domenica 4 dicembre 2016

26 Aleandro Corona (di Mario Spinella)




Nel marzo 1944 Mario Spinella viene arrestato e condotto alle prigioni di Firenze. Qui incontra vari personaggi, tra fascisti e partigiani. In questo brano parla di un pastore sardo, che viene arrestato come disertore, per essere scappato dall’esercito dopo l’8 settembre 1943, come fecero quasi tutti i soldati italiani, stanchi di una guerra che non capivano. Spinella, nel libro “Memoria della Resistenza”,  lo descrive con poche, rapide pennellate, che ne evidenziano la tragica sorte e mettono in risalto la barbarie della mentalità fascista.

Firenze, marzo 1944
Avevamo appena finito di mangiare, ieri, quando la porta della cella si aperse e la guardia fece entrare un giovane basso e tarchiato, dal viso largo, le mani robuste.
Indossava un paio di pantaloni corti, scarpacce militari, una stinta camicia grigia. Era spaurito e il primo sguardo che ci diede fu di diffidenza.
Emilio (1) era il più bravo in queste cose, e gli rivolse subito la parola. Il ragazzo era sardo, si chiamava Aleandro Corona, e, con Emilio, intrecciarono subito un fitto dialogo nel loro dialetto. Poi Corona racconto di sé: l’otto settembre si era trovato a Firenze, aveva gettato i panni militari e si era rifugiato nel Mugello. Un mezzadro gli aveva dato lavoro nella sua terra – una buona terra, facile da lavorare, diceva Corona – e lì aveva vissuto tranquillo fino ad allora. Erano stati mesi buoni, i migliori che avesse mai avuto: il lavoro non era pesante, e c’era da mangiare quanto bastava. Aveva fatto amicizia con i giovani del luogo, e la sera, all’osteria, gli offrivano volentieri del vino perché parlasse della Sardegna. Non che avesse molto da raccontare: ancora bambino lo avevano mandato in montagna con un cane, un sacchetto di pane, una forma di pecorino, a guardare gli animali. Quella del pastore era una vita dura: mangiare poco o niente, dormire per terra, il più delle volte, quando non si trovava una grotta, all’aperto. Non c’era niente di strano se si prendeva l’abitudine di parlare con i cani e le pecore, se la mente vagava in una specie di torpore. E non c’era niente di strano se Corona era restato analfabeta, e, come lui diceva, nei primi tempi che lo avevano chiamato militare non sapeva neanche parlare. Le armi, invece, già le conosceva, e dopo due mesi lo avevano mandato in Albania. In caserma, non si stava male: c’era il rancio, vestire pulito, la paga. Anche in guerra – nei primi tempi – si campava: un colonnello se l’era preso come attendente (2), e tutto andava liscio. Poi un giorno, su una strada di montagna, l’automobile in cui stava con il colonnello era saltata su una mina. Si era trovato sporco di sangue, di terra, di midollo, senza capire più niente. Uno che era con loro urlava, gli altri erano morti: lui, Corona, non si era fatto niente. Ma lo avevano mandato in linea, dove c’erano morti vicino a lui ogni giorno, e spesso non si mangiava e non si dormiva. I greci sembravano pastori come lui; e un giorno, mentre stava per colpirne uno con la baionetta, gli aveva visto gli occhi dolci, come quelli di una pecora, e si era fermato.
Era stato, con gli altri, in Grecia, dove si prendeva una donna con mezza pagnotta, poi lo avevano rispedito in Italia. E ora, mentre lavorava tranquillo nei campi, i fascisti l’avevano trovato. Dicevano che era un disertore, e l’avevano portato in prigione. Dicevano anche che lo avrebbero ammazzato insieme con gli altri di Vicchio (3). Aveva spiegato che non sapeva nulla: l’otto settembre tutti erano scappati, e così aveva fatto anche lui. Se c’era da andare ancora soldato era pronto: che era quella storia di ammazzarlo? Aveva fatto il suo dovere, la guerra, era un uomo onesto: perché dovevano ammazzarlo?
Gli dissi che poteva stare tranquillo: io ero disertore quanto lui, e in più mi accusavano di essere comunista, ma ormai era quasi un mese che ero dentro, e nessuno parlava di ammazzarmi.
«Ma voi, - mi disse Corona – siete un signore, e vi sapete difendere».
Emilio cercò di spiegargli che questo non c’entrava: eravamo tutti nella stessa barca e i fascisti, se era per questo, non guardavano in faccia a nessuno. Ma Corona era ostinato: «Voi siete signori» continuava a ripetere.
La sera non toccò quasi cibo; gli offrimmo per confortarlo il meglio che avevamo: salame, formaggio, un dolce di riso. Non voleva mangiare, se ne stava in un angolo, rannicchiato, con gli occhi sbarrati, e così rimase tutta la notte, sino a quando, nel buio, non sentimmo aprire la cella. Venivano a prendere Corona, oramai rassegnato a morire. Nessuno di noi pensava che fosse vero; forse lo portavano in una caserma.
Ma oggi la voce del carcere (4) non ci lascia più dubbi: hanno davvero ammazzato Aleandro Corona, con altri ragazzi contadini di Vicchio, sorpresi, in un rastrellamento, a coltivare la terra, condannati a morte per diserzione, fucilati.

1) Emilio = un altro partigiano in carcere con Mario Spinella
2) attendente = soldato addetto al personale servizio di un ufficiale in tempo di guerra
3) Vicchio = comune della provincia di Firenze
4) la voce del carcere = le notizie che, in un carcere, girano oralmente da una cella all’altra


Il Lungarno fiorentino nell’agosto 1944


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