Anche in questo brano tratto da “Memoria
della Resistenza” Mario Spinelli sottolinea tutto il suo disprezzo per i
fascisti, servi dei tedeschi, di essi paurosi. E contrappone a loro le certezze
degli uomini e delle donne della Resistenza, che, nell’ombra, stanno preparando
pericolosamente il riscatto di Firenze e dell’Italia.
Firenze, febbraio 1944
Di giorno in giorno Firenze
appare di più come una città assediata: le sue strade, che ricordavo gaie nei
miei viaggi da Pisa, ora si svuotano presto. La gente non esce di casa se non
per necessità, le vetrine si sguarniscono, i cinema sono deserti. Nei grande
caffè di piazza Vittorio, a certe ore del giorno, i camerieri si aggirano come
spettri, e solo la rissosa allegria dei fascisti fa correre il vino e i
liquori.
Anche la vita familiare, entro le
mura, non più sicure, delle case si fa squallida e chiusa: ognuno combatte la
sua piccola lotta per procacciare il cibo a sé e ai figli; fa freddo nelle
stanze, e si va a letto al tramonto per tentare di scaldarsi, almeno, sotto le
coperte. Molti vivono clandestinamente, con falso nome, false carte, effimeri
domicili; e vi è anche chi non esce da mesi, chi è nascosto in un abbaino, in
una cantina, tra i profughi e gli sfollati di Palazzo Pitti e delle caserme
fuori uso.
Circolano voci di arresti, di
prelevamenti, di perquisizioni, non si parla con chi non si conosca bene, non
ci si incontra più se non in giro ristretto e fidato. Persino i ragazzi delle
scuole sono diversi, e mi ricordano gli studenti di Karkov o di Kupjansk (1) che
si recavano a lezione con gli occhi bassi, i libri sotto il cappotto, ad uno ad
uno, come per non dare nell’occhio, per scomparire.
In questo raggelarsi e intristirsi
della città, i più squallidi e tetri sono i fascisti: ostentano sempre una
falsa sicurezza, una falsa allegria. Fingono di non accorgersi che l’odio sale,
come il freddo della morte, intorno a loro. Urlano, sbracati, nelle grandi
piazze, entrano nei bar e nelle osterie in gruppi compatti, squadrano le donne
con occhi avidi, gli uomini con disprezzo e ironia. Ma non è difficile scorgere
che la loro è un’allegria di servi, o di lacchè (2), sotto il duro sguardo
tedesco. E preferiscono, i tedeschi, non incontrarli: richiudono la porta di un
caffè se ne vedono qualcuno, cambiano strada allo spuntare di una pattuglia di Feldgendarmerie (3), tacciono se si
trovano in loro presenza. Mai mi è accaduto di scorgere tra questi uomini in
uniforme che pure si battono sotto le stesse insegne, un momento di cordialità
e di cameratismo. E se ciò poteva non essere insolito negli anni in cui si era
casualmente soldati sullo stesso fronte, se sempre una barriera profonda ci
aveva separato in Russia o in Jugoslavia – tra i volontari di Salò (4) e l’esercito
occupante questo totale distacco acquistava altri significati. Mi ricordava lo
spregio senza limiti con cui un ufficiale tedesco mi aveva parlato un giorno, a
Karkov, dei pochi ucraini che si erano posti al loro servizio, e di quanto
invece egli ammirasse il valore dei resistenti (5) anche se, come mi aveva
detto «ai primi devo dare
cibo e denaro, ai secondi la tortura e la morte». E nulla mi appariva più al di
fuori della ragione che il continuo parlare di onore dei servi repubblichini di
fronte ai quali i tedeschi, bene o male, pur rappresentavano una diversa, per
quanto abominevole, realtà.
In questo deserto che era Firenze, come punti di luce
reconditi tra le sue mura, si accendevano i fuochi della resistenza. Forse in
quella casa davanti a cui ora passa, e si arresta, una pattuglia, c’è una
tipografia clandestina, o qualcuno verga un volantino, o un fabbro prepara i
chiodi a tre punte (6), un chimico le miscele esplosive. Quell’uomo che
zoppica, con l’aria smunta, le scarpe scalcagnate, ha in tasca un foglio
ciclostilato, quell’altro una pistola o una bomba. La ragazza ben vestita
nasconde nella borsetta un messaggio da recapitare, l’operaio che esce dalla
fabbrica si affretta a una riunione (7). Persino questo ragazzo coi pantaloni
corti, che fischietta sul Lungarno spingendo un triciclo, entro la cassa di
bottiglie vuote può avere un cliché o una colonna di piombo (8) dei nostri
giornali, e quell’altro che si trascina a fatica un sacco di stracci,
amorosamente avvolta nel mezzo del mucchio forse ha un’arma che deve portare a
un amico, che penserà poi, talvolta in una lunga catena, a farla arrivare in
montagna (9).
Di questa vita elementare e nuda vive Firenze; e noi in
essa, con il nostro assillante pensiero, e talvolta la fierezza, altre la
paura, la nostra fame, il nostro dolore; ma più di tutto la speranza, la
certezza che stiamo facendo l’unica cosa che è giusto fare.
1) Karkov e Kupjansk = città dell’Ucraina, che Spinella
conobbe durante la campagna di Russia del 1942
2) lacchè = persona pronta a manifestazioni di servile
ossequio (come i domestici in livrea che precedevano o seguivano per strada i loro
padroni)
3) Feldgendarmerie = la polizia militare dell’esercito
tedesco, fino alla Seconda guerra mondiale
4) volontari di Salò = i sostenitori e seguaci della Repubblica
Sociale Italiana, guidata da Mussolini ma voluta da Hitler, che governò l’Italia
occupata dal settembre 1943 all’aprile 1945. Più avanti sono chiamati con il
termine repubblichini
5) resistenti = in questo caso sono coloro che si erano
opposto all’invasione tedesca dell’Ucraina tra il 1941 e il 1944
6) chiodi a tre punte = vedi la nota nel brano 24
7) ovviamente è una riunione clandestina, dei partigiani, o
di un partito antifascista
8) cliché e colonna di piombo = strumenti per stampare un
volantino o un giornale
9) cioè ai partigiani che operano in montagna
Soldati tedeschi a
Firenze nel 1943
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