venerdì 23 febbraio 2018

166 Iraniani e negri (di Philip Roth)



Nathan Zuckerman ripensa al suo amico Ira e a ciò che ha significato nella sua vita di ragazzo statunitense negli anni della guerra fredda e del maccartismo; ricorda ciò che Ira gli ha raccontato di quand’era in Iran durante la seconda guerra mondiale e di quando era a Chicago, dopo la guerra, a lavorare in una fabbrica in cui la maggioranza degli operai era gente di colore (nel romanzo chiamati negri, come si usava in quegli anni).
Il brano è tratto da “Ho sposato un comunista”, il romanzo di Roth pubblicato da Einaudi nel 2000 con la traduzione di Vincenzo Mantovani.

Ascoltando Murray, non potevo far a meno di essere assalito dai ricordi della mia amicizia con Ira, ricordi che non sapevo nemmeno di avere ancora, ricordi di come usavo ingozzarmi delle sue parole e delle sue convinzioni di adulto, precisi ricordi di noi due a spasso in Weequahic Park e di lui che mi parlava dei ragazzi poveri che aveva visto in Iran.
- Quando giunsi in Iran, - mi disse Ira, - la gente del posto soffriva di ogni genere possibile e immaginabile di malattie. Essendo musulmani, si lavavano le mani prima e dopo avere defecato: ma lo facevano nel fiume, nel fiume che era davanti a noi, per così dire. Si lavavano le mani nella stessa acqua in cui orinavano. Le loro condizioni di vita erano terribili, Nathan. Il paese era governato dagli sceicchi. E non erano sceicchi da romanzo. Questi tipi erano come il dittatore della tribù. Capisci? L’esercito gli dava dei soldi perché gli indigeni lavorassero per noi, e noi davamo agli indigeni razioni di riso e di tè. Tutto qui. Riso e tè. Quelle condizioni di vita! Non avevo mai visto nulla di simile. Avevo cercato lavoro durante la depressione, non ero cresciuto al Ritz, ma quella era un’altra cosa. Quando noi dovevamo defecare, per esempio, lo facevamo nel bugliolo militare: un secchio di ferro, ecco che cos’era. E qualcuno doveva vuotarli, e allora li vuotavamo sul mucchio dei rifiuti. E chi credi che ci fosse, là?
Improvvisamente Ira non poteva continuare, non poteva più parlare. Non poteva camminare. Entravo sempre in agitazione, quando gli capitava. E, poiché lo sapeva, lui mi faceva dei segni con la mano, invitandomi a stare tranquillo, ad aspettare, ché si sarebbe subito ripreso.
Delle cose che non gli andavano giù non riusciva a discutere in modo equilibrato. Tutto il suo virile portamento poteva essere alterato, fino a diventare irriconoscibile, da qualunque cosa implicasse la degradazione umana; e, forse a causa del suo contrastato sviluppo da ragazzo, da qualunque cosa implicasse, in particolare, la sofferenza e la degradazione dei bambini. Quando mi disse: - E chi credi che ci fosse, là? - io sapevo già chi c’era per come aveva cominciato a respirare: - Ahhh… Ahhh… Ahhh -. Rantolando come uno che stesse per morire. Quando si fu rimesso in sesto emotivamente per riprendere la passeggiata, gli chiesi, come se non lo sapessi: - Chi, Ira? Chi c’era?
- I bambini. Vivevano là. E frugavano nel mucchio dei rifiuti in cerca di cibo…
Questa volta, quando smise di parlare, non riuscii a controllare la mia agitazione; temendo che potesse restare bloccato, che potesse essere così schiacciato - non soltanto dalle sue emozioni, ma da un’immensa solitudine che pareva svuotarlo improvvisamente della sua forza - da non poter ritrovare mai più la strada per ridiventare l’eroe ardito e rabbioso che adoravo, sapevo di dover fare qualcosa, di dover fare tutto quello che potevo, e così cercai almeno di completare, al suo posto, il suo pensiero. Dissi: - Ed era orribile.
Mi diede un buffetto sulle spalle e ci rimettemmo in cammino.
- Per me sì, - rispose alla fine. - Per i miei commilitoni non aveva la minima importanza. Non ho mai sentito nessuno fare commenti. Non ho mai visto nessuno - americano come me - deplorare la situazione. Ero veramente incazzato. Ma non potevo farci niente. Sotto le armi non c’è democrazia. Capisci? Che fai, vai a dirlo ai superiori? E le cose andavano avanti così da Dio sa quanto tempo. Ecco qual è la storia del mondo. Ecco come vive la gente -. Poi sbottò: - Ecco come la fanno vivere!
Insieme facevamo dei giri a Newark perché Ira potesse mostrarmi i quartieri non ebraici che io non conoscevo – il primo distretto, dove lui era cresciuto e dove abitavano gli italiani poveri; Down Neck, dove stavano gli irlandesi e i polacchi poveri – e per tutto il tempo Ira mi spiegava che, contrariamente a ciò che potevo aver udito da ragazzo, questi non erano semplici goím, ma «lavoratori come tutti gli altri lavoratori di questo paese, diligenti, poveri, senza potere, che lottano ogni maledetto giorno per vivere una vita decente e dignitosa».
Andammo nel terzo distretto di Newark, dove i negri erano venuti a occupare le strade e le case dei vecchi immigrati ebrei. Ira rivolgeva la parola a tutte le persone che incontrava, uomini e donne, ragazzi e ragazze, chiedeva cosa facevano e come vivevano e se non pensavano, magari, che fosse ora di cambiare «quel sistema vergognoso e tutto il quadro d’ignorante crudeltà» che li privava dell’uguaglianza. Si sedeva su una panca davanti al salone di un barbiere negro nella squallida Spruce Street, a due passi da dove mio padre era cresciuto in una casa popolare di Belmont Avenue, e diceva agli uomini raccolti sul marciapiede: - Se c’è una cosa che mi piace è ficcare il naso nelle conversazioni degli altri, - e cominciava a parlare di eguaglianza, e mai come in quel momento era più somigliante al lungo Abramo Lincoln di bronzo ai piedi dello scalone che porta al tribunale di contea di Newark, il Lincoln – localmente famoso – di Gutzon Borglum, là seduto ad aspettare su una panchina di marmo davanti al tribunale, nella sua posa affabile e cordiale, mostrando, con la faccia scavata e barbuta, quant’è saggio, grave, paterno, giudizioso e buono. Davanti a quel barbiere di Spruce Street - con Ira che proclamava, quando qualcuno gli chiedeva la sua opinione, che «un negro ha tutto il diritto, perdio, di mangiare ovunque se la senta di pagare il conto» - mi resi conto che prima di allora non avevo mai immaginato che potesse esistere, per non dire visto con i miei occhi, un bianco così pacioccone e a suo agio con i negri.
- Quella che, nei negri, la maggior parte della gente scambia per tetraggine e stupidità… Sai cos’è, Nathan? È uno scudo protettivo. Ma quando incontrano uno che non ha pregiudizi razziali, vedi che cosa succede? Che non hanno più bisogno di quello scudo. Hanno anche loro la loro quota di pazzoidi, certo, ma dimmi tu chi non ne ha.
Quando Ira, un giorno, scoprì davanti al salone un nero molto vecchio e amareggiato la cui passione più grande era sfogare il proprio malumore in veementi discussioni sulla bestialità del genere umano, - «Tutto quello che sappiamo è nato non dalla tirannia dei tiranni ma dalla tirannia dell’ignoranza, della cupidigia, dell’odio e della brutalità del genere umano. Il tiranno del male è l’Uomo della strada!» - ci tornammo molte altre volte, e la gente si raccolse intorno a noi per sentirlo discutere animatamente con questo solenne brontolone che portava sempre un lindo abito nero e una cravatta, e che tutti gli altri uomini chiamavano rispettosamente «Signor Prescott»: Ira che tentava di fare proseliti battendosi, a singolar tenzone, con un negro alla volta; i dibattiti tra Lincoln e Douglas in una nuova strana forma.
- Lei è sempre convinto, - gli chiedeva Ira, amabilmente, - che la classe lavoratrice continuerà ad accontentarsi delle briciole della tavola imperialista? – Certamente, signore! La massa, di qualunque colore siano gli uomini che la compongono, è e sarà sempre torpida, irragionevole, stupida e malvagia. Semmai dovessero diventare meno poveri, saranno ancora più torpidi, irragionevoli, stupidi e malvagi! – Be’, io ci ho pensato, signor Prescott, e sono convinto che lei sia in errore. Il semplice fatto che non ci sono abbastanza briciole per mantenere la classe lavoratrice docile e ben pasciuta confuta quella teoria. Signori, tutti voi qui presenti sottovalutate l’imminenza del crollo industriale. È vero che la maggior parte dei nostri lavoratori appoggerebbero Truman e il Piano Marshall, se così facendo fossero sicuri di non perdere il posto. Ma la contraddizione è questa: l’incanalamento del grosso della produzione verso il settore del materiale bellico, sia per le forze americane che per quelle dei governi fantoccio, sta impoverendo i lavoratori americani.
Anche davanti a quella misantropia, raggiunta dal signor Prescott – apparentemente – dopo una dura lotta, Ira si sforzava di mettere nella discussione un pizzico di ragione e di speranza, di far nascere, se non nel signor Prescott, almeno nel pubblico schierato sul marciapiede, la consapevolezza delle trasformazioni che si potevano operare nella vita degli uomini mediante l’azione politica concertata. Per me era, come Wordsworth (1) descrive i giorni della Rivoluzione Francese, «il Paradiso stesso»: «Esser vivi in quell’alba era la felicità, | Ma essere giovani era il Paradiso stesso!» Noi due, bianchi e attorniati da dieci o dodici neri, e non c’era nulla di cui dovessimo preoccuparci, e nulla che essi dovessero temete: i loro oppressori non eravamo noi, ed essi non erano i nostri nemici: il nemico-oppressore che ci lasciava tutti sgomenti era il modo in cui la società era organizzata e diretta.
Fu dopo la prima puntata in Spruce Street che Ira mi offrì un cheese cake allo Weequahic Diner e, mentre mangiavamo, mi parlò dei negri con i quali aveva lavorato a Chicago.
- Questa fabbrica si trovava nel cuore della «cintura nera» di Chicago, - disse. – Circa il novantacinque per cento dei dipendenti erano di colore, ed è lì che si nota l’esprit di cui parlavo. È l’unico posto che io abbia visitato dove un negro è su un piano di assoluta parità con tutti gli altri. Così i bianchi non si sentono in colpa e i negri non sono sempre incazzati. Capisci? Promozioni basate esclusivamente sull’anzianità: nessun intrallazzo.
- Come sono i negri quando lavori con loro?
- Da quello che vedevo, noi bianchi non destavamo alcun sospetto. In primo luogo, la gente di colore sapeva che tutti i bianchi mandati dall’Ue in quello stabilimento erano o comunisti o leali «compagni di strada». Dunque, non erano inibiti con noi. Sapevano che eravamo liberi da pregiudizi razziali quanto può esserlo un adulto in quest’epoca e in questa società. Quando vedevi qualcuno leggere un giornale, due persone su tre leggevano il «Daily Worker» (2). Testa a testa per il secondo posto il «Chicago Defender» (3) e il «Racing Form» (4). Hearst e McCormick (5) squalificati ed esclusi dall’ordine d’arrivo.
- Ma come sono i negri, veramente? Di persona.
- Be’, ragazzo mio, ci sono anche delle brutte bestie, se è questo il senso della tua domanda. È un dato di fatto. Ma si tratta di una piccola minoranza, e basta fare un giro nel ghetto negro per capire, se non si ha una benda sugli occhi, cos’è che guasta la gente in quel modo. La caratteristica che mi ha più colpito tra i negri è la loro straordinaria cordialità. E, nella nostra fabbrica di dischi, la passione per la musica. Nella nostra fabbrica c’erano altoparlanti dappertutto, amplificatori, e chiunque volesse ascoltare un pezzo particolare – e tutto questo in orario di lavoro – non doveva far altro che chiederlo. I ragazzi cantavano, battevano i piedi, e non era insolito che uno pigliasse una ragazza e si mettesse a ballare. Circa un terzo dei dipendenti erano donne. Belle ragazze. Si fumava, si leggeva, si preparava il caffè, si discuteva fino a rimanere senza voce, e il lavoro procedeva senza interruzioni e senza intoppi.
- Tra i negri tu avevi degli amici?
- Certo. Certo che li avevo. C’era un omone di nome Earl Vattelapesca che mi riuscì subito simpatico perché somigliava a Paul Robeson (6). Non mi ci volle molto per scoprire che era un vagabondo come me. Earl prendeva la sopraelevata e lo stesso tram che prendevo io, e così cercavamo di viaggiare nelle stesse carrozze, per fare quattro chiacchiere durante il tragitto. Fino ai cancelli dello stabilimento Earl e io si parlava e si rideva come sul lavoro. Ma una volta dentro, dove c’erano dei bianchi che non conosceva, Earl tace di colpo e, quando scendo dalla sopraelevata, dice solo «Arrivederci». Così. Capisci?

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(1) William Wordsworth (1770-1850), poeta inglese che ammirava la rivoluzione francese.
(2) Daily Worker = quotidiano del Partito Comunista USA, in edicola dal 1924 al 1958 (precedentemente, per alcuni anni, fu un settimanale).
(3) Chicago Defender = giornale settimanale fondata da un afroamericano nel 1905 e destinato alle comunità afroamericane; viene ancora pubblicato.
(4) Racing Form = giornale fondato a Chicago alla fine dell’Ottocento e dedicato principalmente alle corse dei cavalli.
(5) Rispettivamente William Randolph Hearst e Robert R. McCormick; il primo fu editore e politico (sostenitore nel tempo sia dei repubblicani che dei democratici), considerato il padre del giornalismo scandalistico; il secondo, repubblicano e conservatore, fu editore del “Chicago Tribune”.
(6) Paul Robeson = cantante, attore e sportivo afroamericano (1898-1976), famoso anche come attivista per i diritti civili negli Stati Uniti.


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