In “Resurrezione” Tolstoj
racconta la storia del principe Dmitrij Ivanovič Nechljudov, il quale, chiamato
come giurato a un processo contro una prostituta accusata di omicidio,
riconosce nella donna sotto processo la ragazza Katjuša che dieci anni prima ha
sedotto e abbandonato dopo averla messa incinta. Durante le sedute in tribunale
ricorda tutta la sua storia con Katjuša, da quando adolescente se ne era
innamorato, fino alla drammatica notte della seduzione, allorché, divenuto un
giovanotto vizioso, aveva fatto quello che fanno tutti gli uomini della sua
condizione…
L’intero episodio occupa i
capitoli dal dodicesimo al diciottesimo di questo che è l’ultimo grande romanzo
tolstojano, scritto secondo i principi morali dello scrittore in tarda età.
XII
Ecco
quali erano stati i rapporti di Nechljudov con Katjuša.
Nechljudov
aveva veduto Katjuša la prima volta, allorquando, essendo al terzo anno di
Università e preparando la sua tesi sul possesso delle terre, era venuto a passare
l’estate presso le sue zie. Di solito egli passava l’estate con la madre e la sorella
in una proprietà che la prima possedeva nelle vicinanze di Mosca. Ma essendosi maritata
sua sorella nel corso dell’anno, sua madre era andata all’estero; e Nechljudov,
che doveva preparare la sua tesi, si era deciso di passare l’estate in casa
delle zie. Sapeva che in casa loro avrebbe trovato quella calma senza
distrazioni così necessaria al suo lavoro. Le vecchie zitelle amavano assai
questo loro nipote ed erede, ed egli le contraccambiava con eguale tenerezza,
essendogli assai cara la semplicità della loro vita.
Egli
era allora in quella disposizione entusiasta del giovane, il quale, per la
prima volta, riconosce da sé stesso e non dietro indicazioni altrui, tutta la
bellezza ed il valore della vita; il quale concepisce la possibilità di una perfezione
continuata, tanto per sé quanto per tutto il creato, e vi si abbandona non solo
con la speranza, ma con la assoluta convinzione di raggiungere la perfezione che
egli vagheggia. In quello stesso anno, egli aveva letto all’università la Statica
sociale di Spencer e le costui argomentazioni sulla proprietà fondiaria
avevano fatto grande impressione su di lui, specialmente perché egli era figlio
di una proprietaria di estesi domini. Suo padre non era stato ricco, ma sua
madre aveva portato in dote dieci mila desjatiny
(1) di terra. E, per la prima volta, egli capiva tutta la crudeltà e
l’ingiustizia del regime della proprietà fondiaria privata. Egli era di quelli
che traggono dal sacrificio, compiuto in vista di un bisogno sociale, una
grande contentezza morale; perciò egli aveva deciso di rinunciare per parte sua
al diritto di proprietà sulla sua terra e di dare ai contadini tutto ciò che
aveva ereditato da suo padre. E proprio su questo tema stava scrivendo la sua
tesi.
Stando
in casa delle zie, faceva una vita molto regolare: si alzava prestissimo, qualche
volta alle tre del mattino e prima ancora che il sole fosse alzato, andava a tuffarsi
nel fiumicello che scorreva ai piedi della collina; poi tornava verso la
vecchia casa, attraverso i prati ancora umidi dalla rugiada. Dopo aver bevuto
il caffè, egli si metteva a compulsare i documenti per la sua tesi; ma ancora
più spesso, invece di leggere o scrivere, egli tornava ad uscire ed andava vagando
nei campi e nella foresta. Prima di pranzo, schiacciava un sonnellino in un angolo
del giardino; durante il pasto egli divertiva le zie con la sua comunicativa allegria;
poi montava a cavallo o faceva una gita in barca; la sera, poi, leggeva, oppure
andava in sala e giocava a carte con le vecchie signore. Spesso, nelle notti
rischiarate dalla luna, non potendo dormire, agitato com’era dal fremito
dell’esuberanza di vita, egli scendeva in giardino e camminava fino all’alba, invaso
totalmente dalle sue fantasticherie.
Così
felicemente e serenamente trascorse il primo mese della sua vita dalle zie,
senza badare a Katjuša, via di mezzo fra la cameriera e la pupilla, con i suoi occhi
neri e le gambette svelte.
Essendo
cresciuto sotto la vigilanza materna, a diciannove anni aveva ancora
l’ingenuità di un fanciullo. La donna non evocava in lui che l’idea del
matrimonio; e tutte quelle che, secondo lui, non potevano sposarsi a lui, erano
ai suoi occhi delle «persone» e non delle «donne». Ma accadde che nel giorno
dell’Ascensione, di quella stessa estate, le zie di Nechljudov ebbero la visita
di una signora loro vicina, accompagnata da due giovanette, sue figlie e dal
figlio collegiale; c’era inoltre un giovane pittore, contadino di origine, il
quale stava con lei.
Dopo
il tè, i giovani si misero a giocare a gorelki (2) nel prato già falciato
dinanzi alla casa. Avevano pregato Katjuša di prender parte al giuoco; così
accadde che una volta dovesse correre con Nechljudov. Gli piaceva di vedere Katjuša,
ma senza pensare menomamente che tra lei e lui potesse stabilirsi nessuna relazione
particolare.
-
Sì, adesso quelli lì chi li prende? - disse l’allegro pittore che stava «sotto»,
correndo velocissimo sulle sue corte e storte, ma forti gambe da contadino, - a
meno che non inciampino.
-
Tanto non ci prenderà!
-
Uno, due, tre!
Batterono
le mani tre volte. Trattenendo a stento le risa, Katjuša scambiò svelta il
posto con Nechljudov, strinse con la forte e ruvida manina la grande mano di
lui e si lanciò a correre verso sinistra, facendo udire il fruscio della sua
gonnella inamidata.
Anche
Nechljudov correva bene; e non volendo farsi acchiappare dal pittore, correva a
perdifiato. Quando si voltò, egli vide il pittore che inseguiva Katjuša, la
quale, con le gambe giovani e agili, correva rapidamente, sfuggendogli e
allontanandosi sempre più a sinistra. Vi era in quel sito un cespuglio di
lillà, dietro il quale nessuno aveva pensato di appiattarsi. Katjuša guardò
Nechljudov facendogli cenno con la testa di andare dietro al cespuglio dove
egli la raggiunse appena ebbe capito. Ma dietro i lillà c’era un fosso coperto
di ortiche, che egli non conosceva. Inciampò, si punse le mani, si bagnò con la
rugiada che la sera imminente aveva lasciato cadere sulle foglie e cadde nel
fosso. Ma si rialzò subito ridendo, e con un saltò si trovò sopra un
terrapieno.
Katjuša,
coi suoi grandi occhi neri e raggianti come umide more, si slanciò incontro a
lui, Si tesero la mano.
-
Si è punto, eh?, - disse lei, ravviandosi con la mano libera la treccia
scomposta, respirando affannosamente e sorridendo, e intanto lo guardava di
sotto in su.
-
Non sapevo che ci fosse un fosso! - rispose Nechljudov sorridendo anche lui e
senza lasciarle la mano.
Essa
si era avvicinata a lui ancora di più, e senza sapere come, il viso di lei si
trovò vicino a quello del giovane; e siccome essa non si scostava, egli le
strinse più forte la mano e la baciò sulle labbra.
-
Oh bella! – esclamò lei e, sfilando la mano con un brusco movimento, scappò
via.
Corse
al cespuglio di lillà, ne strappò due rami di fiori bianchi che già si
sfogliavano, e frustandosi con essi il viso acceso e voltandosi a guardarlo,
agitando animatamente le braccia tornò verso il gruppo dei giocatori.
Da
quel momento i rapporti tra Nechljudov e Katjuša mutarono. La loro situazione
fu oramai quella di un giovinetto e di una fanciulla, entrambi innocenti ed ingenui,
i quali si sentono attratti l’uno verso l’altra.
Se
Katjuša entrava nella camera dove si trovava Nechljudov o ne scorgeva il
grembiale da lontano, tutto s’illuminava per lui; tutto era pieno d’interesse,
gaio, importante; la vita, per lui, era trasformata in ebbrezza. Ed essa
provava lo stesso sentimento. E non solo la presenza o la vicinanza di Katjuša
produceva questo effetto su Nechljudov; ma il solo pensiero che essa esisteva
lo riempiva di felicità, il che succedeva anche a lei. E quando Nechljudov riceveva
qualche lettera spiacevole dalla madre, od era scontento della sua tesi, o provava
qualche accesso di giovanile mestizia, gli bastava ricordare che esisteva Katjuša
e che l’avrebbe rivista, e tutto gli si rischiarava intorno.
Katjuša
aveva molto da fare in casa; ma era svelta al lavoro e, nei suoi momenti di
riposo, si occupava a leggere. Nechljudov le prestava le opere di Dostoevskij e
di Turgenev che anche lui aveva letto da poco. Le piacque specialmente «Un
angolo quieto» di Turgenev. Si parlavano ogni tanto, allorché si incontravano
nei corridoi, sul balcone, nel cortile e qualche volta nella stanza di Matrëna
Pavlovna, la vecchia cameriera delle zie, dove dormiva anche Katjuša, e dove
qualche volta Nechljudov andava a bere il tè. E le conversazioni che aveva allora
colla giovinetta, in presenza di Matrëna Pavlovna, erano le più piacevoli. Era
per loro più difficile parlare insieme quando erano soli. I loro occhi, allora,
cominciavano subito a dire qualche altra cosa, assai più importante di quel che
pronunciavano le loro bocche; le loro labbra si stringevano involontariamente,
si sentivano confusi e si affrettavano a separarsi.
Queste
relazioni fra Nechljudov e Katjuša durarono tutto il tempo che il giovane restò
in casa delle zie. Queste se ne accorsero, se ne spaventarono e perfino ne scrissero
alla principessa Elena Ivanovna, madre di Nechljudov, che si trovava allora
all’estero. La zia Mar’ja Ivanovna temeva una tresca galante fra Dmitrij e Katjuša.
Ma questo timore era infondato: Nechljudov, senza saperlo, amava Katjuša, come
amano le persone innocenti e quest’amore era la protezione maggiore contro una caduta,
tanto per lei quanto per lui. Non solo non c’era in lui il desiderio di possederla
fisicamente, ma provava orrore al solo pensiero di poterlo fare. L’altra zia,
Sof’ja Ivanovna, più romantica, aveva una paura diversa: temeva che Dmitrij,
col suo carattere deciso, tutto d’un pezzo, una volta innamorato di Katjuša,
risolvesse di sposarla, senza badare alla condizione ed alla nascita della
giovinetta, - e questa paura era assai più fondata.
Se
Nechljudov si fosse allora resa chiara ragione del suo amore per Katjuša, e
specialmente, se lo si avesse voluto convincere che non poteva assolutamente né
doveva unire la propria sorte a quella della giovane, sarebbe potuto facilmente
avvenire che, coll’ostinatezza che metteva in tutte le sue faccende, avrebbe
invece deciso che non c’erano motivi possibili per impedirlo di sposarla, una
volta che l’amava. Ma le zie non gli parlarono dei loro timori, ed egli partì
senza aver avuto coscienza del suo amore.
Era
convinto che il sentimento che provava per Katjuša non era altro che una di
quelle manifestazioni che allora si producevano in lui, in tutta la pienezza
della gioia di vivere; credeva pure che la cara ed allegra giovinetta si
trovasse nelle identiche sue condizioni. Ma al momento della partenza, quando Katjuša
in piedi nel vestibolo vicino alle zie, lo seguì con i suoi occhioni neri,
leggermente strabici e pieni di lagrime, egli ebbe la brusca sensazione che
abbandonava qualche cosa di delizioso, di prezioso, che non avrebbe mai più
trovato. Ed una profonda e dolorosa tristezza lo invase tutto.
-
Addio Katjuša, ti ringrazio di tutto, - disse egli al di sopra della cuffia di
Sof’ja Ivanovna, salendo in carrozza.
-
Addio, Dmitrij Ivanovič, - rispose lei colla sua voce dolce e carezzevole, e
trattenendo a stento le lacrime che le salivano agli occhi, corse
nell’anticamera dove poté piangere liberamente.
XIII.
Da
quell’epoca, per tre anni, Nechljudov non vide più Katjuša. La rivide soltanto,
quando promosso ufficiale ed andando a raggiungere il suo reggimento, passò
dalle sue zie, da uomo completamente diverso di quel che fosse tre anni prima.
Allora
era un giovane leale e disinteressato, pronto a dedicarsi a tutto ciò che gli
pareva bello e buono; ora non era che un egoista raffinato, un libertino che
non cercava altro che il proprio piacere. Allora il mondo creato da Dio gli
pareva un gran mistero che cercava di capire con gioia ed entusiasmo; - ora
tutto, in questa vita, gli pareva semplice e chiaro e subordinato solo a quelle
condizioni nelle quali egli si trovava. Allora riteneva necessaria ed importante
la comunione colla natura o con la gente che era vissuta prima di lui (cioè con
la filosofia e la poesia); - ora non gl’importavano e non gli parevano
necessarie che le istituzioni umane e le relazioni coi suoi compagni. Allora la
donna era per lui qualche cosa di misterioso e di delizioso, una creatura
mistica e poetica insieme; - ora il significato della donna, di tutte le donne
(eccetto quelle della propria famiglia e delle mogli dei suoi amici) era assai
chiaro e determinato: la donna era lo strumento di un piacere già provato e che
trovava superiore a tutti gli altri. Allora non aveva bisogno di danaro, e
poteva accontentarsi della terza parte della somma che gli dava la sua mamma;
poteva allora rinunciare all’eredità paterna in favore dei contadini; - ora non
gli bastavano più i 1500 rubli al mese che gli passava la madre, ed ogni tanto
aveva con lei delle sgradevoli discussioni su tale soggetto. Allora considerava
suo autentico io il suo essere spirituale, adesso considerava sé stesso il suo
sano, forte io animale.
E
tutta questa tremenda trasformazione era avvenuta in lui solo perché aveva
cessato di credere in sé stesso per credere negli altri. Aveva cessato di
credere in sé stesso per credere negli altri perché il vivere avendo fede in sé
stesso era troppo difficile: avendo fede in sé stesso bisognava risolvere ogni
problema non in favore del proprio io bestiale in cerca di piaceri
facili, ma quasi sempre a suo svantaggio; invece, avendo fede negli altri, non
c’era nulla da risolvere, - tutto era già bell’e risoluto, e sempre contro l’io
spirituale a pro dell’io bestiale. Non solo: credendo in sé stesso,
egli si assoggettava al giudizio ed alla critica della gente; credendo negli altri,
riceveva l’approvazione e la lode delle persone che lo circondavano.
Così,
all’epoca in cui Nechljudov pensava, leggeva, parlava di Dio, della verità, della
ricchezza, della povertà, tutti quelli che gli erano intorno lo consideravano
insensato ed alquanto ridicolo, e sua madre e sua zia lo chiamavano con bonaria
ironia notre cher philosophe (3);
quando invece si mise a leggere romanzi, a raccontare aneddoti scabrosi, ad andare
a teatro per udirvi l’opera buffa ed i vaudevilles francesi ed a
narrarne poi l’intreccio con un brio comico, tutti lo lodarono e ne ricercarono
la compagnia. Al tempo in cui stimava necessario misurare i propri bisogni ed
in cui portava un vecchio soprabito e non beveva vino, tutti lo consideravano come
uno strano originale; ma quando incominciò a spendere danari per andare a
caccia ed impiegò una forte somma per arredare un ampio e sontuoso gabinetto, tutti
ammirarono il suo buon gusto e molti gli regalarono oggetti di valore. Allorché
era vergine e tale aveva l’intenzione di rimanere fino al suo matrimonio, i
suoi parenti temevano per la sua salute; ma allorquando si seppe che era divenuto
uomo e che aveva tolto una certa dama francese ad un compagno, perfino sua
madre ne ebbe piacere. In quanto al suo idillio, con Katjuša, al pensiero che
gli poteva venire l’idea di sposarla, quella stessa madre non poteva pensarci
senza orrore.
Ugualmente,
allorché Nechljudov, raggiunta l’età maggiore, aveva ceduto ai suoi contadini
la piccola proprietà lasciatagli dal padre, perché stimava ingiusto il possesso
della terra, questa sua azione aveva fatto orrore a sua madre ed a tutti i suoi
parenti ed era stato il continuo soggetto dei rimproveri e delle beffe di tutti
i suoi congiunti. Gli dicevano continuamente che i contadini avuta la terra non
solo non erano divenuti più ricchi ma si erano fatti più poveri perché avevano
aperto tre bettole ed avevano cessato completamente di lavorare. Quando poi
Nechljudov, entrato nel reggimento delle guardie, aveva speso coi suoi
commilitoni e perduto con essi tanto che Elena Ivanovna aveva dovuto intaccare
il suo capitale, essa non ne sentì quasi dispiacere, dicendosi che era una cosa
naturale ed anzi buona che i peccati di gioventù si facessero appunto da
giovani ed in ottima compagnia.
Da
principio, Nechljudov lottò contro la corrente, ma la lotta era troppo ardua,
perché tutto ciò che egli, avendo fede in sé stesso, stimava buono, era dagli
altri ritenuto cattivo, e, viceversa, tutto ciò che, avendo fede in sé stesso,
egli stimava cattivo, era invece creduto buono da tutti quelli che lo attorniavano.
E la lotta finì con la disfatta di Nechljudov: cessò di aver fede in sé stesso,
e prestò fede agli altri. Nei primi tempi, questa rinuncia alle proprie idee
gli fu sgradevole, ma questo sentimento non fu di lunga durata, giacché egli
non tardò molto ad abituarsi al fumo ed al vino, ed allora cessò dal provare quel
sentimento spiacevole ed anzi sentì un gran sollievo.
E
Nechljudov, con tutta l’energia del suo temperamento, si diede corpo ed anima a
questa nuova vita, approvata da tutti i suoi congiunti ed amici, e soffocò
completamente in sé quella voce interna che domandava qualche cosa di meglio.
Questa nuova vita cominciò dopo il suo arrivo a Pietroburgo ed ebbe il suo
pieno sviluppo col suo ingresso nell’esercito.
Il
servizio militare in genere corrompe gli uomini, mettendo coloro che vi
accedono in condizioni di ozio assoluto, cioè di assenza di un lavoro
ragionevole ed utile, ed esonerandoli dai comuni obblighi umani, in cambio dei
quali propone soltanto l’onore convenzionale del reggimento, dell’uniforme,
della bandiera e, da un lato, un potere illimitato sul prossimo, e dall’altro
una sottomissione servile verso i superiori.
Ma
quando a questa corruzione del servizio militare in genere, col suo onore dell’uniforme
e della bandiera, colla sua autorizzazione alla violenza ed all’uccisione, si
unisce anche la corruzione della ricchezza, il contatto con la famiglia
imperiale - come succede per i reggimenti della guardia, nei quali non servono
che ufficiali ricchi e nobili – questa corruzione giunge al punto di divenire
un insensato, un folle egoismo. Ed è in questo stato di pazzo egoismo che si
trovava Nechljudov da quando si era fatto ufficiale ed aveva incominciato a
vivere come vivevano tutti i suoi camerati.
Non
avevano altro da fare che da portare una bellissima uniforme cucita e pulita da
altri; un elmo e delle armi, egualmente fatti e puliti e serviti da altri; a
montare sopra un bel cavallo, anch’esso addestrato e nutrito e governato da
altri; a recarsi agli esercizi o alla rivista con altri ufficiali; a galoppare,
a brandire la sciabola, a sparare, e ad insegnare tutto ciò agli altri. Non
c’erano altre occupazioni, e i personaggi più altolocati, giovani e vecchi, lo
zar e tutta la corte non solo approvavano queste occupazioni, ma anche le
lodavano ed erano riconoscenti verso quelli che le facevano, Oltre di ciò, si considerava
come cosa importante e ben fatta lo spendere e spandere danari che venivano non
si sa da dove, il riunirsi per mangiare, e soprattutto per bere, nei circoli
degli ufficiali o nei ristoranti più costosi; e poi teatri, balli, donne, e poi
di nuovo cavalcate, sciabole brandite, corse, e poi ancora altri danari ed
altro vino, e carte, e donne.
Se
un borghese, un privato qualunque facesse una vita simile non potrebbe fare a
meno di averne, in fondo all’anima, vergogna. Invece, i militari stimano che
tale dev’essere la loro vita; se ne vantano, ne vanno superbi, specialmente poi
in tempo di guerra, come avvenne per Nechljudov che entrò in servizio appunto
dopo la dichiarazione di guerra contro la Turchia. «Siamo pronti a sacrificare
la vita in guerra e perciò questa esistenza spensierata e allegra non solo è
perdonabile, ma indispensabile per noi. Ed è perciò che viviamo in questo modo!».
Così
pensava vagamente Nechljudov in quel periodo della sua vita: egli allora sentiva
l’entusiasmo di essersi liberato da tutti i freni morali, nei quali era vissuto
tutta la sua giovinezza, e si trovava in uno stato cronico di follia egoistica.
È
in quello stato che, tre anni dopo, tornò a visitare le sue zie.
XIV
Nechljudov
si era recato dalle zie, in primo luogo, perché la loro campagna si trovava
sulla via che aveva già preso il suo reggimento; in secondo luogo, perché esse lo
avevano pregato di venire; e, specialmente, per rivedere Katjuša. Forse, in fondo
all’animo suo, egli aveva concepito un progetto poco lodevole, pensando alla
giovanetta; uno di quei progetti dettati dall’istinto animale che predominava
in lui; però non osava confessarlo a sé stesso; credeva di essere lieto di
ritrovarsi nei luoghi che erano stati testimoni della felicità procuratagli da
lei, di rivederla, di rivedere le zie, un po’ ridicole è vero, ma buone ed
amabili tanto da circondarlo di tenerezza e di ammirazione.
Egli
vi giunse alla fine di marzo, un venerdì santo, in pieno disgelo, con una
pioggia così torrenziale, che avvicinandosi alla casa, si sentiva inzuppato
d’acqua e gelato; ciò nonostante egli proseguiva valorosamente, pieno di
energia, come era stato sempre in quel periodo della sua vita. «Starà ancora da
loro?» pensava egli mentre penetrava nel cortile pieno di neve disciolta e
scorgendo la vecchia casa ed il muro di mattoni che circondava il recinto e che
egli conosceva così bene. Egli s’immaginava di vederla accorrere sulla soglia,
appena avesse udito il suono del campanello; ma invece di lei apparvero due donne,
scalze e con le gonne rialzate, le quali portavano delle secchie, occupate, a
quanto pareva, a lavare il pavimento. Ma di Katjuša, neppure l’ombra;
Nechljudov vide venirgli incontro il vecchio servo Tichon, anch’egli col
grembiale, il quale veniva evidentemente per sorvegliare quel lavaggio. Egli fu
ricevuto in anticamera da Sof’ja Ivanovna vestita con un abito di seta e con la
cuffia.
-
Che carino sei stato a venire! - esclamò Sof’ja Ivanovna baciandolo. - Mašen’ka è un poco sofferente: essa si è
stancata stamattina in chiesa. Ci siamo comunicate.
-
Auguri, zia Sof’ja, - disse Nechljudov baciandole la mano. - Scusatemi, vi ho
bagnata!
-
Vai in camera tua. Sei tutto inzuppato - E hai anche i baffi… Katjuša! Katjuša!
Presto, preparagli del caffè.
-
Subito! - rispose la voce nota dal corridoio.
E
il cuore di Nechljudov ebbe un sussulto di gioia. «È qui» E fu come se il sole
fosse spuntato da dietro le nubi. Seguì allegramente Tichon, il quale lo
condusse nella sua stanza di una volta per cambiarsi d’abito.
Avrebbe
desiderato chiedere al servo notizie di Katjuša, della sua salute, delle sue
faccende, e se era fidanzata. Ma Tichon era così rispettoso ed austero nello stesso
tempo, insisteva tanto per versare egli stesso l’acqua della brocca sulle mani
di Nechljudov, che costui non osò chiedergli nulla sul conto della giovinetta,
e si limitò a domandargli notizie dei suoi bambini, del vecchio cavallo di suo
fratello, del cane di guardia Polkan. Tutti vivevano e stavano bene, eccetto
Polkan, che era diventato rabbioso l’anno prima.
Toltosi
gli indumenti bagnati, Nechljudov aveva appena cominciato a rivestirsi, quando
sentì dei passi rapidi e qualcuno bussò alla porta. Nechljudov riconobbe sia i
passi sia i colpi alla porta. Così camminava e bussava solo lei.
Si
gettò sulle spalle il mantello bagnato e andò alla porta.
-
Avanti!
Era
Katjuša. Sempre la stessa, anzi più bella che mai. Sempre di sotto in su
guardavano i suoi ingenui occhi neri, sorridenti e un po’ strabici. Indossava
come prima un grembiule bianco, pulito. Aveva portato da parte delle zie una
saponetta profumata appena tolta dalla carta, e due asciugamani; uno grande,
russo, e uno di spugna. Il sapone intatto con le lettere impresse, e
l’asciugamano, e lei stessa: tutto era ugualmente pulito, fresco, intatto,
piacevole. Ancora come un tempo le sue dolci labbra ferme e rosse
s’increspavano di gioia incontenibile, al vederlo.
-
Bentornato, Dmitrij Ivanovič! - proferì a fatica, e il suo viso si coprì di
rossore.
-
Ciao… Buongiorno, - non sapeva se dovesse darle del «tu» o del «lei»; ed egli
pure sentì di arrossire. - Come va la vita? Bene?
-
Grazie a Dio… Vostra zia vi manda il vostro sapone preferito, alla rosa, - disse
lei posando il sapone sulla tavola e gli asciugamani sullo schienale di una
sedia.
-
Il signore ha il suo, - Tichon si levò in difesa dell’indipendenza dell’ospite,
indicando con orgoglio il grande nécessaire aperto di Nechljudov, con i
coperchi d’argento e un’enorme quantità di boccette, spazzole, brillantine,
profumi e ogni sorta di oggetti da toilette.
-
Ringrazi la zia. Come sono lieto di essere venuto! - aggiunse Nechljudov, sentendo
nell’anima la stessa gioia e la stessa tenerezza di un tempo.
Lei
sorrise soltanto in risposta alle sue parole e uscì.
L’accoglienza
che le zie, le quali lo avevano sempre adorato, fecero a Nechljudov fu questa
volta più premurosa del solito. Dmitrij andava alla guerra, e poteva essere ferito,
ucciso! Che emozione per le due buone donne.
Nechljudov
aveva organizzato il suo viaggio in modo da trattenersi dalle zie soltanto una
giornata, ma quando ebbe visto Katjuša accettò di festeggiare con loro la
Pasqua, che sarebbe stata di lì a due giorni, e telegrafò al suo amico e
compagno Šenbok, con cui doveva incontrarsi a Odessa, perché anche lui facesse
un salto dalle zie.
Dal
primo momento in cui aveva riveduto Katjuša, Nechljudov aveva sentito rinascere
in lui l’antico sentimento. Come allora, egli non poteva fare a meno di essere sinceramente
commosso ogni qualvolta scorgeva il grembiule bianco della giovinetta; né udire
la sua voce, il suo riso, il rumore dei suoi passi, senza provare una gran
gioia; né subire con indifferenza, specialmente quand’essa sorrideva, lo
sguardo dei suoi occhi neri come le more bagnate; ed anche e più di allora,
egli non poteva vederla arrossire in sua presenza senza sentirsi sconcertato.
Sapeva di essere innamorato, non già come al tempo in cui il suo amore era un
mistero per lui stesso, e in cui non osava nemmeno di confessarselo, convinto di
non poter amare che una volta sola; oggi sapeva di essere innamorato e se ne
rallegrava, e mentre cercava di non pensarci, sapeva in che consisteva
quell’amore e i suoi possibili risultati.
In
Nechljudov, come in quasi tutti gli esseri umani, vi erano due uomini: l’uno,
l’uomo morale, che cercava il suo bene nel bene altrui; l’altro, l’uomo
animale, che cercava soltanto il bene personale a spese di tutti gli altri
esseri. E nel periodo di follia egoista provocata in lui dalla vita di
Pietroburgo e da quella militare, l’uomo animale aveva preso il sopravvento per
soffocare i bisogni dell’anima. Però quando ebbe riveduto Katjuša e si risvegliarono
i suoi antichi sentimenti per lei, l’uomo morale rialzò il capo e reclamò i
suoi diritti. Fu la causa di una lotta incosciente, ma incessante, che si
combatté in lui durante quelle due giornate che precedettero la Pasqua.
Sapeva,
nell’intimità dell’animo suo, che era suo dovere di partire e che agiva male
prolungando il suo soggiorno dalle zie; sapeva che non ne sarebbe risultato nulla
di buono; ma per il piacere e la gioia provata, egli imponeva silenzio alla sua
coscienza e restava.
Il
sabato sera, vigilia di Pasqua, venne il sacerdote accompagnato dal diacono e
dal sagrestano, per celebrare il mattutino; raccontarono con quanto stento
avessero attraversato in slitta le pozzanghere formate dallo sgelo, in quelle
tre verste che separavano la chiesa dalla casa delle vecchie signorine.
Nechljudov,
con le zie e tutti i domestici, assistette alla cerimonia. Non si stancava di
ammirare Katjuša, la quale stava vicino alla porta con l’incensiere in mano. E quando,
secondo l’uso, egli scambiò con il sacerdote e con le zie i tre baci
rituali, udì nel corridoio, mentre stava per rientrare in camera sua, la voce
di Matrëna Pavlovna, la vecchia cameriera, la quale diceva di voler andare in chiesa
con Katjuša per assistere alla benedizione del pane pasquale. «Ci andrò
anch’io!» - pensò.
La
via era così impraticabile che non si poteva pensare di andare in chiesa né in
vettura né in slitta, perciò Nechljudov, che dalle zie si comportava come a
casa propria, ordinò che gli sellassero lo stallone e, invece di andare a
dormire, indossò la sua brillante uniforme con i calzoni attillati, sopra
infilò il cappotto e partì alla volta della chiesa sul vecchio stallone grasso
e appesantito che non cessava di nitrire, nell’oscurità, fra le pozzanghere e
la neve.
XV
Per
tutta la vita poi quel mattutino restò per Nechljudov uno dei ricordi più
luminosi e intensi.
Quando,
dopo una lunga corsa attraverso le tenebre, rischiarate soltanto a sprazzi, dal
riflesso bianco della neve, egli penetrò finalmente nel cortile della chiesa,
cavalcando il puledro che muoveva le orecchie alla vista dei lampioni accesi,
il servizio era già incominciato.
Allorché
i contadini riconobbero nel cavaliere il nipote di Mar’ja Ivanovna, lo
condussero in un sito asciutto dove egli poté scendere, poi menarono via il suo
cavallo, e gli aprirono le porte della chiesa già piena di gente.
A
destra gli uomini: vecchi con caffettani e lapti (4) fatti in casa e pezze da
piedi candide e giovani in caffettani nuovi di panno cinti da fusciacche
sgargianti e stivali. A sinistra le donne, con gli scialletti di seta rossa, i
corpetti di felpa con le maniche scarlatte e le gonne variopinte, azzurre,
verdi e rosse, e gli stivaletti ferrati. Dietro di loro stavano le modeste
vecchine con gli scialletti bianchi e i caffettani grigi, con le sottane di
lana all’antica e le scarpe o i lapti nuovi; fra le une e le altre c’erano i
bambini tutti in fronzoli, coi capelli unti di olio. Gli uomini si segnavano e
inchinavano, scuotendo i capelli; le donne, specialmente le vecchie, fissavano
ostinatamente l’icona circondata da ceri, appoggiavano di tanto in tanto con
energia le dita ripiegate sulla fronte, sulle due spalle e sul ventre,
mormorando delle preghiere, s’inchinavano e cadevano in ginocchio. I fanciulli,
volevano imitare i grandi, pregavano con fervore, particolarmente quando si
sapevano osservati. L’iconostasi d’oro circondata da ceri avvolti d’oro, era
splendente di luce. Anche il candelabro maggiore era tutto adorno di ceri.
Alcuni cantori di buona volontà formavano due cori, in cui il muggito dei bassi
si sposava al soprano acuto delle voci infantili.
Nechljudov
si mise in prima fila. L’aristocrazia, rappresentata da un proprietario del
paese, da sua moglie e dal figlio, vestito da marinaio, occupava il mezzo; poi
il commissario di polizia, il telegrafista, un mercante con alti stivaloni, il sindaco
del villaggio con la medaglia appesa al collo; e a destra della tribuna, dietro
la moglie del proprietario, Matrëna Pavlovna, vestita con un abito dai colori
cangianti, con le spalle coperte da uno sciallo orlato di bianco. Vicino a lei
stava Katjuša in abito bianco pieghettato, con la vita stretta in un cinto
turchino e con un nodo rosso nei neri capelli.
Ogni
cosa aveva un’aria di festa; tutto era solenne, allegro, bello; i preti, coi piviali
d’argento attraversati da una croce di oro, il diacono ed il sagrestano con le
stole ricamate d’oro e d’argento, i canti di allegrezza dei cantori dilettanti,
dai capelli rilucenti, le reiterate benedizioni del prete che alzava il cero
sopra i fedeli, il modo con cui tutti salmodiavano ripetendo più volte: «Cristo
è risorto! Cristo è risorto!» Tutto era bellissimo, ma più bella di tutto era Katjuša
in abito bianco e cintura azzurra, con il fiocchetto rosso sui capelli neri e
gli occhi raggianti ed estatici.
Nechljudov
sentiva che essa lo vedeva senza volgere indietro la testa. Egli vide questo
nel passare vicino a lei per andare verso l’altare. Non aveva da dirle nulla,
ma escogitò qualcosa e disse, passandole vicino:
-
La zia ha detto che romperà il digiuno dopo l’ultima messa.
Come
sempre, appena Katjuša scorse Nechljudov, le affluì al caro viso il giovine
sangue e gli occhi neri, ridenti e lieti si fermarono su Nechljudov, guardando
ingenuamente di sotto in su.
-
Sì, lo so, - disse sorridendo.
In
quel momento il sagrestano che attraversava la folla tenendo un vaso di rame,
passò vicino alla giovinetta, e non vedendola, la urtò con la sua stola. Non
volendo passare per rispetto, innanzi a Nechljudov, aveva urtato Katjuša. Ma
Nechljudov rimase meravigliato di vedere come il sagrestano non capisse che
tutto quello che c’era in chiesa, nel mondo intero, non esistesse che per Katjuša
e che essa sola, centro dell’intero universo, non dovesse passare inosservata.
Per lei sola brillava l’oro dell’iconostasi, per lei bruciavano i ceri del
candelabro, per lei sola salivano tutti quei canti di allegrezza; «Rallegratevi,
o genti, ecco la Pasqua del Signore!» E tutto quello che era bello e buono era
per Katjuša e Katjuša doveva capire questo, perché Nechljudov lo sentiva in sé
guardando le agili forme della giovinetta, stretta nel vestito bianco pieghettato,
col viso inondato di gioia concentrata, dicendogli che tutto ciò che cantava in
lui, doveva pure cantare in lei.
Nell’intervallo
fra la prima e la seconda messa Nechljudov uscì dalla chiesa. La folla si
apriva rispettosamente davanti a lui e lo salutava. Alcuni lo riconoscevano;
altri domandavano: «Chi è?» Si fermò sul sagrato e dei mendicanti l’attorniarono
subito: egli distribuì loro tutti gli spiccioli che aveva in tasca e discese i
gradini che conducevano nel cortile.
L’alba
spuntava di già, ma il sole ancora non appariva. I fedeli andavano a sedersi
fra le tombe che circondavano il tempio. Katjuša non ne era ancora uscita, e
Nechljudov si fermò per aspettarla.
La
folla continuava ad uscire di chiesa e si sparpagliava nel cortile e nel camposanto.
Un
vecchio dalla testa tentennante, antico pasticciere di Mar’ja Ivanovna, fermò Nechljudov
e lo baciò tre volte; poi sua moglie, una vecchierella tutte rughe, gli offrì
un uovo colorato in giallo zafferano. Dietro ad essi, un giovane contadino
muscoloso e sorridente, con un farsetto nuovo e una fusciacca verde.
-
Cristo è risorto, - disse ridendo con gli occhi, si avvicinò a Nechljudov
investendolo col suo buon odore tipico di contadino, e solleticandolo con la
sua barbetta riccia lo baciò tre volte in bocca con le sue labbra ferme e
fresche.
Mentre
Nechljudov restituiva i baci al contadino e ne riceveva un grosso uovo
color marrone, vide uscire di chiesa la veste cangiante di Matrëna Pavlovna e
la cara testolina nera con il fiocchetto rosso.
Subito,
al disopra delle teste che li separavano, Katjuša lo riconobbe, ed egli vide
come il suo volto si rischiarò ad un tratto.
Katjuša
e Matrëna Pavlovna uscirono sul sagrato e si fermarono per fare l’elemosina. Un
mendicante con una cicatrice rossa al posto del naso si accostò a Katjuša. Lei
prese qualche cosa dal suo fazzoletto, glielo diede, poi, senza mostrare la
minima repulsione, anzi colla stessa gioia negli occhi, gli si accostò e lo
baciò tre volte. In quel momento il suo sguardo incontrò quello di Nechljudov,
ed essa parve chiedergli: va bene quello che sto facendo?
«Sì,
sì, cara, tutto è bene, tutto è bellissimo, ti amo».
Le
due donne discesero dai gradini del sagrato ed egli si avvicinò a loro. Non
voleva augurar loro la buona Pasqua, ma desiderava solo esser vicino a Katjuša.
-
Cristo è risorto! - disse Matrëna Pavlovna con un cenno della testa, un
sorriso, ed un’intonazione che pareva voler dire che in un giorno come quello
tutti gli uomini sono eguali, e dopo essersi asciugata la bocca con una nocca
del fazzoletto che aveva in capo, tese le labbra verso Nechljudov.
-
Risorto davvero, - rispose lui, baciandola. Si voltò a guardare Katjuša. Lei
arrossì e in un attimo gli si avvicinò.
-
Cristo è risorto, Dmitrij Ivanovič.
-
In verità è risorto, - disse lui. Si baciarono due volte e si fermarono, come
se si chiedessero se dovessero continuare, poi, decisi, si baciarono per la
terza volta, ed entrambi sorrisero.
-
Non andate dal prete? - chiese Nechljudov.
-
No, Dmitrij Ivanovič, stiamo un po’ qui sedute, - disse Katjuša, parlando con
difficoltà, come se, dopo quella gioia, le dovesse mancare la parola, e,
respirando a pieni polmoni, lo guardò diritto negli occhi, con i suoi occhioni neri,
umili, virginei, innamorati e un pochino strabici.
C’è
sempre, nell’amore fra uomo e donna, un minuto in cui quest’amore giunge al suo
apogeo, in cui non c’è più in esso nulla di pensato, di ragionato e neanche di
sensuale. Questo minuto sublime, Nechljudov l’ebbe in quella notte di Pasqua di
risurrezione. Ora che, seduto vicino alla finestra della camera dei giurati, si
ricordava di tutte le particolarità della sua relazione con Katjuša, quel
minuto solo cancellava tutti gli altri, ed egli rivedeva quella testolina nera accuratamente
pettinata, quella veste bianca a piccole pieghe che copriva la sua personcina svelta
ed il seno nascente, e quel pudico rossore, quegli occhi neri, teneri, lucenti,
ed in essa tutta due tratti speciali: la purezza del suo amore di vergine non
solo per lui - egli lo sapeva - ma per tutto e per tutti, e non solo per ciò che
vi è di bello nel creato, ma anche per quel pezzente che aveva baciato.
Sapeva
che in lei c’era quest’amore perché anch’egli lo sentiva in sé in quella notte
ed in quel mattino, ed aveva la coscienza che quell’amore li univa in un solo ed
unico sentimento.
Ah!
se tutto avesse potuto fermarsi lì, eternarsi in quel sentimento che lo aveva
agitato quella notte!... «Sì, ciò che poi è accaduto di terribile fra noi non è
stato che dopo quella notte della risurrezione di Cristo!» pensava egli, sempre
seduto vicino alla finestra nella stanza dei giurati.
XVI
Tornato
dalla chiesa, Niehliùdof ruppe il digiuno in compagnia delle zie. Per
rimettersi, dalla stanchezza, bevve, secondo l’abitudine presa nel reggimento,
dell’acquavite e del vino, poi si ritirò nella sua camera, e si addormentò
subito, bell’e vestito. Fu svegliato da un colpo bussato alla sua porta, e dal
modo come fu bussato, riconobbe subito che era lei. Si alzò, fregandosi gli occhi e stiracchiandosi.
-
Sei tu, Katjuša? Entra pure, - disse, alzandosi.
Essa
aprì a metà la porta.
-
Vi chiamano a pranzo, - disse.
Aveva
lo stesso abito bianco pieghettato, ma non più il nastro fra i capelli. Guardandolo
negli occhi, il suo volto si schiarì, come se avesse voluto annunciargli qualche
cosa di assai allegro.
-
Vengo subito, - rispose egli, prendendo un pettine per ravviarsi i capelli.
Ella
restò un attimo di troppo. Egli lo notò e, gettato il pettine, si mosse verso
di lei. Ma, in quello stesso momento, ella si voltò rapidamente e, col suo solito
passo leggero, si allontanò camminando sul tappeto del corridoio.
«Stupido
che sono! - sì disse Nechljudov, perché non l’ho trattenuta?»
E,
correndo, la raggiunse nel corridoio.
Cosa
volesse da lei, egli stesso non lo sapeva. Ma sentiva di non aver agito come
avrebbe agito qualunque altro, quando ella era entrata nella sua camera.
-
Katjuša, aspetta, - disse.
Lei
si voltò.
-
Che c’è? – disse, rallentando.
-
Niente, solo...
E
facendo uno sforzo su sé stesso, si ricordò come fanno tutti in simili casi, e
le cinse la vita con un braccio.
Lei
si fermò e lo fissò negli occhi.
-
No, Dmitrij Ivanovič, non si deve, - disse, arrossendo fino alle lacrime, e con
la piccola mano nervosa, staccò il braccio che l’aveva avvinta.
Nechljudov
la lasciò andare. Egli ebbe improvvisamente, una sensazione di malessere e di
vergogna, unita alla ripugnanza per sé stesso. In quel momento decisivo egli
avrebbe dovuto credere a sé stesso, ma non capì che quella vergogna e quella
ripugnanza erano i migliori sentimenti dell’anima sua; egli immaginò, al
contrario, che la sola sciocchezza sua gli avesse ispirato tali sensazioni e
che doveva fare come fanno tutti.
Corse
nuovamente dietro Katjuša, la riafferrò alla vita e le diede un bacio sul
collo. Questo bacio era ormai completamente diverso dai primi due: uno
inconsapevole dietro il cespuglio di lillà e l’altro, quella mattina, in
chiesa. Questo era spaventoso, e lei lo sentì.
-
Ma che cosa sta facendo? – gridò con una voce tale, come se egli avesse
irrimediabilmente rotto qualcosa di infinitamente prezioso. E fuggì via di corsa.
Egli
entrò nella stanza da pranzo. Le zie eleganti, il dottore e la vicina stavano
in piedi vicino agli antipasti. Tutto era così consueto, ma nell’anima di
Nechljudov c’era la tempesta. Non capiva nulla di quanto gli si diceva,
rispondeva a sproposito e pensava solo a Katjuša, ricordando la sensazione di
quell’ultimo bacio, quando l’aveva raggiunta in corridoio. Non poteva pensare
ad altro. Quando essa entrò nella stanza, egli non si volse a guardarla, ma
tutto il suo essere sentiva, aspirava la sua presenza, e durava fatica a non
guardarla.
Dopo
il pasto si ritirò subito in camera sua e lì camminò a lungo, in preda a una
forte agitazione, tendendo l’orecchio ai suoni nella casa e aspettando i suoi
passi. Non solo l’animale che era in lui aveva rialzato il capo, ma aveva
calpestato l’essere spirituale ch’era stato al tempo del suo primo soggiorno e
quella stessa mattina in chiesa. E quella fiera spaventosa signoreggiava
nell’anima sua. Pur continuando a tenderle agguati, quel giorno non riuscì a incontrarla
da solo a solo neppure una volta. Senza dubbio essa lo evitava. Verso sera,
però, essa fu obbligata a entrare in una camera attigua a quella occupata da
lui. Il medico si fermava per la notte e Katiuscia doveva preparare il letto
all’ospite. Udendo i suoi passi, Nechljudov, camminando senza far rumore e
trattenendo il respiro, quasi si preparasse a un delitto, entrò dietro di lei.
Con
le mani affondate in una federa pulita e tenendo il cuscino per gli angoli, si
voltò verso di lui e sorrise: ma non era il sorriso allegro e gioioso di prima,
era spaventato, pietoso. Pareva volesse dirgli che quello che faceva era male,
ed egli si fermò. In quel momento la lotta era ancora possibile. Egli udiva, ma
fiocamente, la voce del suo vero amore, che gli parlava di lei, dei suoi sentimenti, della sua
vita. Ma un’altra voce gli diceva: bada, tu stai per lasciarti sfuggire la tua
felicità, il tuo piacere. E quest’ultima voce soffocò la prima. E uno
spaventoso, irrefrenabile impulso bestiale s’impossessò di lui.
Senza
lasciarsela sfuggire dalle braccia, Nechljudov la fece sedere sul letto, e
sentendo che bisognava fare ancora qualcosa, si sedette vicino a lei.
-
Dmitrij Ivanovič, mio caro, per favore, mi lasci, - diceva lei con voce
lamentosa, - sta venendo Matrëna Pavlovna! – gridò, divincolandosi, e davvero
qualcuno veniva verso la porta.
-
Allora vengo da te stanotte, - disse Nechljudov. - Sarai sola, vero?
-
Che dice? Mai e poi mai! Non si deve, - diceva lei solo con le labbra, ma tutto
il suo essere sconvolto e turbato diceva altro.
Chi
si avvicinava alla porta era davvero Matrëna Pavlovna. Entrò nella stanza portando
delle coperte e, rivolta un’occhiata di rimprovero a Nechljudov, redarguì
aspramente Katjuša perché aveva preso la coperta sbagliata.
Nechljudov
uscì in silenzio. Non si vergognava neppure. Aveva letto il biasimo nello
sguardo di Matrëna Pavlovna, e sapeva che quello che faceva era riprovevole, ma
l’impulso bestiale sprigionatosi dal suo antico sentimento di amore buono per Katjuša
si era impossessato di lui e regnava incontrastato, senza riconoscere
null’altro. Ora sapeva cosa bisognava fare per soddisfare quell’impulso, e
cercava solo il mezzo.
Fu
inquieto per tutta la serata; ora entrava dalle zie, ora tornava in camera sua
e usciva nel terrazzino. L’unico suo pensiero era di rivedere Katjuša; ma
costei lo evitava, essendo anche sorvegliata da Matrëna Pavlovna.
XVII
Così
passò la serata e venne la notte. Il dottore andò a dormire. Le zie si
preparavano pure ad andare a letto. Nechljudov sapeva che Matrëna Pavlovna era
nella camera da letto delle sue padrone e che Katjuša era nella sua stanza, - sola.
Uscì di nuovo sul terrazzino. Fuori era scuro, umido, caldo, e quella nebbia
bianca che di primavera scaccia le ultime nevi o nasce dallo sgelo delle ultime
nevi riempiva tutta l’aria. Dal fiume che era distante un cento passi dalla
casa venivano strani rumori: era il ghiaccio che si rompeva.
Nechljudov
scese i gradini del terrazzino, e, camminando sulla neve già a metà liquefatta,
si accostò alla finestra della camera di Katjuša. Il cuore gli batteva così forte
in petto che ne udiva i palpiti; il respiro gli si fermava in gola o ne usciva
con forza come un profondo sospiro. Nella camera ardeva una piccola lampada; Katjuša
era seduta vicino ad una tavola; sembrava immersa nei suoi pensieri e guardava
innanzi a sé, nel vuoto. Nechljudov, immobile, stette molto tempo a guardarla, col
desiderio di sapere cosa avrebbe fatto non sapendosi osservata. Essa rimase
seduta, senza muoversi, per un paio di minuti; poi alzò gli occhi, sorrise,
scosse la testa come per riaversi, e, dopo aver cambiato posizione, appoggiò, pensosa,
le due braccia sulla tavola, e rimase di nuovo cogli occhi fissi come assorta
in una sola idea.
Egli
stava fermo e la guardava ed ascoltava involontariamente i battiti del proprio
cuore e quei strani rumori che venivano dal fiume. Là, sull’acqua, nella nebbia,
si faceva un lento incessante lavorio, ed ora qualcosa ansimava, ora
scricchiolava, ora si sgranava, ora sottili lastre di ghiaccio tintinnavano
come vetro.
Egli
stava fermo, guardando il volto pensoso di Katjuša, tormentato da un lavorio
interiore, e ne provava pena, ma, cosa strana, questa pena non faceva che acuire
il suo desiderio di possederla.
Questo
desiderio s’impadroniva di tutti i suoi sensi.
Picchiò
alla finestra. Come per una scossa elettrica, lei trasalì con tutto il corpo e
l’orrore si dipinse sul suo volto. Poi saltò dalla sua sedia, si avvicinò alla
finestra ed accostò la faccia ai vetri. L’espressione d’orrore non si dileguò
dal suo volto neanche, quando, avvicinate le due mani agli occhi, ella lo ebbe
riconosciuto. Tutto il suo aspetto era serio: mai egli l’aveva vista così.
Sorrise solo quando lo vide sorridere, - sorrise solo come per sottomissione;
ma nell’animo suo non c’era l’ombra del sorriso, c’era paura. Egli le fece
cenno colla mano, per farla uscire fuori. Ma essa scosse la testa in segno di
diniego e rimase vicino alla finestra. Egli accostò di nuovo il volto ai vetri
coll’intenzione di gridarle di uscire ma, in quel momento, essa si voltò dalla
parte opposta: certo qualcuno l’aveva chiamata. Nechljudov si allontanò dalla
finestra. La nebbia era così densa che a cinque passi dalla finestra non la si
vedeva più; si scorgeva soltanto una massa scura dal centro della quale usciva la
luce rossastra, che appariva enorme, della lampada che ardeva nella camera. Sul
fiume continuava quello strano ansimare, frusciare, scricchiolare e tinnire del
ghiaccio. A poca distanza dalla casa, nella nebbia, un gallo cantò, altri gli
risposero da vicino, poi altri da lontano, dal villaggio. Poi tutto ridivenne
silenzioso, salvo quel rumore incessante del fiume.
Dopo
aver camminato un paio di volte in su ed in giù davanti alla casa, affondando
spesso nella neve sciolta, Nechljudov si avvicinò di nuovo alla finestra della
stanza della servitù. La lampada vi ardeva sempre, e la giovinetta era di nuovo
seduta sola davanti alla tavola, come indecisa. Appena egli si fu accostato
alla finestra, ella lo guardò. Bussò. E lei, senza guardare chi bussasse, uscì
rapidamente dalla camera, ed egli udì aprirsi e rinchiudersi la porta. Egli era
già nel vestibolo e subito, senza dirle nulla, l’abbracciò. Lei gli si strinse
contro, e, sollevando la testa, porse le labbra al suo bacio. Stavano in un
angolo del vestibolo, in un sito asciutto, ed egli era tutto invaso da un desiderio
tormentoso, indomabile. Ad un tratto, la porta della camera di Katjuša si aprì
con lo stesso rumore di prima e si udì la voce irata di Matrëna Pavlovna che
gridava:
-
Katjuša!
Si
svincolò dal suo amplesso e tornò nella camera. Egli udì scattare il gancio.
Dopo di ciò tutto tacque, l’occhio rossastro scomparve dalla finestra, e non
rimase altro che la nebbia ed il movimento sul fiume.
Nechljudov
si accostò alla finestra, non ci si vedeva alcuno. Bussò, nessuno gli rispose.
Tornò a casa per la porta grande, ma non andò a dormire. Si tolse gli stivali, e,
a piedi nudi, seguì il corridoio fino alla camera di Katjuša, attigua a quella
di Matrëna Pavlovna. Stette dapprima ad ascoltare il calmo russare di
quest’ultima, e stava già per entrare, quando essa incominciò ad un tratto a
tossire e si voltò sul letto che scricchiolò. Egli si fermò impaurito, e
aspettò così per qualche minuto. Quando si rifece il silenzio, ed essa
ricominciò a russare, egli, camminando sul tappeto per non fare rumore, fece
pochi altri passi e si trovò davanti alla sua porta. Non vi si sentiva alcun
rumore. Certo, essa non dormiva perché non se ne udiva il respiro. Ma appena
egli ebbe sussurrato: « Katjuša » ella si alzò, si avvicinò alla porta, e adirata,
così gli parve, cercò di persuaderlo ad andarsene.
-
Che significa questo? È mai possibile? Le zie vi udranno... - dicevano le sue
labbra; ma tutto il suo essere diceva: «Sono tutta tua».
E
Nechljudov capiva solo questo.
-
Aprimi per un minuto solo. Te ne scongiuro... – diceva parole senza senso.
Lei
tacque, poi egli udì il fruscio della sua mano che cercava il gancio. Il gancio
scattò, ed egli penetrò dalla porta aperta.
L’afferrò
com’era, in camicia, colle braccia nude; la sollevò e la portò via.
-
Ah! cosa fate? - balbettò essa.
Ma
egli non badava alle sue parole e la portava nella sua camera.
-
Ah! non si deve, mi lasci, - diceva ella, ma intanto si stringeva a lui.
Quando,
tremante e silenziosa, senza rispondere alle parole di lui, ella uscì dalla sua
camera, il giovane discese anch’egli sul terrazzino, cercando di farsi un’idea
di quello che era accaduto.
Fuori
era più chiaro; giù, verso il fiume, lo scricchiolio e il tintinnio e
l’ansimare si erano fatti più forti e ai suoni di prima si era aggiunto un
gorgoglìo. La nebbia cominciava a posarsi, e oltre il muro di nebbia era emersa
la luna calante, illuminando foscamente qualcosa di nero e di spaventoso.
«Cos’è
dunque? Mi è accaduta una gran fortuna o una grande sventura?» - si domandava. «È
sempre così, tutti fanno così,» si disse e andò a dormire.
XVIII
Il
giorno seguente, l’allegro, il brillante Šenbok raggiunse Nechljudov dalle zie e
le affascinò completamente con la sua eleganza, la sua amabilità, la sua generosità
e la sua amicizia per Dmitrij. Quantunque la sua generosità piacesse alle
vecchie signorine, essa le stupì per la sua esagerazione. Esse furono
meravigliate di vedergli dare un rublo ad un mendicante cieco, di distribuirne quindici
in mance alla servitù, e quando Sjuzetka, il cagnolino maltese di Sof’ja
Ivanovna, si scorticò a sangue una zampa in sua presenza, egli, offertosi di
fasciarla, senza un momento di esitazione, strappò un fazzoletto di batista
ricamato (Sof’ja Ivanovna sapeva che fazzoletti di quel genere non costano meno
di quindici rubli la dozzina) e ne fece delle bende per Sjuzetka. Le zie non
avevano mai visto nulla di simile; ma ignoravano egualmente che Šenbok aveva
duecentomila rubli di debiti che non sarebbe mai riuscito a pagare, e lo
sapeva, per cui venticinque rubli in più o in meno non facevano alcuna
differenza.
Šenbok
si fermò soltanto un giorno e la notte seguente partì con Nechljudov. Non potevano
trattenersi di più, essendo giunti all’ultimo limite del congedo dato loro,
prima di raggiungere il reggimento.
L’animo
di Nchljudov, durante quell’ultimo giorno passato in casa delle zie, non poteva
staccarsi dal ricordo della notte precedente. Due sentimenti opposti vi si combattevano;
il ricordo scottante di un amore bestiale, il quale, benché non avesse di gran
lunga dato tutto quello che prometteva, lasciava peraltro la soddisfazione di
un desiderio realizzato; e la coscienza di aver commesso una cattiva azione, con
l’obbligo di ripararla, non per lei, ma per sé stesso.
Nello
stato di follia egoistica in cui si trovava, Nechljudov non poteva pensare che
a sé. Si dava una gran pena per indovinare come avrebbero giudicato la sua condotta
verso la giovinetta; ma non pensava affatto a tutto quello che essa avrebbe
risentito, né cosa sarebbe accaduto di lei. Supponeva che Šenbok avesse
indovinato le sue relazioni con Katjuša ed il suo amor proprio ne era solleticato.
-
Ecco perché tutto a un tratto vuoi così bene alle zie, - gli disse Šenbok dopo
aver visto Katjuša, - da passare una settimana intera da loro. Anch’io al tuo
posto non me ne sarei andato. È un incanto!
E
Nechljudov pensava che, a dispetto delle sue voglie non ancora completamente soddisfatte,
era meglio partire e spezzare, di un sol tratto, delle relazioni difficili a continuare.
Pensava esser suo dovere di dar del denaro a Katjuša, non per lei, perché non
ne aveva bisogno, ma perché in simili casi si fa sempre così, e perché lo si
sarebbe considerato come un uomo senza onore, se non l’avesse pagata per averla
posseduta. E così le diede quel denaro: quanto riteneva consono alla propria e
alla sua condizione.
Il
giorno della partenza, dopo pranzo, egli l’aspettò nell’anticamera. Vedendolo,
essa arrossì vivamente e volle passar oltre, facendogli osservare con
un’occhiata la porta aperta della dispensa. ma egli la trattenne.
-
Volevo salutarti, - le disse, cercando di insinuarle nella mano una busta in
cui aveva posto un biglietto di cento rubli. – Ecco, io...
Lei
indovinò, corrugò le sopracciglia, scosse la testa e gli allontanò la mano.
-
No, prendi, - mormorò e le mise la busta nell’apertura della giacchetta, poi,
come se si fosse bruciato le dita, aggrottò anch’egli le sopracciglia, e corse,
gemendo, a rinchiudersi in camera sua.
E
là, camminando in lungo ed in largo, si torceva, sussultava ed emetteva degli oh!
e degli ah! come se fosse torturato da un dolore fisico, al pensiero
di questa ultima scena.
«Ma
che dovevo fare? È sempre così. Così ha fatto Šenbok con la governante di cui
raccontava, così ha fatto lo zio Griša, così ha fatto mio padre quando viveva
in campagna e gli è nato da una contadina quel figlio illegittimo Miten’ka che
vive ancora. E se tutti fanno così, è segno che così bisogna fare». Cercava di
consolarsi con questi ragionamenti, ma non ci riusciva. Il ricordo di ciò che
aveva fatto continuava a rimordergli la coscienza.
In
fondo, proprio in fondo all’anima sapeva di aver agito vilmente, bassamente,
crudelmente, al punto tale che aveva non solo perduto il diritto di giudicare
le azioni della gente, ma anche di guardarla in faccia; che non aveva più neanche
il diritto di stimarsi un giovane buono, nobile, generoso, magnanimo. Ed intanto
aveva bisogno di credersi tale per poter continuare a vivere spensieratamente ed
allegramente. A tutto ciò non c’era che un sol rimedio, ed era di non pensarci
più. E così fece.
La
vita che stava per incominciare – città nuove, i compagni, la guerra – tutto
ciò lo aiutò a dimenticare. E quanto più viveva, tanto più dimenticava, e alla
fine si dimenticò davvero di tutto.
Una
sola volta, allorché, a guerra finita, si era di nuovo recato in casa delle zie
colla speranza di rivedere Katjuša, e vi aveva saputo che essa non ci era più, che
se n’era andata, poco tempo dopo la partenza di lui, per partorire, - che aveva
partorito non si sapeva dove, - e che, secondo quello che ne avevano udito dire
le zie, essa era completamente caduta nella degradazione, - egli aveva sentito
il suo cuore stringersi dolorosamente. Calcolando il tempo, il figlio partorito
da lei poteva esser suo; però poteva anche essere di un altro. Quando le zie
gli avevano parlato di questo, avevano aggiunto che si erano da molto tempo
accorte che Katjuša era una natura viziosa come sua madre. Questo giudizio
delle zie piacque a Nechljudov il quale si trovava in certo qual modo assolto.
Da principio egli ebbe l’intenzione di ricercare Katjuša ed il bambino; ma
avendo intimamente vergogna della sua condotta, non tentò nulla per ritrovarla;
fece ancor meglio: dimenticò il suo fallo e finì per non pensarci più.
Ed
ecco che ora, un caso straordinario gli ricordava ogni cosa, lo obbligava a convenire
di esser stato egoista, crudele, vigliacco, e di aver potuto vivere
tranquillamente dieci anni con una simile colpa sulla coscienza! Era però
ancora incapace di confessare sinceramente a sé stesso tutta la sua indegnità;
ed anche in quel momento, pensava solo di evitare che tutto venisse scoperto e che
le rivelazioni di Katjuša, o del suo difensore, non lo additassero qual era
innanzi a tutti.
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(1) Desjatiny =
plurale di desjatina, una misura terriera equivalente a 1,092 ettari.
(2) Gorelki =
gioco a rincorrersi in cui ogni coppia, a turno, separandosi e poi riunendosi,
deve sfuggire a chi sta «sotto».
(3) Notre cher
philosophe = il nostro caro filosofo.
(4) Lapti =
calzature di scorza di tiglio usate dai contadini.
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