domenica 4 dicembre 2016

25 Allegria di servi (di Mario Spinella)




Anche in questo brano tratto da “Memoria della Resistenza” Mario Spinelli sottolinea tutto il suo disprezzo per i fascisti, servi dei tedeschi, di essi paurosi. E contrappone a loro le certezze degli uomini e delle donne della Resistenza, che, nell’ombra, stanno preparando pericolosamente il riscatto di Firenze e dell’Italia.

Firenze, febbraio 1944

Di giorno in giorno Firenze appare di più come una città assediata: le sue strade, che ricordavo gaie nei miei viaggi da Pisa, ora si svuotano presto. La gente non esce di casa se non per necessità, le vetrine si sguarniscono, i cinema sono deserti. Nei grande caffè di piazza Vittorio, a certe ore del giorno, i camerieri si aggirano come spettri, e solo la rissosa allegria dei fascisti fa correre il vino e i liquori.
Anche la vita familiare, entro le mura, non più sicure, delle case si fa squallida e chiusa: ognuno combatte la sua piccola lotta per procacciare il cibo a sé e ai figli; fa freddo nelle stanze, e si va a letto al tramonto per tentare di scaldarsi, almeno, sotto le coperte. Molti vivono clandestinamente, con falso nome, false carte, effimeri domicili; e vi è anche chi non esce da mesi, chi è nascosto in un abbaino, in una cantina, tra i profughi e gli sfollati di Palazzo Pitti e delle caserme fuori uso.
Circolano voci di arresti, di prelevamenti, di perquisizioni, non si parla con chi non si conosca bene, non ci si incontra più se non in giro ristretto e fidato. Persino i ragazzi delle scuole sono diversi, e mi ricordano gli studenti di Karkov o di Kupjansk (1) che si recavano a lezione con gli occhi bassi, i libri sotto il cappotto, ad uno ad uno, come per non dare nell’occhio, per scomparire.
In questo raggelarsi e intristirsi della città, i più squallidi e tetri sono i fascisti: ostentano sempre una falsa sicurezza, una falsa allegria. Fingono di non accorgersi che l’odio sale, come il freddo della morte, intorno a loro. Urlano, sbracati, nelle grandi piazze, entrano nei bar e nelle osterie in gruppi compatti, squadrano le donne con occhi avidi, gli uomini con disprezzo e ironia. Ma non è difficile scorgere che la loro è un’allegria di servi, o di lacchè (2), sotto il duro sguardo tedesco. E preferiscono, i tedeschi, non incontrarli: richiudono la porta di un caffè se ne vedono qualcuno, cambiano strada allo spuntare di una pattuglia di Feldgendarmerie (3), tacciono se si trovano in loro presenza. Mai mi è accaduto di scorgere tra questi uomini in uniforme che pure si battono sotto le stesse insegne, un momento di cordialità e di cameratismo. E se ciò poteva non essere insolito negli anni in cui si era casualmente soldati sullo stesso fronte, se sempre una barriera profonda ci aveva separato in Russia o in Jugoslavia – tra i volontari di Salò (4) e l’esercito occupante questo totale distacco acquistava altri significati. Mi ricordava lo spregio senza limiti con cui un ufficiale tedesco mi aveva parlato un giorno, a Karkov, dei pochi ucraini che si erano posti al loro servizio, e di quanto invece egli ammirasse il valore dei resistenti (5) anche se, come mi aveva detto «ai primi devo dare cibo e denaro, ai secondi la tortura e la morte». E nulla mi appariva più al di fuori della ragione che il continuo parlare di onore dei servi repubblichini di fronte ai quali i tedeschi, bene o male, pur rappresentavano una diversa, per quanto abominevole, realtà.
In questo deserto che era Firenze, come punti di luce reconditi tra le sue mura, si accendevano i fuochi della resistenza. Forse in quella casa davanti a cui ora passa, e si arresta, una pattuglia, c’è una tipografia clandestina, o qualcuno verga un volantino, o un fabbro prepara i chiodi a tre punte (6), un chimico le miscele esplosive. Quell’uomo che zoppica, con l’aria smunta, le scarpe scalcagnate, ha in tasca un foglio ciclostilato, quell’altro una pistola o una bomba. La ragazza ben vestita nasconde nella borsetta un messaggio da recapitare, l’operaio che esce dalla fabbrica si affretta a una riunione (7). Persino questo ragazzo coi pantaloni corti, che fischietta sul Lungarno spingendo un triciclo, entro la cassa di bottiglie vuote può avere un cliché o una colonna di piombo (8) dei nostri giornali, e quell’altro che si trascina a fatica un sacco di stracci, amorosamente avvolta nel mezzo del mucchio forse ha un’arma che deve portare a un amico, che penserà poi, talvolta in una lunga catena, a farla arrivare in montagna (9).
Di questa vita elementare e nuda vive Firenze; e noi in essa, con il nostro assillante pensiero, e talvolta la fierezza, altre la paura, la nostra fame, il nostro dolore; ma più di tutto la speranza, la certezza che stiamo facendo l’unica cosa che è giusto fare.

1) Karkov e Kupjansk = città dell’Ucraina, che Spinella conobbe durante la campagna di Russia del 1942
2) lacchè = persona pronta a manifestazioni di servile ossequio (come i domestici in livrea che precedevano o seguivano per strada i loro padroni)
3) Feldgendarmerie = la polizia militare dell’esercito tedesco, fino alla Seconda guerra mondiale
4) volontari di Salò = i sostenitori e seguaci della Repubblica Sociale Italiana, guidata da Mussolini ma voluta da Hitler, che governò l’Italia occupata dal settembre 1943 all’aprile 1945. Più avanti sono chiamati con il termine repubblichini
5) resistenti = in questo caso sono coloro che si erano opposto all’invasione tedesca dell’Ucraina tra il 1941 e il 1944
6) chiodi a tre punte = vedi la nota nel brano 24
7) ovviamente è una riunione clandestina, dei partigiani, o di un partito antifascista
8) cliché e colonna di piombo = strumenti per stampare un volantino o un giornale
9) cioè ai partigiani che operano in montagna


Soldati tedeschi a Firenze nel 1943




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