Il vecchio professor Murray
Ringold sta raccontando al suo ex allievo Nathan la vita di suo fratello Ira;
in questo brano si concentra sui rapporti tra Ira e sua figlia Lorraine, quand’ella
era una bambina con la frangetta nera.
Il brano (tratto da “Ho
sposato un comunista” – traduzione di Vincenzo Mantovani, pubblicato da
Einaudi) è interessante – oltre che per alcune considerazioni sul comunismo,
che voleva cambiare il mondo – per la descrizione dei rumori che si odono
attorno ai due personaggi. Scolasticamente è un ottimo passo per parlare
appunto di descrizione dal punto di vista uditivo.
- Ira si affezionò a quella bambina con la frangetta
nera. E lei si affezionò a lui. Quando Ira veniva a casa nostra, lo costringeva
a giocare con le sue matrioske. Gliele aveva regalate lui per un compleanno. Sai,
la tradizionale donna russa con la babuška, tutte uguali, l’una dentro l’altra,
finché arrivi all’ultima che è grande come una noce. Inventavano delle storie
per ognuna delle bambole, e su come piegavano la schiena, queste nanerottole,
in Russia. Poi lui prendeva tutte le bambole in una mano e la chiudeva in modo
tale che non si vedevano più. erano semplicemente sparite tra quelle dita a
spatola: dita lunghe e strane, le stesse che doveva aver avuto Paganini.
Lorraine andava in brodo di giuggiole quando lui faceva così: la matrioska più
grande di tutte era questo enorme zio.
- Per il successivo compleanno di Lorraine le comprò
l’album del Coro e della Banda dell’Armata Rossa che eseguivano canzoni russe. Più
di cento uomini in quel coro, altri cento nella banda. Il prodigioso rimbombo
dei bassi: che suono straordinario! Lei e Ira si divertivano un mondo con quei
dischi. Le canzoni erano in russo, e le ascoltavano insieme, e Ira faceva finta
di essere il basso solista, muovendo le labbra come per pronunciare quelle
parole incomprensibili e facendo drammatici gesti «russi»; e, quando veniva il
ritornello, Lorraine muoveva le labbra alle incomprensibili parole del coro. Mia
figlia sapeva essere divertente.
- C’era una canzone che amava in particolar modo: ed
era bella, un canto popolare funebre e struggente che somigliava un po’ a un
inno e s’intitolava Dubinuška, una
canzone molto semplice cantata con l’accompagnamento di una balalaika. Le parole
di Dubinuška erano stampate in
inglese dentro la copertina dell’album, e lei le imparò a memoria e per mesi
girò cantandole per la casa.
Molti canti ho sentito nella mia terra natía,
Canti di gioia e di dolore.
Ma uno mi s’è inciso a fondo nella memoria
Ed è il canto del comune lavoratore.
Questa era la parte dell’assolo. Ma quello che
cantava più volentieri era il ritornello corale. Perché dentro c’era «Oh, issa!».
Su, alzate quella mazza,
Oh, issa!
Tirate più forte tutti insieme,
Oh, issa!
Quando era sola nella sua stanza, Lorraine allineava
tutte le matrioske, metteva su il disco di Dubinuška
e cantava tragicamente «Issa! Issa!» spingendo le bambole qua e là sul
pavimento.
- Fermati un momento. Murray, aspetta, - dissi, e mi
alzai e dalla veranda entrai in casa e andai in camera da letto, dove tenevo il
lettore di Cd e il mio vecchio fonografo. La maggior parte dei miei dischi
erano in certe scatole chiuse in un armadio, ma sapevo in che scatola trovare
quello che cercavo. Tirai fuori l’album che Ira aveva regalato a me nel 1948 e presi il disco sul quale
era incisa Dubinuška, eseguita dal
Coro e dalla Banda dell’Armata Rossa. Regolai il contagiri a 78, spolverai il
disco e lo misi sul piatto. Abbassai la puntina sul margine prima dell’ultimo
pezzo registrato, alzai il volume di quel tanto che bastava perché Murray
potesse udire la musica attraverso le porte aperte tra la camera da letto e la
veranda, e lo raggiunsi.
Al buio ascoltammo, non più io lui o lui me, ma
insieme Dubinuška. Era proprio come l’aveva
descritta Murray: una bella canzone popolare, funebre e struggente, un po’
simile a un inno. Solo che, per il crepitio che mandava la logora superficie
del vecchio disco (un suono ciclico non diverso da certi familiari, naturali
rumori notturni della campagna estiva), la canzone sembrava arrivare fino a noi
da un passato storico remoto. Non era affatto come starsene distesi sulla mia
veranda ad ascoltare i concerti del sabato sera in diretta da Tanglewood. «Oh,
issa! Oh, issa!» veniva da un luogo e da un tempo distanti, spettrale residuo
di quegli estatici giorni rivoluzionari in cui tutti coloro che volevano
cambiare il mondo programmaticamente, ingenuamente (follemente,
imperdonabilmente), sottovalutavano il modo in cui l’umanità fa scempio delle
sue idee più nobili e le trasforma in una tragica farsa. Oh, issa! Oh, issa!
Come se l’astuzia, la debolezza, la corruzione e la stupidità umana non
avessero la minima probabilità di successo contro la collettività, contro la
forza della gente che tira tutta insieme per rinnovare la propria vita e
abolire l’ingiustizia. Oh, issa!
Quando Dubinuška
terminò, Murray tacque e io ripresi a sentire tutto ciò che il mio orecchio
aveva escluso mentre ascoltavo le parole della canzone: il gracidare nasale e
vibrante delle rane, i porciglioni della Blue Swamp – la palude piena di
canneti a est della mia casa – che intonavano energicamente il loro canto
metallico e gli scriccioli che facevano l’accompagnamento. E le strolaghe, i
pianti e le risate di quei soggetti maniaco-depressivi che sono le strolaghe. Ogni
due o tre minuti c’era il nitrito di un lontano barbagianni, e per tutto il
tempo, senza posa, l’orchestra d’archi dei grilli del New England occidentale
continuò a suonare un suo grillesco Bartók. Un procione pigolava nel bosco
vicino e, man mano che passava il tempo, ebbi addirittura l’impressione di
udire i castori che rodevano un tronco d’albero là dove i tributari di quella
regione silvestre alimentavano il mio stagno. Alcuni cervi, ingannati dal
silenzio, dovevano essersi avvicinati troppa alla casa, perché tutt’a un tratto
– avendo avvertito la nostra presenza – ecco risuonare celermente il codice
Morse della loro fuga: gli sbuffi dalle froge, il rumore sordo dell’arresto, lo
scalpitio, il tonfo degli zoccoli, i balzi di quella corsa pazza. I loro corpi
spariscono flessuosi nel folto dei cespugli e poi, ormai quasi impercettibili
all’orecchio, i cervi cercano scampo nella fuga. Si sente solo il pesante
respiro di Murray, l’eloquenza di un vecchio che emette regolarmente il suo
fiato.
Quasi mezz’ora doveva essere passata prima che
riprendesse a parlare. Il braccio del fonografo non era tornato nella posizione
di partenza, e ora si udiva anche la puntina che ronzava sopra l’etichetta. Non
andai dentro a fermarla per non interrompere ciò che aveva fatto ammutolire il
mio narratore, qualunque cosa fosse, e creato l’intensità del suo silenzio. Mi chiedevo
quanto tempo sarebbe passato prima che Murray dicesse qualcosa, se non sarebbe
rimasto semplicemente in silenzio prima di alzarsi e di chiedermi di essere
riaccompagnato al dormitorio: se i pensieri che si erano liberati dentro di
lui, quali che fossero, avrebbero richiesto una notte di sonno per mitigare il
proprio effetto.
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Puoi ascoltare la canzone Dubinuška cliccando qui sotto:
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