Ira Ringold è un
simpatizzante comunista nell’America degli anni Quaranta-Cinquanta; dopo aver
fatto diversi umili lavori, diventa la star di un programma radiofonico, col
nome di Iron Rinn e il soprannome di “Uomo di Ferro”. Divenuto amico di Nathan
Zuckermann, più giovane di lui di vent’anni, un giorno lo porta con sé, quand’è
ancora adolescente, a casa di un suo ex commilitone che, durante la guerra,
aveva come lui idee di sinistra. Troverà però un uomo profondamente cambiato e
la visita si risolverà in un drammatico litigio.
Il brano (tratto da “Ho
sposato un comunista”, pubblicato da Einaudi con la traduzione di Vincenzo
Mantovani) descrive molto bene, secondo me, non solo le differenze tra
comunisti e capitalisti negli anni in cui è ambientato il romanzo, ma anche
quelle attuali, tra chi negli Usa vota Trump e in Europa la destra più conservatrice,
e coloro che credono ancora nella favola della fratellanza umana (con l’unica
differenza che oggi quasi nessuno si definisce ancora comunista).
Sulle pagine dei notes marrone che Ira aveva portato
dalla guerra, sparsi tra le sue osservazioni e le professioni di fede, c’erano
i nomi e gli indirizzi di quasi tutti i militari che la pensavano come lui
incontrati sotto le armi. Aveva cominciato a cercare questi uomini, spedendo
lettere in tutto il paese e visitando quelli che abitavano a New York e nel New
Jersey. Un giorno facemmo una puntata nei sobborghi di Maplewood, a ovest di
Newark, per andare a trovare l’ex sergente Erwin Goldstine, che in Iran era
stato di sinistra come Johnny O’Day, - «un marxista ottimamente sviluppato», lo
definiva Ira - ma che, tornato a casa, scoprimmo, aveva sposato la figlia del
proprietario di una fabbrica di materassi di Newark e ora, padre di tre
bambini, era diventato un aderente a tutto ciò che un tempo aveva contrastato. Della
Taft-Hartley, delle relazioni razziali, dei controlli dei prezzi, Goldstine non
volle neanche discutere con Ira. Rideva e basta.
Moglie e figli erano via per il pomeriggio, dai
parenti della donna, e noi ci sedemmo in cucina a bere acqua di selz mentre
Goldstine, un ometto ben piantato con l’aria altezzosa e saccente di un
imbroglione da marciapiede, rideva e si burlava di tutto ciò che Ira diceva. La
sua spiegazione per il voltafaccia? - Ero un povero ignorante. Non sapevo
quello che dicevo -. A me Goldstine raccomandò: - Ragazzo, non ascoltarlo. Tu vivi
in America. È il più grande paese del mondo ed è il più grande sistema del
mondo. Certo, c’è chi fa una vita di merda. Perché, credi che nell’Unione
Sovietica non facciano una vita di merda? Lui ti dice che il capitalismo è un
sistema dove cane mangia cane. Cos’è la vita se non un sistema dove cane mangia
cane? È un sistema in sintonia con la vita. Ed è proprio per questo che
funziona. Guarda, tutto quello che i comunisti dicono del capitalismo è vero, e
tutto quello che i capitalisti dicono del comunismo è vero. La differenza è che
il nostro sistema funziona perché si basa su quella verità che è l’egoismo
della gente, e il loro non funziona perché si basa su quella favola che è la fratellanza. È una favola così
fantastica che, per costringere la gente a crederci, hanno dovuto prenderla e
spedirla in Siberia. Per costringere la gente a credere alla loro fratellanza,
hanno dovuto controllarne ogni pensiero o fucilarli. E intanto in America, in
Europa, i comunisti continuano a raccontare questa favola anche quando sanno
qual è la verità. Certo, per qualche tempo tu non la conosci. Ma cos’è che non
conosci? Conosci gli esseri umani. E allora sai tutto. Sai che questa favola è
impossibile. Se sei molto giovane, immagino sia okay. Venti, ventuno, ventidue
anni, okay. Ma dopo? Non c’è ragione per cui una persona d’intelligenza media
possa ascoltare questa storia, questa favola del comunismo, e crederci. «Faremo
cose meravigliose…» Ma noi sappiamo cos’è nostro fratello, no? È una merda. E sappiamo
cos’è il nostro amico, no? È una mezza merda. E anche noi siamo mezze merde. Dunque,
come possiamo fare cose meravigliose? Non si tratta nemmeno di cinismo, né di
scettiscismo, sono i semplici poteri di osservazione che ha l’uomo a dirci che non è possibile.
- Vuoi venire nella mia fabbrica capitalista a veder
produrre un materasso nel modo in cui un capitalista produce un materasso? Vieni,
e ti faccio parlare con dei veri lavoratori, il tuo amico, qui, è un divo della
radio. Tu non stai parlando con un lavoratore, stai parlando con un divo della
radio. Su, Ira, tu sei una star come Jack Benny: cosa diavolo sai, tu, del
lavoro? Questo ragazzo venga nella mia fabbrica e vedrà come produciamo un
materasso, vedrà la cura che ci mettiamo, vedrà come mi tocca di sorvegliare
passo passo l’intera operazione se voglio che non me lo mandino in malora, il
mio materasso. Vedrà cosa significa essere il malvagio proprietario dei mezzi
di produzione. Significa farsi un culo così ventiquattr’ore al giorno. Gli operai
vanno a casa alle cinque, io no. Io sono lì ogni sera fino a mezzanotte. Torno a
casa e non dormo perché mentalmente faccio i conti e poi sono ancora lì alle
sei del mattino per aprire lo stabilimento. Non farti riempire di idee
comuniste da lui, ragazzo. Sono tutte balle. Fa’ soldi. I soldi non sono una
balla. I soldi sono il modo democratico di segnare punti. Fa’ soldi; poi, se
proprio non puoi farne a meno, predica pure la fratellanza umana.
Ira si adagiò contro la spalliera, alzò le braccia
in modo da intrecciare le dita delle mani sulla nuca e, senza nascondere il suo
disprezzo, disse (non al nostro ospite ma, per provocarlo al massimo, a me): -
Sai qual è una delle sensazioni più belle della vita? Forse la migliore? Non avere paura. L’idiota
mercenario nella casa del quale ci troviamo… Sai qual è la sua storia? Ha
paura. Ecco la semplice realtà. Durante la seconda guerra mondiale Erwin
Goldstine non aveva paura. Ma ora la guerra è finita, e Erwin Goldstine ha
paura di sua moglie, paura di suo suocero, paura che gli scadano le cambiali…
Ha paura di tutto. Tu guardi con i tuoi occhioni spalancati nella vetrina del
capitalismo, e vuoi sempre più cose, arraffi sempre più cose, prendi sempre più
cose, raccogli e possiedi e accumuli, ed ecco la fine delle tue convinzioni e l’inizio
delle tue paure. Non c’è nulla di ciò che possiedo alla quale io non possa
rinunciare. Capisci? Non c’è nulla sulla mia strada alla quale io sia legato
mani e piedi come un mercenario. Come abbia mai fatto, dalla casa miserabile di
mio padre in Factory Street, a diventare questo personaggio di Iron Rinn, come
Ira Ringold, con un anno e mezzo di ginnasio alle spalle, abbia potuto
incontrare le persone che incontro e conoscere la gente che conosco e avere le
comodità che ho adesso come iscritto tesserato alla classe privilegiata, è
tutto talmente incredibile che perdere ogni cosa da un giorno all’altro non mi
sembrerebbe strano. Capisci? Mi capisci? Posso sempre tornare nel Midwest. Posso
lavorare in fabbrica. E, se devo farlo, lo farò. Tutto tranne diventare un
coniglio come questo signore. Ecco cosa sei, adesso, politicamente, - disse,
guardando finalmente Goldstine, - non un uomo ma un coniglio, un coniglio che
non conta nulla.
- Stronzo in Iran e stronzo ancor oggi, Uomo di
ferro -. Poi, tornando a rivolgersi a me (io ero la cassa armonica, la spalla,
la miccia della bomba), Goldstine disse: - Nessuno ha mai potuto ascoltare
quello che dice. Nessuno ha mai potuto prenderlo sul serio. Quest’uomo è una
barzelletta. Non è capace di usare la testa. Non è mai stato capace. Non sa
niente, non vede niente, non impara niente. I comunisti si procurano un pupazzo
come Ira e lo usano. Il genere umano al colmo della stupidità non può diventare
più stupido di così -. Poi, rivolto a Ira, disse: - Esci dalla mia casa,
deficiente d’un rompicoglioni comunista.
Il cuore mi batteva già furiosamente prima ancora
che io vedessi la pistola che Goldstine aveva preso dal cassetto di un
credenzino della cucina, dal cassetto alle sue spalle dov’era riposta l’argenteria.
Non avevo mai visto una pistola da vicino, tranne che, ben chiusa nella
fondina, sull’anca di un poliziotto di Newark. Non era perché Goldstine era
piccolo che la pistola sembrava grande. Era veramente
grande, inverosimilmente grande, nera e ben fatta, ben modellata, ben lavorata:
gravida di possibilità.
Sebbene fosse in piedi e puntasse la pistola alla
fronte di Ira, anche in piedi Goldstine non era molto più alto di Ira seduto.
- Ho paura di te, Ira, - gli disse Goldstine. - Ho sempre
avuto paura di te. Tu sei un selvaggio, Ira. Non aspetterò che tu mi faccia
quello che hai fatto a Butts. Ti ricordi di Butts? Ti ricordi del piccolo
Butts? Alzati e vattene, Uomo di Ferro. E portati via il Piccolo Leccaculo. Leccaculo,
l’Uomo di Ferro non ti ha mai parlato di Butts? - mi disse Goldstine. - Ha cercato
di ucciderlo, Butts. Ha cercato di farlo affogare. L’ha trascinato fuori dalla
mensa… Non hai parlato al ragazzo, Ira, di te in Iran, delle tue sfuriate e
delle tue arrabbiature? Un ragazzo di cinquanta chili attacca l’Uomo di Ferro
col coltello del vassoio della mensa, un’arma molto pericolosa, capisci, e l’Uomo
di Ferro lo solleva, lo porta fuori della mensa e lo trascina fino al porto, e
lo tiene sopra l’acqua a testa in giù, e dice: «Nuota, grullo». Butts piange: «No,
no. Non so nuotare», e l’Uomo di Ferro dice: «Non sai nuotare?» e lo molla
dentro. A capofitto nello Shaṭṭ-al-‘Arab da una banchina del porto. Un fiume
profondo almeno dieci metri. Butts affonda. Allora Ira si volta e ci grida: «Lasciate
stare quel bastardo d’un bifolco! Via di qui! Nessuno si avvicini all’acqua!» «Sta
affogando, Uomo di Ferro». «Che affoghi, - dice Ira, - state indietro! So
quello che faccio! Vada pure a fondo!» Qualcuno si getta in acqua per cercar di
raggiungere Butts, e allora Ira si tuffa dopo di lui, gli piomba dritto
addosso, e comincia a pestare con i pugni sulla testa di questo tizio e a
cercare di cavargli gli occhi e di tenere sotto lui. Non avevi parlato al ragazzo di Butts? Come mai? Non gli hai
detto neanche di Garwych? Di Solak? Di Becker? (1) Alzati. Alzati e vattene,
pazzo assassino squilibrato del cazzo.
Ma Ira non si mosse. A parte gli occhi. I suoi occhi
parevano uccelli che volessero volargli via dalla faccia. Ammiccavano e si
contraevano come non avevo mai visto prima, mentre il corpo di Ira, da capo a
piedi, pareva ossificato, e mostrava una tensione terrificante come il palpito
dei suoi occhi.
- No, Erwin, - disse, - non con una pistola puntata
sul viso. Hai solo due modi per farmi uscire: tirare il grilletto o chiamare la
polizia.
Non avrei saputo dire quale dei due era più
spaventoso. Perché Ira non faceva quello che voleva Goldstine? Perché non ci
alzavamo per andarcene, noi due? Chi era
più insensato, il fabbricante di materassi con la pistola carica o il gigante
che lo sfidava a sparare? Che stava succedendo in quella casa? Eravamo in una
cucina soleggiata di Maplewood, New Jersey, a bere Royal Crown dalla bottiglia.
Eravamo tutti ebrei. Ira era venuto a salutare un ex commilitone. Cos’aveva
questa gente che non andava?
Fu quando io cominciai a tremare che Ira smise di
sembrare deformato dai pensieri irrazionali che dovevano passargli per la
testa. Seduto davanti a me, notò che i miei denti battevano per conto loro, che
le mie mani tremavano incontrollabilmente da sole, e tornò in sé e si alzò
lentamente dalla sedia. Mise le mani sopra la testa come fanno i clienti nelle
banche quando i rapinatori gridano «Questa è una rapina!»
- Finito tutto, Nathan. Incontro sospeso per
sopravvenuta oscurità -. Ma malgrado il tono bonaccione in cui era riuscito a
dirlo, malgrado la capitolazione che era implicita nelle braccia beffardamente
alzate, mentre uscivamo dalla casa attraverso la porta della cucina e lungo il
vialetto ci avviavamo alla macchina di Murray, Goldstine continuò a seguirci,
con la pistola ad appena qualche centimetro dal cranio di Ira.
In una specie di trance, Ira guidò la macchina
attraverso le strade tranquille di Maplewood, passando davanti a tutte le belle
case unifamiliari dove abitavano gli ebrei di Newark che negli ultimi tempi
avevano comprato la loro prima casa, il loro primo prato e la loro prima
iscrizione a un country club. Non il tipo di persone o il tipo di quartiere
dove ti aspetteresti di trovare una pistola nel cassetto delle posate.
Solo quando attraversammo la linea ferroviaria di
Irvington, e stavamo per entrare a Newark, Ira si voltò e chiese: - Stai bene?
Ero al colmo dell’infelicità, anche se meno
atterrito, adesso, che umiliato e pieno di vergogna. Schiarendomi la gola per
avere la certezza di parlare con voce ferma, dissi: - Mi sono pisciato nei
calzoni.
- Davvero?
- Credevo che volesse ammazzarti.
- Sei stato coraggioso. Sei stato molto coraggioso. Sei
stato in gamba.
- Mentre camminavo lungo il vialetto, mi sono
pisciato nei calzoni! – dissi rabbiosamente. – Maledizione! Merda!
- È colpa mia.
Tutta questa storia. Non dovevo portarti da quell’idiota. Puntare una pistola! Una
pistola!
-Perché l’ha fatto?
- Butts non è affogato, - disse Ira all’improvviso. –
Non è affogato nessuno. Non sarebbe affogato nessuno.
- L’avevi buttato dentro tu?
- Certo. Certo che l’avevo buttato dentro io. Era il
bifolco che mi aveva dato del giudeo. Te l’ho già raccontata, quella storia.
- Ricordo -. Ma quella che mi aveva raccontata era
solo una parte della storia. – Fu la sera in cui ti tesero l’agguato. Quando ti
picchiarono.
- Già. Mi picchiarono sì. Dopo aver ripescato quel
figlio di puttana.
Mi lasciò davanti a casa mia, dove non c’era nessuno
e io potei buttare la roba bagnata nel cesto e fare una doccia e calmarmi. Sotto
la doccia mi tornò la tremarella, non tanto perché ricordavo di essere stato là
seduto a quel tavolo di cucina con Goldstine che puntava la pistola alla fronte
di Ira o perché ricordavo che gli occhi di Ira sembravano volergli volar via
dalla testa, ma perché pensavo: una pistola carica con i coltelli e le
forchette? A Maplewood, New Jersey? Perché? A causa di Garwych, ecco perché! A causa
di Solak! A causa di Becker! (2)
Tutte le domande che non avevo osato porgli in
macchina, cominciai a pormele da solo ad alta voce sotto la doccia: - Cosa gli
avevi fatto, a quella gente, Ira?
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(1) In realtà Ira ha parlato a Nathan di un’aggressione subita
da un commilitone, a cui aveva reagito in maniera violenta, ma senza scendere
nei particolari. Non ha detto niente, invece, degli altri tre uomini che vengono
nominati e di cui neanche il lettore sa qualcosa.
(2) Nathan si sente nuovamente tremare, perché si
chiede cosa Ira può aver mai fatto con questi tre uomini.