Nel marzo 1944 Mario Spinella
viene arrestato e condotto alle prigioni di Firenze. Qui incontra vari
personaggi, tra fascisti e partigiani. In questo brano parla di un pastore
sardo, che viene arrestato come disertore, per essere scappato dall’esercito
dopo l’8 settembre 1943, come fecero quasi tutti i soldati italiani, stanchi di
una guerra che non capivano. Spinella, nel libro “Memoria della Resistenza”, lo descrive con poche, rapide pennellate, che
ne evidenziano la tragica sorte e mettono in risalto la barbarie della
mentalità fascista.
Firenze, marzo 1944
Avevamo appena finito di
mangiare, ieri, quando la porta della cella si aperse e la guardia fece entrare
un giovane basso e tarchiato, dal viso largo, le mani robuste.
Indossava un paio di pantaloni
corti, scarpacce militari, una stinta camicia grigia. Era spaurito e il primo
sguardo che ci diede fu di diffidenza.
Emilio (1) era il più bravo in
queste cose, e gli rivolse subito la parola. Il ragazzo era sardo, si chiamava
Aleandro Corona, e, con Emilio, intrecciarono subito un fitto dialogo nel loro
dialetto. Poi Corona racconto di sé: l’otto settembre si era trovato a Firenze,
aveva gettato i panni militari e si era rifugiato nel Mugello. Un mezzadro gli
aveva dato lavoro nella sua terra – una buona terra, facile da lavorare, diceva
Corona – e lì aveva vissuto tranquillo fino ad allora. Erano stati mesi buoni,
i migliori che avesse mai avuto: il lavoro non era pesante, e c’era da mangiare
quanto bastava. Aveva fatto amicizia con i giovani del luogo, e la sera,
all’osteria, gli offrivano volentieri del vino perché parlasse della Sardegna.
Non che avesse molto da raccontare: ancora bambino lo avevano mandato in
montagna con un cane, un sacchetto di pane, una forma di pecorino, a guardare
gli animali. Quella del pastore era una vita dura: mangiare poco o niente,
dormire per terra, il più delle volte, quando non si trovava una grotta,
all’aperto. Non c’era niente di strano se si prendeva l’abitudine di parlare
con i cani e le pecore, se la mente vagava in una specie di torpore. E non
c’era niente di strano se Corona era restato analfabeta, e, come lui diceva,
nei primi tempi che lo avevano chiamato militare non sapeva neanche parlare. Le
armi, invece, già le conosceva, e dopo due mesi lo avevano mandato in Albania.
In caserma, non si stava male: c’era il rancio, vestire pulito, la paga. Anche
in guerra – nei primi tempi – si campava: un colonnello se l’era preso come
attendente (2), e tutto andava liscio. Poi un giorno, su una strada di
montagna, l’automobile in cui stava con il colonnello era saltata su una mina.
Si era trovato sporco di sangue, di terra, di midollo, senza capire più niente.
Uno che era con loro urlava, gli altri erano morti: lui, Corona, non si era
fatto niente. Ma lo avevano mandato in linea, dove c’erano morti vicino a lui
ogni giorno, e spesso non si mangiava e non si dormiva. I greci sembravano pastori
come lui; e un giorno, mentre stava per colpirne uno con la baionetta, gli
aveva visto gli occhi dolci, come quelli di una pecora, e si era fermato.
Era stato, con gli altri, in
Grecia, dove si prendeva una donna con mezza pagnotta, poi lo avevano rispedito
in Italia. E ora, mentre lavorava tranquillo nei campi, i fascisti l’avevano
trovato. Dicevano che era un disertore, e l’avevano portato in prigione.
Dicevano anche che lo avrebbero ammazzato insieme con gli altri di Vicchio (3).
Aveva spiegato che non sapeva nulla: l’otto settembre tutti erano scappati, e
così aveva fatto anche lui. Se c’era da andare ancora soldato era pronto: che
era quella storia di ammazzarlo? Aveva fatto il suo dovere, la guerra, era un
uomo onesto: perché dovevano ammazzarlo?
Gli dissi che poteva stare
tranquillo: io ero disertore quanto lui, e in più mi accusavano di essere
comunista, ma ormai era quasi un mese che ero dentro, e nessuno parlava di
ammazzarmi.
«Ma voi, - mi disse Corona – siete un signore, e vi sapete
difendere».
Emilio cercò di spiegargli che questo non c’entrava: eravamo
tutti nella stessa barca e i fascisti, se era per questo, non guardavano in
faccia a nessuno. Ma Corona era ostinato: «Voi siete signori» continuava a
ripetere.
La sera non toccò quasi cibo; gli offrimmo per confortarlo
il meglio che avevamo: salame, formaggio, un dolce di riso. Non voleva
mangiare, se ne stava in un angolo, rannicchiato, con gli occhi sbarrati, e
così rimase tutta la notte, sino a quando, nel buio, non sentimmo aprire la cella.
Venivano a prendere Corona, oramai rassegnato a morire. Nessuno di noi pensava
che fosse vero; forse lo portavano in una caserma.
Ma oggi la voce del carcere (4) non ci lascia più dubbi:
hanno davvero ammazzato Aleandro Corona, con altri ragazzi contadini di
Vicchio, sorpresi, in un rastrellamento, a coltivare la terra, condannati a
morte per diserzione, fucilati.
1) Emilio = un altro partigiano in carcere con Mario
Spinella
2) attendente = soldato addetto al personale servizio di un
ufficiale in tempo di guerra
3) Vicchio = comune della provincia di Firenze
4) la voce del carcere = le notizie che, in un carcere,
girano oralmente da una cella all’altra
Il Lungarno fiorentino nell’agosto 1944
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.