LA SELVA OSCURA E L’INCONTRO CON VIRGILIO
Scritta in un lungo arco di
tempo, che va probabilmente dal 1305 al 1321, la Comedia dantesca (ora conosciuta universalmente come Divina commedia) è divisa in 3 parti,
dette cantiche: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Ogni cantica è composta da 33
canti, tranne la prima che ne ha 34, considerando il primo come introduttivo
all’intero poema: in totale, dunque, 100 canti, per un totale di 14.233 versi tutti
endecasillabi, riuniti in terzine. Il famoso inizio del poema descrive Dante
smarrito in un bosco: è uno smarrimento simbolico, che allude a una condizione
di crisi interiore, sia spirituale, sia morale.
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ah quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’io vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
Io non so ben ridir com’io v’entrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,
guardai in alto, e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogni calle.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pièta.
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago alla riva
si volge all’acqua perigliosa e guata,
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.
Ed ecco, quasi al cominciar dell’erta,
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partía
dinanzi al volto,
anzi impediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.
Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n su con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera alla gaetta pelle
l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne temesse.
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca nella sua magrezza,
e molte genti fe’ già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza dell’altezza.
E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutt’i suoi pensier piange e s’attrista;
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi incontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace.
Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi alli occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».
Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantovani per patria ambedui.
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
nel tempo delli dei falsi e bugiardi.
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
poi che ’l superbo Iliòn fu combusto.
Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?».
«Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»
rispuos’io lui con vergognosa fronte.
«O delli altri poeti onore e lume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore;
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ha fatto onore.
Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi».
«A te convien tenere altro viaggio»,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
«se vuo’ campar d’esto loco selvaggio:
ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ’l pasto ha più fame che pria.
Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ’l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.
Questi la caccerà per ogni villa,
fin che l’avrà rimessa nello ’nferno,
là onde invidia prima dipartilla.
Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per luogo etterno,
ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
che la seconda morte ciascun grida;
e vederai color che son contenti
nel fuoco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.
A le qua’ poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;
ché quello imperador che là su regna,
perch’io fu’ ribellante a la sua legge,
non vuol che ’n sua città per me si vegna.
In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l’alto seggio:
oh felice colui cu’ ivi elegge!».
E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
acciò ch’io fugga questo male e peggio,
che tu mi meni là dove or dicesti,
sì ch’io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti».
Allor si mosse, e io li tenni dietro.
(testo secondo l'edizione di Natalino Sapegno, 1968)
(testo secondo l'edizione di Natalino Sapegno, 1968)
Dante nella selva
oscura, illustrazione di Gustave Doré
PARAFRASI:
A metà del cammino della nostra
vita [cioè a 35 anni] mi ritrovai dentro una foresta buia perché avevo smarrito
la via diritta.
Ah com’è difficile dire che
cos’era questa selva selvaggia, malagevole e difficile, che solo a pensarci
rinnova la mia paura!
È tanto amara che la morte è poco di più; ma per
parlare di ciò che di bene vi ho trovato, parlerò delle altre cose che vi ho
veduto.
Io non so dire bene come vi ero
entrato, tanto ero pieno di sonno [dell’anima] in quel punto in cui avevo
abbandonato la via della verità.
Ma quando fui giunto ai piedi
d’un colle, là dove finiva quella valle che mi aveva trafitto il cuore di
paura,
guardai in alto e vidi i pendii
[del colle] illuminati dai raggi di quel pianeta [il Sole] che conduce chiunque
a camminare drittamente per ogni calle.
Allora si quietò un poco la paura
che mi aveva riempito a lungo il lago del cuore quella notte che io passai con
tanto affanno.
E come colui che con respiro
affannato uscito fuori dal mare sulla riva si volta a guardare l’acqua
pericolosa e la fissa intensamente
così l’animo mio, che ancora
fuggiva [dalla selva, come se ci fosse ancora dentro], si voltò indietro a
contemplare quel passaggio che giammai ha lasciato una persona viva.
Dopo che ebbi riposato un poco il
corpo stanco, ripresi il cammino su per il pendio deserto, cosicché il piede
fermo era sempre quello più in basso.
Ed ecco, quasi all’inizio della
salita, una lonza [un felino simile al leopardo] agile e molto veloce, coperta
di una pelliccia a macchie;
e non se ne andava davanti a me,
anzi, ostacolava tanto il mio cammino, che più volte io mi voltai per tornare
indietro.
Il tempo era quello dell’inizio
del mattino, e il sole sorgeva assieme a quelle stelle che c’erano con lui
quando l’amore divino
creò dapprima quelle belle cose
[gli astri. Era opinione che Dio avesse creato il mondo all’inizio della
primavera]; cosicché motivo a ben sperare riguardo a quella fiera dalla
pelliccia così gradevole erano
l’ora mattutina e la bella
stagione; ma non così tanto che non mi procurasse paura la vista di un leone
che apparve.
Questo sembrava che venisse
contro me con la testa alta e con fame rabbiosa, tanto che pareva che persino
l’aria ne avesse paura.
E una lupa, che nella sua
magrezza sembrava carica di tutte le brame, e aveva fatto vivere miseramente
molta gente,
questa mi diede tanta di
quell’ambascia con la paura che sprigionava dal suo aspetto, che io persi la
speranza di raggiungere l’altezza [la sommità del colle].
E come colui che ha volontà solo
per il guadagno [l’avaro], quando giunge il tempo in cui perde ogni sua cosa,
piange in tutti i suoi pensieri e si rattrista;
tale mi rese la bestia senza
pace, che, venendomi incontro, a poco a poco mi respingeva là dove il sole non
batteva [cioè nella selva da cui ero appena uscito].
Mentre precipitavo in basso, mi
apparve davanti agli occhi uno che, per essere rimasto a lungo in silenzio,
pareva incapace di parlare.
Quando lo vidi in quel gran luogo
solitario, «Pietà di me!» gridai
a lui, «chiunque tu sia, od ombra o uomo vero!»
Mi rispose: «Non sono uomo, uomo lo sono stato, e i miei
genitori furono lombardi, entrambi mantovani di patria.
Nacqui ai tempi di Giulio Cesare, anche se tardi [perché lui
potesse conoscermi], e vissi a Roma sotto il buon Augusto al tempo degli dei
falsi e bugiardi.
Fui poeta e cantai di quel giusto figlio d’Anchise [Enea]
che giunse da Troia, dopo che la superba Ilio venne bruciata.
Ma perché ritorni indietro in tanta angoscia? Perché non
sali il piacevole monte, che è l’inizio e la ragione di ogni gioia?»
«Ma sei tu quel Virgilio e quella fontana che dà origine a
un fiume così largo di parole?», risposi a lui con fronte vergognosa [in segno
di rispetto].
«Oh onore e luce di tutti i poeti! Mi giovi presso di te il
lungo studio e il grande amore che mi ha spinto a studiare il tuo libro
[l’Eneide].
Tu sei il mio maestro e l’autore che prediligo; tu sei il
solo da cui io ho ricavato il bel stile che mi ha fatto onore.
Guarda la bestia per paura della quale sono tornato
indietro: aiutami contro di lei, famoso saggio, che essa mi fa tremare le vene
e i polsi».
«Ti conviene percorrere un’altra via» mi rispose vedendomi
piangere, «se vuoi sopravvivere a questo luogo selvaggio:
perché questa bestia, a causa della quale gridi soccorso,
non lascia che nessuno passi sulla sua strada, anzi, glielo impedisce fino a
farlo morire;
essa ha una natura così malvagia e crudele, che non sazia
mai la sua voglia bramosa, e dopo aver mangiato ha più fame di prima.
Molti sono gli uomini a cui si accoppia e saranno ancora di
più, fino a quando verrà un veltro [cane da caccia], che la farà morire
dolorosamente.
Questo non si nutrirà né di terre né di monete, bensì di
sapienza, amore e virtù [cioè di Dio, nella sua Trinità] e la sua origine
avverrà nel feltro [un panno semplice e povero].
Sarà salutare per quell’umile Italia, per la quale morì per
le ferite la vergine Camilla, ed Eurialo e Turno e Niso [tutti personaggi di
eroi morti nella guerra che Enea combatté per conquistare il Lazio].
Questo la caccerà da ogni città, finché l’avrà rimessa in
quell’inferno, da cui l’ha fatta uscire l’invidia [di Lucifero contro Dio]
Perciò io per il tuo meglio penso e giudico che tu mi segua,
e io sarò tua guida, e ti porterò da qui in luogo eterno [l’Inferno],
dove udrai le strida disperate, vedrai gli antichi spiriti
addolorati, che tutti implorano la seconda morte [non è chiaro ciò che Dante
intenda: la morte definitiva dopo il giudizio universale?];
e vedrai coloro che sono contenti di stare nel fuoco [del
Purgatorio], perché sperano di giungere, quando sarà il momento, tra i beati
[in Paradiso].
Se vorrai arrivare ad essi, un’altra anima sarà più degna di
me a condurti da loro: con lei ti lascerò quando me ne andrò;
perché l’imperatore che regna lassù [Dio], dato che io fui
ribelle alla sua legge [essendo Virgilio pagano e non cristiano], non vuole che
io venga nella sua città,
egli impera ovunque e in questa città è re; qui [in
Paradiso] c’è la sua città e il suo alto trono: oh felice colui che è ammesso a
entrarvi!»
E io a lui: «Poeta, io ti prego per quel Dio che non hai
conosciuto, affinché io sfugga al mio male e peggio [alla dannazione],
che tu mi conduca dove ora mi hai detto, cosicché io veda la
porta di san Pietro e coloro che tu descrivi così tanto mesti».
Allora egli si mosse e io gli andai dietro.
TRAMA IN SINTESI:
Quando avevo 35 anni, cioè nell’anno 1300, esattamente
all’inizio della primavera, mi capitò di trovarmi sperduto in mezzo a una
foresta, poiché avevo smarrito la giusta via. Fu terribile e se ci ripenso, ne
provo ancora una grande paura. Ma non vi ho trovato solo brutte cose. So che a
un certo punto mi trovai ai piedi di un colle e, guardando in alto, vidi che il
sole ne illuminava la cima; ciò mi diede conforto, come uno che sta per
naufragare e finalmente arriva sulla riva del mare. Ma ecco che, appena iniziai
la scalata di quel colle, mi si parò davanti una lonza, che mi impediva di
passare; data la bella stagione, io pensai che avrei potuto superarla, ma
subito mi accorsi che c’era anche un leone, che sembrava volesse mangiarmi. E
subito dopo vidi una lupa, così avida nella sua magrezza, che io mi disperai,
come succede a chi, avido di ogni cosa, si trova a perdere tutto. Cominciai a
retrocedere, ma all’improvviso comparve qualcuno che pareva quasi un fantasma.
«Aiutami», gridai, «chiunque tu sia, uomo od ombra!». Egli mi rispose che non
era più un uomo, ma lo era stato: era figlio di mantovani, era vissuto ai tempi
di Giulio Cesare e di Augusto, era stato poeta e aveva raccontato le gesta di
Enea, dopo la distruzione di Troia. Allora capii che avevo davanti a me
Virgilio, il poeta che più amavo, colui da cui avevo imparato a scrivere versi.
Gli dissi, pieno di rispetto, che mi aiutasse contro quella bestia che tanto mi
impauriva ed egli mi rispose: «Ti conviene prendere un’altra strada, perché
questa bestia non lascia passare nessuno. Essa morirà solo il giorno in cui
comparirà sulla terra qualcuno che non sia avido né di potere né di ricchezze,
bensì di Dio, che è sapienza, amore e virtù; qualcuno di umili origini, che
caccerà quella bestia nell’inferno da cui è uscita. Perciò io sono qui: ti farò
da guida nel regno eterno della disperazione, l’Inferno, e nel regno del
Purgatorio, dove stanno le anime di coloro che un giorno saliranno tra i beati.
E se tu, poi, vorrai vedere anche quelli, ci vorrà un’altra anima che ti
accompagni, dato che io non ci posso venire, poiché in vita non fui cristiano».
Io allora gli chiesi di condurmi fino alle porte del Paradiso e, siccome egli
si mosse, io lo seguii.
ALLEGORIE:
LA SELVA OSCURA = lo stato di
ignoranza e di corruzione dell’umanità, la vita peccaminosa di Dante ma anche
di tutti noi, che abbiamo dimenticato il fine ultimo per cui siamo stati
creati, cioè la felicità di tendere a Dio, anche per colpa del potere religioso
e di quello politico, che da quel fine ci hanno allontanato.
IL COLLE ILLUMINATO DAL SOLE = il
contrario della selva, cioè la vita virtuosa e ordinata, illuminata dalla
Grazia divina
LE TRE FIERE = sono altrettanti
peccati che ostacolano sia Dante nel pentimento per i suoi peccati, sia
l’umanità nel raggiungimento di un ordine politico e morale veramente
cristiano. I commentatori antichi vedono nella lonza la lussuria, nel leone la
superbia, nella lupa l’avarizia: i primi due vizi particolarmente sentiti da
Dante come suoi propri, mentre il terzo visto come la causa più profonda della
corruzione sociale
IL VELTRO = l’antidoto
all’avarizia e alla cupidigia, capace di riportare ordine e giustizia nel
mondo, in particolare in Italia, dove la Chiesa ha perduto la sua pura missione
spirituale e la sua povertà evangelica, per seguire l’avidità e la ricchezza.
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