando si dedicava a quella placida occupazione, in lui non riponevo più alcuna speranza; «tua sorella è una gran mente. Una gran mente.»
«E cos'è una gran mente?» chiesi con una certa speranza di portarlo a una posizione di stallo. Ma fu più pronto a dare la sua definizione di quanto non mi fossi aspettato, e mi ridusse al silenzio con un'argomentazione che tornava su se stessa, rispondendomi con sguardo fisso: «Lei.»
«E io non sono una gran mente,» riprese, restituendo mobilità allo sguardo e tornando alla fedina. «E poi c'è ancora una cosa, Pip, e te la dico in tutta serietà, vecchio mio - ne ho visto abbastanza con la povera mamma, di una donna che sfacchina, si spacca la schiena e si spezza il cuore senza trovar mai un po' di pace in questo mondo, e ciò una paura tremenda che sbaglio, che non faccio per una donna quello che è giusto, e delle due mi va meglio finire dall'altra parte, e rimetterci un po' io. È che a me mi andrebbe di rimetterci solo io, Pip, e prendermi tutto sulle mie spalle; Tickler per te non ce lo vorrei; ma così va la vita, e spero che chiudi un occhio sulle magagne.»
Giovane com'ero, son convinto che da quella sera provai una nuova ammirazione per Joe. Dopo di allora continuammo a esser compagni alla pari, come in precedenza; ma dopo di allora, quando nei momenti di quiete me ne stavo seduto a guardarlo e a riflettere su di lui, ero consapevole di provare in fondo al cuore un nuovo senso di rispetto nei suoi confronti.
«Comunque,» disse, alzandosi per metter legna nel camino, «l'orologio olandese è qua che si carica per batterne otto, e lei non è ancora a casa! Spero che la cavalla di zio Pumblechook non è scivolata e andata giù sul ghiaccio.»
Talvolta, nei giorni di mercato, mia sorella usciva con zio Pumblechook per assisterlo nelle compere per la casa che richiedevano un parere femminile, essendo lui scapolo e non nutrendo fiducia alcuna nella sua domestica. Era giorno di mercato, e mia sorella era impegnata in una di quelle spedizioni.
Joe attizzò il fuoco, spazzò il focolare e poi ci mettemmo sulla porta per sentire se arrivava il calesse. La notte era fredda e asciutta, il vento pungente, il ghiaccio bianco e compatto. «Un uomo morirebbe stanotte, a restar fuori nella palude,» pensai. Poi guardai le stelle e pensai all'orrore che avrebbe provato nel volgere il viso verso di esse mentre moriva assiderato, senza vedere pietà o aiuto nell'immensità scintillante.
«Ecco la cavalla che arriva,» disse Joe, «senti che scampanio!»
Il suono degli zoccoli ferrati sulle lastre di ghiaccio era melodioso, mentre la cavalla avanzava a un trotto molto più vivace del solito. Portammo fuori una sedia per far scendere mia sorella e ravvivammo il fuoco perché vedessero la finestra illuminata e demmo un ultimo sguardo alla cucina perché niente fosse fuori posto. Avevamo appena completato i nostri preparativi, che arrivarono imbacuccati fino agli occhi. Mia sorella fu a terra in fretta, e anche zio Pumblechook, che coprì la cavalla con una coperta, e presto ci ritrovammo tutti in cucina, portandoci dentro una ventata di aria fredda che parve scacciar fuori tutto il calore del fuoco.
«Dunque,» disse mia sorella spogliandosi frettolosa ed eccitata e buttandosi indietro la cuffia, che le rimase sulle spalle appesa ai nastri; «se questo ragazzino non è grato stasera, non lo sarà mai più!»
Dimostrai tutta la gratitudine possibile a un ragazzo completamente ignaro del perché dovesse assumere quell'espressione.
«Non si può che sperare che non ne facciano un vezzoso, anche se ho i miei dubbi.»
«Lei non è proprio il tipo, Ma',» disse Pumblechook. «È in gamba, lei.»
Lei? Guardai Joe, con moto di labbra e sopracciglia: Lei? Joe guardò me, con moto di labbra e sopracciglia: Lei? Colto sul fatto da mia sorella, si passò il dorso della mano sul naso con l'aria conciliante usuale in quelle occasioni, e la guardò.
«Allora?» disse mia sorella, acida come al solito. «Perché sgrani gli occhi? Va a fuoco la casa?»
«Che una certa qual persona,» accennò Joe gentilmente, «ha menzionato... lei.»
«E lei è una lei, suppongo» rispose mia sorella. «A meno che non chiami Miss Havisham un lui. E dubito che persino tu arrivi a tanto.»
«Miss Havisham dei quartieri alti?»
«Perché, ce n'è una dei bassifondi?» rimbeccò mia sorella. «Vuole che il ragazzo vada da lei a giocare. E lui ci va di sicuro. E farebbe bene a giocarci, lì,» disse scuotendo la testa rivolta a me, in segno d'incoraggiamento a essere gaio e scattante, «che se no me lo lavoro io.»
Avevo sentito parlare di Miss Havisham dei quartieri alti - chiunque per miglia intorno ne aveva sentito parlare - come di una signora immensamente ricca e arcigna, che stava in una grande casa tetra, barricata contro i ladri, conducendo la vita di una reclusa.
«Ma tu guarda!» disse Joe stupefatto. «E Pip com'è che l'ha conosciuto?»
«Bestia!» gridò mia sorella. «E chi ha mai detto che l'ha conosciuto?»
«Che una certa qual persona,» accennò di nuovo Joe con gentilezza, «ha menzionato che ce lo voleva lì a giocare.»
«E non può averlo chiesto a zio Pumblechook se conosceva un ragazzo che andasse da lei a giocare? E non esiste la semplice possibilità che zio Pumblechook sia un suo inquilino e che qualche volta - non diremo ogni tre o sei mesi, perché sarebbe pretendere troppo da te, ma qualche volta - vada da lei a pagare l'affitto? E in quelle occasioni, non può avergli chiesto se sapeva di un qualche ragazzino che andasse a giocare da lei? E zio Pumblechook, sempre così pieno di attenzioni per noi - anche se tu forse non lo pensi, Joseph,» in tono di profondo rimprovero, come se si fosse trattato del più insensibile dei nipoti, «non può in quel caso aver accennato al ragazzo che se ne sta qua a gonfiarsi come un pavone - giuro solennemente che non era vero - e che ho sempre servito come una schiava?»
«Giusto!» gridò zio Pumblechook. «Ben detto! Chiaro come il sole! Ottimo! E adesso, Joseph, sai come stanno le cose.»
«No, Joseph,» disse mia sorella ancora carica di biasimo, mentre Joe pieno di rammarico si passava e ripassava il dorso della mano sul naso, «tu non lo sai ancora - anche se puoi pensare il contrario - come stanno le cose. Credi di saperlo, ma così non è, Joseph. Perché non sai che zio Pumblechook, rendendosi conto che, per quel che ne sappiamo, può essere la fortuna del ragazzo se va da Miss Havisham, si è offerto di portarlo in città sul calesse stasera, di tenerselo in casa stanotte e di portarlo con le sue mani da Miss Havisham domattina. Dio benedetto!» gridò strappandosi la cuffia di dosso in un improvviso attacco di disperazione, «e io me ne sto qua a parlare con degli scimuniti mentre zio Pumblechook aspetta, e la cavalla prende freddo in strada, e il ragazzo è lurido di sporcizia dalla testa ai piedi!»
A quelle parole mi piombò addosso come un'aquila su un agnello, e la faccia mi fu schiacciata in ciotole di legno dentro acquai, la testa mi fu cacciata sotto rubinetti di barili d'acqua piovana, e io fui insaponato e strigliato e strofinato e pestato e tormentato e grattato, finché fui più morto che vivo. (Potrei osservare a questo punto di considerarmi più esperto di qualsiasi autorità al mondo, sull'effetto aggrinzante di un anello matrimoniale passato senza garbo sulla faccia di un essere umano.)
Quando le abluzioni furono concluse, fui ficcato dentro biancheria pulita del tipo più rigido, come un giovane penitente dentro tela di sacco, e immobilizzato nel vestito più orrendamente stretto da me posseduto. Fui poi consegnato a Pumblechook, che mi accolse con l'ufficialità di uno sceriffo, e mi scaricò addosso il discorso che palesemente moriva dalla voglia di fare sin dall'inizio: «Ragazzo, sii eternamente grato ai tuoi amici, ma soprattutto a coloro che ti hanno allevato con le proprie mani!»
«Addio Joe!»
«Dio ti benedica, Pip, vecchio mio!»
Non mi ero mai separato da lui prima di allora, e un po' per l'emozione, un po' per la saponata, dal calesse non riuscii all'inizio a vedere le stelle. Ma poi una ad una ripresero a brillare, senza gettar luce sulle mie domande, perché mai andavo a giocare da Miss Havisham, e a cosa mai s'aspettava che io giocassi.






giovedì 26 aprile 2018

183 Grandi speranze - Capitolo II (di Charles Dickens)



Nel secondo capitolo di questo meraviglioso romanzo facciamo la conoscenza della sorella di Pip, che ha il compito di allevare “con le sue mani” il piccolo orfano, e di suo marito, il fabbro Joe Gargery, un buon uomo anche lui vittima di una moglie dispotica.
Come in altre opere di Dickens, la descrizione del mondo infantile (dei suoi terrori, dell’incomprensione del mondo degli adulti, delle improvvise tenerezze che poche persone sono in grado di riservare ai bambini) acquista il livello della credibilità più totale, direi della perfezione.

CAPITOLO II

Mia sorella, la moglie di Joe Gargery, più vecchia di me di oltre vent'anni, godeva di grande stima nella propria e nell'altrui opinione per avermi allevato con le sue mani. Dovendo a quel tempo scoprire da me il senso di quell'espressione e sapendo quanto fossero rudi e pesanti le sue mani e quanto fosse radicata in lei l'abitudine di metterle addosso al marito e a me, credevo che con le sue mani ci stesse allevando entrambi.
Non era per niente attraente, mia sorella, e avevo la vaga impressione che anche a farsi sposare ci fosse riuscita con le sue mani. Joe aveva la carnagione chiara, riccioli d'un biondo pallido che gli incorniciavano il viso liscio, occhi di un celeste così incerto che parevano essersi stinti a contatto del bianco. Era una cara persona, mite, buona, gentile, placida, ingenua. Una specie di Ercole quanto a forza e anche quanto a debolezza.
Mia sorella aveva occhi e capelli neri, e una pelle talmente arrossata, che mi chiedevo talvolta se per lavarsi usasse una grattugia da spezie al posto del sapone. Era alta e ossuta e indossava quasi sempre un ruvido grembiule annodato dietro con un doppio laccio, provvisto sul davanti di una pettorina quadrata e inespugnabile, letteralmente ricoperta di aghi e spilli. Il fatto di portare quell'indumento tanto spesso, le forniva l'occasione per lodare altamente sé stessa e biasimare pesantemente Joe; anche se in effetti non riesco a trovare una ragione perché ogni giorno se lo mettesse o perché, pur mettendolo, non se lo dovesse poi togliere.
La fucina di Joe confinava con la casa, costruita in legno come molte abitazioni dalle nostre parti - quasi tutte, a quel tempo. Quando tornai correndo dal cimitero, la fucina era chiusa e Joe se ne stava seduto da solo in cucina. In quanto compagni di sventura, ci scambiavamo abitualmente le nostre confidenze e Joe me ne fece una non appena sollevai il saliscendi e sbirciai verso l'angolo del camino dove stava seduto.
«Tua sorella è uscita a cercarti una dozzina di volte, Pip, e anche adesso è fuori e così fa tredici.»
«Davvero?»
«Sì, e il peggio è che si è portata dietro Tickler.» (1)
A questa lugubre notizia, afferrai l'unico bottone del mio panciotto e mi misi a rigirarlo guardando tristemente il fuoco. Tickler era un bastone dalla punta cosparsa di pece, che il contatto con le mie forme titillate aveva reso liscio.
«Si è seduta» disse Joe «e si è alzata, e ha dato di piglio a Tickler, ed è schizzata fuori. Proprio così ha fatto,» disse Joe, attizzando lentamente il fuoco tra le grate e restando a fissarlo, «è schizzata fuori come un’ossessa.»
«È tanto che è uscita, Joe?» Lo trattavo sempre come un mio pari, considerandolo semplicemente un ragazzo di una specie più grossa.
«Be',» fece Joe, lanciando un'occhiata all'orologio olandese, «quest’ultima volta è schizzata fuori che saranno cinque minuti, Pip. Eccola che torna! Svelto, dietro la porta, vecchio mio, e metti fra te e lei l’asciugamano!»
Seguii il suo consiglio. Mia sorella, spalancando la porta e trovandole dietro un ostacolo, ne comprese al volo la ragione e ricorse a Tickler per ulteriori indagini. Concluse scaraventandomi - servivo spesso da proiettile coniugale - addosso a Joe, il quale, felice di tenermi tra le braccia comunque, mi trasferì nell'angolo del camino, e senza parere mi mise al riparo della sua grossa gamba.
«Dove sei stato scimmiotto?» chiese la signora Gargery, pestando i piedi. «Cos'è che hai combinato per mettermi in croce e darmi il tormento? Sbrigati a dirlo, se no ti tiro fuori da lì, ce ne fossero anche cinquanta di Pip e cinquecento di Gargery.»
«Sono solo andato al cimitero» risposi dalla mia sedia, piangendo e sfregandomi.
«Al cimitero» ripeté mia sorella. «Se non fosse per me, al cimitero ci andavi da un pezzo e ci restavi, anche. Chi è che ti ha tirato su con le sue mani?»
«Tu sei stata,» dissi.
«E perché l'ho fatto, mi piacerebbe proprio sapere?» esclamò mia sorella.
«Io non lo so» mugolai.
«Io non lo so!» disse, «ma so che non lo rifarei mai più! Giuro che da quando sei nato, questo grembiule ce l'ho sempre addosso. Non mi bastava essere la moglie di un fabbro (e di un Gargery, poi), mi toccava anche esser tua madre.»
Mentre guardavo sconsolato il fuoco, i miei pensieri vagarono in un'altra direzione. Il fuggiasco nella palude coi ferri alla gamba, il misterioso giovane, la lima, il cibo, l'impegno tremendo che mi ero preso di rubare in quella casa accogliente, presero forma tra le braci avide di vendetta.
«Ah!» riprese, rimettendo Tickler al suo posto. «Sì, al cimitero! Venite a parlarmi di cimitero, voi due!» Uno dei due, sia detto per inciso, non ne aveva parlato affatto. «Tra tutt'e due, a me mi ci mandate al cimitero uno di questi giorni! Proprio due bei campioni sareste senza di me!»
Mentre lei si metteva ad apparecchiare per il tè, Joe mi sbirciò sopra la gamba, come se stesse mentalmente soppesando e valutando che tipo di coppia saremmo stati io e lui, nella luttuosa eventualità prospettata. Poi, come faceva abitualmente se c'era aria di burrasca, se ne rimase seduto a tastarsi la fedina destra e i riccioli chiari seguendo con gli occhi i movimenti di Mrs. Gargery.
Mia sorella aveva un suo modo invariato e incisivo di prepararci il pane imburrato. Per prima cosa afferrava la pagnotta con la mano sinistra e se la schiacciava contro la pettorina - infilzandoci ora uno spillo, ora un ago, che poi ci ritrovavamo in bocca. Passava poi a spalmare il burro (non troppo) sul pane, con l'accuratezza di uno speziale che stesse preparando un impiastro, usando entrambi i lati del coltello con destrezza e vigore, rifilando e rimodellando il burro accumulato intorno alla crosta. Dava infine una bella pulita alla lama sul bordo dell'impiastro e recideva una grossa fetta tonda: prima di staccarla definitivamente dalla pagnotta, la trinciava in due parti uguali, di cui una toccava a Joe, l'altra a me.
Pur avendo fame, in quell'occasione non osai mangiare la mia parte. Sentivo di dover fare un po' di scorta per il mio spaventoso conoscente e per il suo giovane complice, anche più terrificante di lui. Conoscevo l'estrema parsimonia di mia sorella e sapevo che le mie ricerche truffaldine nella credenza potevano rivelarsi del tutto infruttuose. Decisi così di infilarmi il pezzo di pane e burro nella gamba dei pantaloni. Per attuare questo proposito, mi ci volle un tremendo sforzo di volontà. Era come trovarmi a decidere di saltare dal tetto di una casa altissima, o di tuffarmi in acque molto profonde. E l'ignaro Joe non faceva che accrescere le mie difficoltà. Eravamo massoni, come ho già detto, uniti da comune sventura, e il suo atteggiamento nei miei confronti era di solidale cameratismo; sicché avevamo preso l'abitudine, la sera, di confrontare silenziosamente la dimensione dei nostri bocconi, offrendo a più riprese le fette di pane alla nostra reciproca ammirazione - il che ci spronava a rinnovare gli sforzi. Quella sera Joe continuò a invitarmi a partecipare alla solita gara amichevole, mostrandomi la fetta che si riduceva a vista d'occhio; ma io ero sempre lì con la mia gialla tazza del tè su un ginocchio e il pane intatto sull'altro. Infine conclusi disperatamente che il mio piano andava eseguito e anche nel modo meno improbabile consentito dalle circostanze. Approfittai di un istante in cui Joe aveva appena distolto lo sguardo da me e mi infilai pane e burro giù per la gamba.
Joe era palesemente inquieto per la mia supposta mancanza di appetito; diede un morso pensieroso al pane, evidentemente senza gustarlo. Lo rigirò in bocca molto più a lungo del solito, rimuginandoci sopra per un bel po' e infine lo mandò giù come fosse una pillola. Stava per dare un altro morso, con la testa girata di fianco per staccare un bel boccone, quando lo sguardo gli cadde su di me e vide che il mio pane e burro era sparito.
La meraviglia, lo sgomento che lo arrestarono a occhi sgranati sulla soglia del morso, erano troppo evidenti perché mia sorella non se ne accorgesse.
«Cosa c'è adesso?» chiese acida, poggiando la tazza.
«Ma dico, insomma!» borbottò Joe, scuotendo la testa con un'aria di grave rimprovero. «Pip, vecchio mio! Guarda che ti prendi un accidente. Ti si ficca da qualche parte. Mica puoi averlo masticato!»
«Cosa c'è adesso?» ripeté mia sorella più aspramente di prima.
«Se ce la fai a buttar fuori anche una briciola con un colpo di tosse, ti raccomando di farlo, Pip» disse Joe preoccupatissimo. «La creanza è creanza, ma anche la salute è salute.»
A quel punto mia sorella era già su tutte le furie e si avventò su Joe, lo afferrò per le basette, gli sbatté per qualche tempo la testa contro il muro mentre io dal mio angolo, con aria colpevole, assistevo alla scena.
«E adesso forse ti decidi a dire cosa succede,» disse mia sorella ansimando, «razza di grosso maiale inebetito!»
Joe le rivolse uno sguardo impotente, diede un morso impotente al pane e poi di nuovo mi fissò gli occhi addosso.
«Tu sai, Pip,» disse solennemente, con l'ultimo boccone in bocca e un tono confidenziale, come se fossimo soli, «che io e te si è sempre stati amici e non sarò io l'ultimo a farti la spia, mai e poi mai. Ma un…» spostò la sedia e guardò il pavimento in mezzo a noi, e di nuovo su di me, «ma un malloppo di quella sorta!»
«Ha ingoiato il cibo senza masticarlo, eh?» urlò mia sorella.
«Sai, vecchio mio,» disse Joe guardando me e non lei, col boccone ancora in bocca, «anch'io alla tua età inghiottivo senza masticare e da ragazzo ne ho conosciuti molti della stessa risma; ma, come te, non ne ho mai visto nessuno, Pip; è un miracolo che non ti ci sei strozzato.»
Mia sorella si tuffò verso di me, mi ripescò per i capelli e disse solo queste orrende parole: «Vieni! La purga!»
A quei tempi, non so che bestia di medico aveva riesumato come buon farmaco l’infuso di pece, e la signora Gargery ne teneva sempre una scorta nella credenza, convinta che la sua efficacia fosse proporzionale al suo sapore disgustoso. Nel migliore dei casi, l'elisir mi veniva somministrato come ricostituente di prim'ordine in quantità tali, da darmi la sensazione di andare in giro puzzando come uno steccato dipinto a nuovo. In quella situazione particolare l'urgenza del mio caso esigeva un'intera pinta dell'intruglio che, per facilitarmi il compito, mia sorella mi rovesciò in gola tenendomi ferma la testa sotto il braccio, come uno stivale tenuto fermo da un cavastivali. Joe se la cavò con mezza pinta, che fu costretto a ingoiare (con suo gran fastidio mentre se ne stava accanto al fuoco ruminando e meditando), perché uno scossone se l'era preso anche lui. Giudicando in base alla mia esperienza, direi che sicuramente lo scossone l'ebbe dopo, anche se non se l'era preso prima.
È un peso tremendo, per un uomo o un ragazzo, essere accusato dalla propria coscienza; ma se, nel caso di un ragazzo, quel segreto fardello si aggrava in presenza di un altro fardello segreto lungo la gamba dei pantaloni, è davvero (e ne sono testimone) un grande castigo. La colpevole consapevolezza di esser sul punto di derubare mia sorella - non pensavo a Joe poiché non avevo mai considerato di sua appartenenza alcuna proprietà domestica – sommata alla necessità di tenere una mano sul pane e burro, seduto che fossi oppure spedito in giro per la cucina per qualche piccola incombenza, quasi mi fece impazzire. Quando poi all'improvviso il fuoco avvampò, destato dal vento della palude, mi parve di sentire là fuori la voce dell'uomo coi ferri alla gamba cui avevo giurato segretezza, che gridava di non potere né volere sopportare la fame sino all'indomani, e di dover essere nutrito all'istante. Vi erano momenti in cui pensavo: e se il giovane faticosamente trattenuto dall'affondarmi dentro le mani, cedesse a una sua naturale propensione all'impazienza, o sbagliasse giorno sentendosi autorizzato al possesso del mio cuore e del mio fegato non domani ma stasera? Se mai a qualcuno capelli si rizzarono per il terrore, quell’uno ero io. Ma, forse, a nessuno si sono mai rizzati!
Era la vigilia di Natale e, dalle sette alle otto secondo l’orologio olandese, dovevo rimestare il budino per l'indomani con un mestolo di rame. Ci provai con quell'ingombro sulla gamba (il che mi riportò all'uomo e all'ingombro sulla sua gamba), ma mi accorsi che quel movimento rendeva incontrollabile il pane e burro che tendeva a sgusciare verso la caviglia. Fortunatamente sgattaiolai fuori dalla cucina e depositai quella parte di coscienza nella mia stanza da letto in soffitta.
«Ascolta!» dissi, quand'ebbi finito di mescolare, seduto nell'angolo del camino a prendermi l'ultimo caldo prima d'esser mandato a letto. «Erano scariche di artiglieria, Joe?»
«Oh!» disse Joe. «C’è in giro un altro galeotto.»
«Cosa vuol dire, Joe?» chiesi.
La signora Gargery, che si assumeva regolarmente il compito di fornire qualunque risposta, disse stizzosamente: «Evaso, evaso», e mi somministrò questa definizione al modo dell’infuso di pece.
Mentre era china sul cucito, col solo moto delle labbra chiesi a Joe: «Cos'è un galeotto?». Il movimento delle sue labbra mise insieme una risposta talmente elaborata, che non mi riuscì di ricavarne altro che la parola «Pip».
«Un forzato se l'è filata ieri dopo il cannone del tramonto,» disse Joe a voce alta, «e hanno sparato per dare l'allarme. Ne sarà scappato un altro, se sparano di nuovo.»
«Chi spara?» dissi io.
«Accidenti a te!» s'intromise mia sorella, guardandomi arcigna da sopra il lavoro. «Che razza di ficcanaso sei! Non far domande, e non ti si diranno bugie.»
Non mi parve gentile, nei confronti di sé stessa, sottintendere che, pur trovandomi io a fare delle domande, lei mi avrebbe risposto con delle menzogne. Ma gentile non lo era mai, mia sorella, a meno che non vi fossero degli estranei
A quel punto Joe mi fece incuriosire ancor di più, sforzandosi di spalancare la bocca a più non posso per dar forma a una parola, che mi parve «megera». Mi sembrò quindi naturale indicare mia sorella, formando la parola «Lei?» Ma Joe non mi badò e spalancando di nuovo la bocca, ne scrollò fuori la forma di una parola altamente enfatica, che comunque non riuscii a capire.
«Signora Gargery,» dissi come ultima risorsa, «gradirei sapere (se non ha nulla in contrario) da dove vengono gli spari.»
«Dio ti benedica!» esclamò come non intendesse dir quello, ma piuttosto il contrario. «Dalla galera!»
«Oh!» dissi io, guardando Joe. «Galera!»
Joe tossì in tono di rimprovero, come per dire: «Be', non te l'avevo detto?»
«E, di grazia, che cos’è una galera?» domandai.
«Ecco come vanno le faccende, con questo ragazzo!» esclamò mia sorella, puntando su di me mi ago e filo e scuotendo la testa. «Dagli una risposta e ne vuole cento. La galera è la nave-prigione dall'altra parte dell'acquamorta.» Dalle nostre parti usavamo sempre quel nome per indicare la palude.
«Mi piacerebbe sapere chi ci mettono, nella nave-prigione, e perché ce li mettono» dissi io, in modo generale, e con tranquilla disperazione.
Era troppo, per la signora Gargery, che si alzò di scatto, e: «Ti dico una cosa, giovanotto,» disse «non ti ho tirato su con le mie mani perché cavassi il fiato alla gente. Sarebbe un titolo non di lode, ma di biasimo, per me, se l’avessi fatto. In galera ci finiscono quelli che ammazzano, rubano, imbrogliano e ne combinano di tutti i colori; comunque cominciano sempre facendo domande. E adesso fila a letto!»
Non mi era mai consentito farmi luce con una candela, e mentre salivo le scale al buio con un ronzio in testa - ci aveva suonato il tamburello col ditale, come accompagnamento alle sue ultime parole - mi sentii paurosamente consapevole del vantaggio che la vicinanza della galera mi offriva. Era lì che sarei finito. Avevo iniziato facendo domande, avrei proseguito derubando mia sorella.
Da allora, e di tempo ne è passato parecchio, ho pensato spesso che sono in pochi a sapere quale senso del segreto abbia un ragazzo in preda al terrore. Poco importa che esso sia assurdo, conta solo il fatto che esista. Io avevo un terrore mortale del giovane avido del mio cuore e del mio fegato; avevo un terrore mortale del mio interlocutore coi ferri alla gamba; avevo un terrore mortale di me stesso e della spaventosa promessa che mi era stata estorta. Non vi era speranza di salvezza nella mia onnipotente sorella che non perdeva occasione per respingermi; tremo pensando a quanto sarei stato disposto a fare, nel segreto impostomi dal terrore.
Se quella notte dormii, fu solo per vedermi scivolare sul fiume, a cavallo di un’impetuosa marea verso la galera; mentre passavo davanti alla forca, un pirata spettrale urlava col portavoce di tornare a riva per farmi impiccare all'istante, senza aspettare dell'altro tempo. Avevo paura di addormentarmi, ammesso pure che ne sentissi l'inclinazione, sapendo che avrei dovuto saccheggiare la dispensa al primo fioco chiarore dell'alba. Non potevo agire di notte, essendo impossibile a quel tempo procurarsi una luce con una semplice strofinata; per vederci, avrei dovuto battere l'acciarino sulla pietra focaia, facendo non meno rumore del pirata che scuoteva le sue catene.
Non appena il grande manto di velluto nero fuori dalla mia finestrella si striò di grigio, mi alzai e scesi dabbasso, mentre ogni tavola su cui poggiavo i piedi, e ogni fessura di ogni tavola mi gridava: «Al ladro!» e «Sveglia, signora Gargery!» Nella dispensa, molto più rifornita del solito in quella stagione dell'anno, fui messo in grande agitazione da una lepre appesa per le zampe che mi parve di sorprendere, mentre passavo, a farmi l'occhiolino. Non ebbi tempo di verificare, né di vagliare, né di fare qualsiasi altra cosa, perché non avevo tempo da perdere. Rubai del pane, qualche crosta di formaggio, un mezzo vaso di frutta secca (che legai nel fazzoletto insieme al pane imburrato della sera precedente), un po' di acquavite (che travasai dall'orcio in una bottiglia di vetro, già usata di nascosto nella mia stanza per preparare quella bibita inebriante che è l'acqua di liquirizia; diluendo poi l'acquavite rimasta col liquido di una brocca che stava nella credenza in cucina), un osso mezzo spolpato e un pasticcio di maiale bello tondo e compatto. Me ne stavo quasi andando senza il pasticcio, quando ebbi la tentazione di arrampicarmi su uno scaffale per vedere cosa fosse quella pietanza riposta con tanta cura nell'angolo in un recipiente di terracotta ben coperto, e scoprii che era il pasticcio, e me ne appropriai nella speranza che non servisse a un uso immediato e che per qualche tempo non se ne notasse la mancanza. Una porta metteva in comunicazione la cucina con la bottega; girai la chiave, tolsi il catenaccio e presi una lima dagli utensili di Joe. Poi rimisi chiave e catenaccio al loro posto, aprii la porta da cui ero entrato dopo la corsa della sera precedente, la richiusi e mi precipitai verso la palude nebbiosa.
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(1) Tickler = il termine viene da to tickle, che significa titillare, accarezzare.







lunedì 23 aprile 2018

182 Grandi speranze - Capitolo I (di Charles Dickens)



Pubblicato a puntate sulla rivista “All the Year Round” tra il 1860 e il 1861, “Grandi speranze” è un tipico romanzo di formazione, che racconta la maturazione dell’orfano Pip dalla primissima infanzia all’età di circa quarant’anni. Considerato un classico della letteratura vittoriana e uno dei più grandi romanzi di Dickens, alterna profonde riflessioni sul carattere e il comportamento degli esseri umani a annotazioni satiriche e a volte comiche che ne rendono la lettura avvincente e godibilissima; a cominciare da questo primo capitolo in cui il protagonista bambino si imbatte nell’ambiente lugubre di un cimitero in un evaso dalla vicina galera.

CAPITOLO I

Il cognome di mio padre essendo Pirrip e il mio nome di battesimo Philip, la mia lingua infantile non riuscì mai a cavare da entrambi nulla di più lungo o di più esplicito che Pip. Così mi chiamai Pip, e Pip finii per essere chiamato.
Che il cognome di mio padre fosse Pirrip, lo dico sulla fede della sua lapida e di mia sorella – la signora Gargery – che sposò il fabbro. Poiché non ho mai visto né mio padre né mia madre, e non ho mai visto ritratti di nessuno dei due (i loro giorni avendo preceduto di gran lunga l’era dei fotografi), le mie prime fantasticherie sul loro aspetto fisico furono irragionevolmente dedotte dalle loro pietre sepolcrali. La forma delle lettere su quella di mio padre mi suggerì la strana idea che fosse un uomo tozzo, quadrato, scuro, dai capelli neri e ricci. Dai caratteri e dalla forma dell’iscrizione «E Georgiana, Moglie del Sullodato», trassi la fanciullesca conclusione che mia madre fosse lentigginosa e malaticcia. A cinque piccole losanghe di pietra, lunghe quarantacinque centimetri l’una, disposte in bell’ordine lungo la tomba e consacrate alla memoria di cinque miei fratellini - che rinunciarono eccessivamente presto a tentar di guadagnarsi il pane in questa lotta di tutti contro tutti -, sono debitore della credenza, religiosamente intrattenuta, che fossero nati tutti quanti sulla schiena e con le mani in tasca, e che, in questo stato d’esistenza, non le avessero mai tirate fuori.
Abitavamo nella zona paludosa giù dal fiume, a venti miglia - dati i serpeggiamenti del fiume - dal mare. Credo di aver avuto la prima percezione, estremamente vivida e netta, dell'identità delle cose, in un rigido memorabile pomeriggio, all'imbrunire. Fu allora che scoprii con certezza che quel luogo desolato coperto di ortiche era il cimitero; e che Philip Pirrip, defunto di questa parrocchia, e anche Georgiana moglie del sullodato, erano morti e sepolti; e che Alexander, Bartholomew, Abraham, Tobias e Roger, bambini del sunnominato, erano anch'essi morti e sepolti; e che la piatta distesa fosca al di là del cimitero, intersecata da canali, argini e barriere, su cui pascolava sparso il bestiame, era la palude; e che la bassa linea livida più giù era il fiume; e che la tana remota e selvaggia da cui si scatenava il vento, era il mare; e che il mucchietto di brividi che sentiva crescere la paura di ogni cosa e si metteva a piangere, era Pip. 
«Smettila di far rumore!» gridò una voce terribile, mentre un uomo sbucava tra le tombe, di fianco al portico della chiesa. «Sta’ zitto, piccolo demonio, o ti taglio la gola!»
Un uomo spaventoso, vestito di ruvido panno grigio, con un grosso cerchio di ferro alla gamba. Un uomo senza cappello, con le scarpe rotte e un vecchio straccio legato intorno alla testa. Rimasto a macerare nell'acqua, a soffocare nel fango, azzoppato da pietre, ferito da sassi, punto da ortiche, graffiato da rovi; un uomo zoppo e tremante, truce e torvo, che batteva i denti afferrandomi per il mento. 
«Oh, non mi tagli la gola, signore!» supplicai terrorizzato. «Non lo faccia, signore, la prego!»
«Dicci come ti chiami!» ripeté l’uomo. «Presto!»
«Pip, signore.»
«Di nuovo» disse l’uomo, fissandomi. «Più forte!»
«Pip. Pip, signore.»
«Dicci dove abiti» continuò l’uomo. «Butta fuori il posto!»
Puntai l'indice sulla landa piatta, verso il punto in cui sorgeva il villaggio, circondato da ontani e capitozze, a un miglio o poco più dalla chiesa. 
Dopo avermi guardato per un attimo, mi mise a testa in giù e mi svuotò le tasche. Non contenevano altro che un pezzo di pane. Quando la chiesa si rimise a posto - poiché era stato talmente repentino e robusto da mandarmela a gambe levate davanti agli occhi, e il campanile me l'ero visto sotto i piedi - quando la chiesa si rimise a posto, dico, mi ritrovai seduto e tremante su un'alta pietra tombale, mentre lui divorava il mio pane. 
«Ehi, marmocchio,» disse leccandosi le labbra, «sai che hai due belle guance grasse?»
Credo che lo fossero, anche se allora ero piccolo per la mia età e nient'affatto robusto. 
«Che mi venga un colpo se non me le mangerei,» disse scuotendo minacciosamente la testa, «e se quasi non ho la voglia di farlo!»
Espressi la fervida speranza che non lo facesse e mi aggrappai più fermamente alla pietra, sia per tenermi in equilibrio, sia per trattenermi dal piangere. 
«Allora sta a sentire!» disse l’uomo. «Dov'è tua madre?»
«Lì, signore!» dissi. 
Sobbalzò, si slanciò in una breve corsa, si fermò e si guardò alle spalle. 
«Lì, signore!» spiegai timidamente. «E Georgiana. È lei mia madre.»
«Ah!» disse tornando indietro. «E tuo padre è quello che sta con tua madre?»
«Sissignore, proprio lui, defunto di questa parrocchia.»
«Ah!» borbottò allora, riflettendo. «E allora tu con chi vivi… ammesso che ti si lasci cortesemente vivere, cosa che resta ancora da decidere?»
«Con mia sorella, signore, la moglie di Joe Gargery il fabbro, signore.» 
«Il fabbro, eh?» disse lui, guardandosi la gamba. 
Dopo aver lanciato parecchie occhiate torve a me e ad essa, si avvicinò alla mia pietra tombale, mi afferrò per le braccia e mi inclinò più indietro che poté, di modo che i suoi occhi mi guardavano imperiosi dall'alto e i miei lo guardavano del tutto atterriti dal basso. 
«Ora, sta a sentire» disse «giacché il punto è se ti lascio vivere o no. Sai che cos'è una lima?»
«Sissignore.»
«E sai cosa sono i viveri?»
«Sissignore.»
A ogni domanda mi inclinava un po' più indietro, per accrescere il mio senso di impotenza e pericolo. 
«Tu trovami una lima.» Mi inclinò più indietro. «E viveri.» Mi inclinò più indietro. «E me li porti.» Mi inclinò più indietro. «Se no, ti strappo il cuore e il fegato.» Mi inclinò ancora più indietro. 
Ero terrorizzato e mi girava talmente la testa, che mi aggrappai a lui con tutt'e due le mani e dissi: «Se fosse così gentile da rimettermi dritto, signore, forse non mi sentirei tanto male, e le baderei meglio».
Mi diede una scrollata così energica, che la chiesa balzò sopra la sua stessa banderuola; poi mi tenne dritto per le braccia in cima alla tomba e disse queste orrende parole: 
«Lima e viveri me li porti domattina presto. Me li porti alla vecchia Batteria là dietro. Se lo farai, e ti guarderai dal dir parola o fare cenno da cui risulti che hai visto una persona come me o una persona in generale, hai salva la pelle. Se non lo farai, o ti scosterai nel più piccolo particolare dalle mie parole, cuore e fegato ti saranno strappati, arrostiti e mangiati. E guarda che non sono solo, come forse puoi credere. C'è un tizio giovane nascosto qua intorno, che io in confronto sono un angelo. E proprio adesso sta sentendo ogni parola. È un tizio che ha un sistema tutto suo, segreto, di acchiappare un ragazzino e strappargli cuore e fegato. Un ragazzino non ha scampo con un tipo come lui. Anche se chiude a chiave la porta di casa e se ne sta al calduccio nel letto e si rimbocca le coperte e se le tira sopra la testa e si sente sano e salvo, quel tizio lì gli si avvicina a passi felpati, e lo scopre nudo. E proprio adesso faccio una gran fatica a impedirgli di acchiapparti. È difficilissimo tenerlo lontano dalle tue viscere. Allora, che mi dici?»
Risposi che gli avrei procurato la lima e tutti i bocconi di cibo che fossi riuscito a racimolare, e che lo avrei raggiunto alla Batteria la mattina presto. 
«Di’ che Iddio ti fulmini se non lo fai!» ordinò l’uomo. 
Lo dissi e lui mi mise a terra. 
«Ora,» proseguì «ricorda che cos’hai promesso, ricordati anche di quell'altro tizio e vattene a casa!» 
«Buo… buonanotte, signore» balbettai. 
«Proprio buona!» disse guardando intorno a sé la landa umida e fredda. «Vorrei essere una rana. O un'anguilla!»
Mentre parlava, si strinse il corpo percorso da brividi tra le braccia - abbracciandosi, come per tenersi insieme - e zoppicò verso il basso muro della chiesa. Lo guardavo, mentre si allontanava aprendosi una strada tra le ortiche e i rovi che cingevano i tumuli coperti d'erba, e ai miei occhi di bambino pareva che sfuggisse alle mani dei morti che si protendevano caute dalle tombe, per avvinghiarne le caviglie e tirarlo dentro. 
Arrivato al basso muro della chiesa, lo superò come se avesse le gambe intorpidite e rigide, e poi si voltò a guardare dov'ero. Quando vidi che si girava, rivolsi il viso verso casa e usai al meglio le gambe. Ma quasi subito mi guardai indietro e vidi che aveva ripreso a camminare verso il fiume, ancora tenendosi stretto con tutt'e due le braccia e procedendo con i piedi doloranti tra le grosse pietre sparse nella palude, che servivano da guado quando pioveva forte o saliva la marea. 
Quando mi fermai a guardarlo, la palude era solo una linea orizzontale lunga e nera; e anche il fiume era solo una linea orizzontale, molto più stretta, ancora non così buia; e il cielo era solo un insieme di lunghe, rabbiose linee rosse frammiste a spesse linee nere. In riva al fiume riuscivo a malapena a distinguere le uniche due cose nere che parevano ergersi sul paesaggio piatto. Una era la boa che serviva da segnale ai marinai - simile a una botte senza cerchi in cima a un palo - una brutta cosa, a vederla da vicino; l'altra era una forca, da cui pendevano delle catene che un tempo avevano avvinto un pirata. L'uomo zoppicando vi si avvicinava, quasi fosse il pirata tornato in vita, disceso dalla forca e intenzionato a risalirvi per impiccarsi un'altra volta. Nel pensarlo, trasalii dal terrore; e vedendo che le bestie al pascolo alzavano la testa per guardarlo passare, mi chiesi se lo pensavano anch'esse. Mi guardai tutt'intorno alla ricerca dell'orrendo giovane senza scoprirne traccia. Ma a quel punto ero di nuovo pieno di paura e scappai a casa senza fermarmi.



venerdì 30 marzo 2018

181 Chissà come si divertivano! (di Isaac Asimov)



Così Asimov presenta queste breve racconto nell’introduzione all’antologia “Il meglio di Asimov” che lo contiene:
«Chissà come si divertivano! è probabilmente la sorpresa più grande della mia carriera letteraria. Un amico personale mi pregò di scrivere un raccontino di fantascienza per un giornaletto scolastico di cui era redattore, e io acconsentii, per pura amicizia. Ero convinto che la novelletta sarebbe apparsa per un giorno solo su qualche giornale, e poi sarebbe finita nel dimenticatoio.
Invece, venne pubblicata anche da Fantasy and Science Fiction e, con mia meraviglia, cominciarono a fioccare le richieste di ristampa. Sarà stata ripubblicata di sicuro una trentina di volte, e da una quindicina d'anni a questa parte continua ad essere richiesta e ristampata (anche ora, infatti).
Perché? Non lo so il perché. Se avessi la mentalità del critico (ma proprio non l'ho) cercherei di analizzare i miei racconti, calcolerei i fattori per i quali alcuni hanno maggiore successo di altri, coltiverei quei fattori e toccherei il culmine dell'eccellenza.
Ma al diavolo una simile idea. Se il prezzo del successo è la perdita della libertà di scrivere ciò che voglio, non sono disposto a pagarlo. Il mio temperamento non me lo consente. Scriverò quello che mi garba e lascerò che le analisi le facciano i critici. (Qualcuno, ieri, mi diceva che un critico è come un eunuco in un harem. Può osservare, studiare, analizzare... ma, da parte sua, non può far niente.)»
La prima pubblicazione di questo racconto è del 1951.

Margie lo scrisse perfino nel suo diario, quella sera. Sulla pagina che portava la data 17 maggio 2157, scrisse: «Oggi Tommy ha trovato un vero libro!»
Era un libro antichissimo. Il nonno di Margie aveva detto una volta che, quand'era bambino lui, suo nonno gli aveva detto che c'era stata un'epoca in cui tutte le storie e i racconti erano stampati su carta.
Si voltavano le pagine, che erano gialle e fruscianti, ed era buffissimo leggere parole che se ne stavano ferme invece di muoversi, com'era previsto che facessero: su uno schermo, è logico. E poi, quando si tornava alla pagina precedente, sopra c'erano le stesse parole che loro avevano già letto la prima volta.
«Mamma mia, che spreco» disse Tommy. «Quand'uno è arrivato in fondo al libro, che cosa fa? Lo butta via, immagino. Il nostro schermo televisivo deve avere avuto un milione di libri, sopra, ed è ancora buono per chissà quanti altri. Chi si sognerebbe di buttarlo via?»
«Lo stesso vale per il mio» disse Margie. Aveva undici anni, lei, e non aveva visto tanti telelibri quanti ne aveva visti Tommy. Lui di anni ne aveva tredici.
«Dove l'hai trovato?» gli domandò.
«In casa.» Indicò senza guardare, perché era occupatissimo a leggere. «In solaio.»
«Di che cosa parla?»
«Di scuola.»
«Di scuola?» Il tono di Margie era sprezzante. «Cosa c'è da scrivere, sulla scuola? Io, la scuola, la odio.»
Margie aveva sempre odiato la scuola, ma ora la odiava più che mai. L'insegnante meccanico le aveva assegnato un test dopo l'altro di geografia, e lei aveva risposto sempre peggio, finché la madre aveva scosso la testa, avvilita, e aveva mandato a chiamare l'Ispettore della Contea.
Era un omino tondo tondo, l'Ispettore, con una faccia rossa e uno scatolone di arnesi con fili e con quadranti. Aveva sorriso a Margie e le aveva offerto una mela, poi aveva smontato l'insegnante in tanti pezzi. Margie aveva sperato che poi non sapesse più come rimetterli insieme, ma lui lo sapeva e, in poco più di un'ora, l'insegnante era di nuovo tutto intero, largo, nero e brutto, con un grosso schermo sul quale erano illustrate tutte le lezioni e venivano scritte tutte le domande. Ma non era quello, il peggio. La cosa che Margie odiava soprattutto era la fessura dove lei doveva infilare i compiti e i testi compilati. Le toccava scriverli in un codice perforato che le avevano fatto imparare quando aveva sei anni, e il maestro meccanico calcolava i voti a una velocità spaventosa.
L'ispettore aveva sorriso, una volta finito il lavoro, e aveva accarezzato la testa di Margie. Alla mamma aveva detto: «Non è colpa della bambina, signora Jones. Secondo me, il settore geografia era regolato male. Sa, sono inconvenienti che capitano, a volte. L'ho rallentato. Ora è su un livello medio per alunni di dieci anni. Anzi, direi che l'andamento generale dei progressi della scolara sia piuttosto soddisfacente.» E aveva fatto un'altra carezza sulla testa a Margie.
Margie era delusa. Aveva sperato che si portassero via l'insegnante, per ripararlo in officina. Una volta s'erano tenuti quello di Tommy per circa un mese, perché il settore storia era andato completamente a pallino.
Così, disse a Tommy: «Ma come gli viene in mente, a uno, di scrivere un libro sulla scuola?»
Tommy la squadrò con aria di superiorità. «Ma non è una scuola come la nostra, stupida! Questo è un tipo di scuola molto antico, come l'avevano centinaia e centinaia di anni fa.» Poi aggiunse altezzosamente, pronunciando la parola con cura. «Secoli fa.»
Margie era offesa. «Be', io non so che specie di scuola avessero, tutto quel tempo fa.» Per un po' continuò a sbirciare il libro, china sopra la spalla di lui, poi disse: «In ogni modo, avevano un maestro.»
«Certo che avevano un maestro, ma non era un maestro regolare. Era un uomo.»
«Un uomo? Come faceva un uomo a fare il maestro?»
«Be', spiegava le cose ai ragazzi e alle ragazze, dava da fare dei compiti a casa e faceva delle domande.»
«Un uomo non è abbastanza in gamba.»
«Sì che lo è. Mio papà ne sa quanto il mio maestro.»
«Ma va'! Un uomo non può saperne quanto un maestro.»
«Ne sa quasi quanto il maestro, ci scommetto.»
Margie non era preparata a mettere in dubbio quell'affermazione. Disse:
«Io non ce lo vorrei un estraneo in casa mia, a insegnarmi.»
Tommy rise a più non posso. «Non sai proprio niente, Margie. Gli insegnanti non vivevano in casa. Avevano un edificio speciale e tutti i ragazzi andavano là.»
«E imparavano tutti la stessa cosa?»
«Certo, se avevano la stessa età.»
«Ma la mia mamma dice che un insegnante dev'essere regolato perché si adatti alla mente di uno scolaro o di una scolara, e che ogni bambino deve essere istruito in modo diverso.»
«Sì, però loro a quei tempi non facevano così. Se non ti va, fai a meno di leggere il libro.»
«Non ho detto che non mi va, io» si affrettò a precisare Margie. Certo che voleva leggere di quelle buffe scuole.
Non erano nemmeno a metà del libro quando la signora Jones chiamò:
«Margie! A scuola!»
Margie guardò in su. «Non ancora, mamma.»
«Subito!» disse la signora Jones. «E sarà ora di scuola anche per Tommy, probabilmente.»
Margie disse a Tommy: «Posso leggere ancora un po' il libro con te, dopo la scuola?»
«Vedremo» rispose lui, con noncuranza. Si allontanò fischiettando, il vecchio libro polveroso stretto sotto il braccio.
Margie se ne andò in classe. L'aula era proprio accanto alla sua cameretta, e l'insegnante meccanico, già in funzione, la stava aspettando. Era in funzione sempre alla stessa ora, tutti i giorni tranne il sabato e la domenica, perché la mamma diceva che le bambine imparavano meglio se imparavano a orari regolari.
Lo schermo era illuminato e diceva: «Oggi la lezione di aritmetica è sull'addizione delle frazioni proprie. Prego inserire il compito di ieri nell'apposita fessura.»
Margie obbedì, con un sospiro. Stava pensando alle vecchie scuole che c'erano quando il nonno di suo nonno era bambino. Ci andavano i ragazzi di tutto il vicinato, ridevano e vociavano nel cortile, sedevano insieme in classe, tornavano a casa insieme alla fine della giornata. Imparavano le stesse cose, così potevano darsi una mano a fare i compiti e parlare di quello che avevano da studiare.
E i maestri erano persone...
L'insegnante meccanico faceva lampeggiare sullo schermo: «Quando addizioniamo le frazioni 1/2 + 1/4 ...»
Margie stava pensando ai bambini di quei tempi, e a come dovevano amare la scuola. Chissà, stava pensando, come si divertivano!