lunedì 19 dicembre 2016

28 La Divina Commedia - Inferno: canto terzo (di Dante Alighieri)




LA PORTA DELL’INFERNO – GLI IGNAVI – CARONTE

Dopo che Virgilio (nel canto secondo) ha risolto i dubbi di Dante sul viaggio che sta per compiere, raccontandogli di come la sua salvezza sia voluta da tre donne in Paradiso – la Vergine, Santa Lucia e Beatrice, quest’ultima scesa fino al Limbo per esortare Virgilio a far da guida a Dante – i due poeti giungono alla porta dell’Inferno, sormontata da una scritta minacciosa. La oltrepassano e Dante vede e sente per la prima volta i lamenti delle anime dannate: le prime che incontrano sono quelle degli ignavi, coloro che hanno vissuto vilmente tutta la loro vita, senza mai impegnarsi in qualcosa di buono e con non sono degni nemmeno dell’Inferno. Quindi arrivano alla riva dell’Acheronte e incontrano il demonio Caronte, che porta le anime dei dannati nell’Inferno vero e proprio.

PER ME SI VA NE LA CITTÀ DOLENTE,
PER ME SI VA NE L’ETTERNO DOLORE,
PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE.

GIUSTIZIA MOSSE IL MIO ALTO FATTORE;
FECEMI LA DIVINA PODESTATE,
LA SOMMA SAPÏENZA E ’L PRIMO AMORE.

DINANZI A ME NON FUOR COSE CREATE
SE NON ETTERNE, E IO ETTERNO DURO.
LASCIATE OGNE SPERANZA, VOI CH’ENTRATE.

Queste parole di colore oscuro
vid’io scritte al sommo d’una porta;
per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro».

Ed elli a me, come persona accorta:
«Qui si convien lasciare ogni sospetto;
ogni viltà convien che qui sia morta.

Noi siam venuti al loco ov’io t’ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c’hanno perduto il ben de l’intelletto».

E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond’io mi confortai,
mi mise dentro alle segrete cose.

Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,
per ch’io al cominciar ne lagrimai.

Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle

facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.

E io ch’avea d’orror la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’è che par nel duol sì vinta?».

Ed elli a me: «Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza infamia e sanza lodo.

Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé foro.

Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli».

E io: «Maestro, che è tanto greve
a lor, che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto breve.

Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ’nvidiosi son d’ogni altra sorte.

Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa».

E io, che riguardai, vidi una insegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogni posa mi parea indegna;

e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch’io non averei creduto
che morte tanta n’avesse disfatta.

Poscia chiio v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltà il gran rifiuto.

Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta de’ cattivi,
a Dio spiacenti ed a’ nemici sui.

Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch’eran ivi.

Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, ai lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.

E poi ch’a riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d’un gran fiume;
per ch’io dissi: «Maestro, or mi concedi

ch’i’ sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer sí pronte,
com’io discerno per lo fioco lume».

Ed elli a me: «Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d’Acheronte».

Allor con li occhi vergognosi e bassi,
temendo no ’l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi trassi.

Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: «Guai a voi, anime prave!

Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi all’altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo.

E tu che se’ costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti».
Ma poi che vide ch’io non mi partiva,

disse: «Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti».

E ’l duca lui: «Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».

Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier della livida palude,
che ’ntorno alli occhi avea di fiamme rote.

Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattíeno i denti,
ratto che ’nteser le parole crude:

bestemmiavano Dio e lor parenti,
l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.

Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, alla riva malvagia
ch’attende ciascun uom che Dio non teme.

Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte li raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia.

Come d’autunno si levan le foglie
L’una appresso dell’altra, fin che ’l ramo
vede alla terra tutte le sue spoglie,

similmente il mal seme d’Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.

Così sen vanno su per l’onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera s’auna.

«Figliuol mio», disse ’l maestro cortese,
«quelli che muoion nell’ira di Dio
tutti convengon qui d’ogni paese;

e pronti sono a trapassar lo rio,
ché la divina giustizia li sprona,
sí che la tema si volve in disio.

Quinci non passa mai anima bona;
e però, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che ’l suo dir suona».

Finito questo, la buia campagna
tremò sí forte, che dello spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.

La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;

e caddi come l’uom che ’l sonno piglia. 

(testo secondo l'edizione di Natalino Sapegno, 1968)


Gli ignavi, miniatura di Priamo della Quercia (1400-1467)


Caronte, secondo l’interpretazione di Michelangelo nel Giudizio Universale della Cappella Sistina (1535-1541)

PARAFRASI:

ATTRAVERSO ME SI VA NELLA CITTÀ DOLENTE [l’Inferno], ATTRAVERSO ME SI VA NELL’ETERNO DOLORE, ATTRAVERSO ME SI VA TRA LA GENTE DANNATA.
GIUSTIZIA MOSSE IL MIO ALTO FATTORE [Dio fu indotto a crearmi dalla giustizia]: MI FECERO LA DIVINA POTENZA, LA SOMMA SAPIENZA E IL PRIMO AMORE [rispettivamente Dio, il figlio, lo Spirito santo]
PRIMA DI ME FURONO CREATE SOLO COSE ETERNE [angeli, cieli, materia pura] E IO DURO PER L’ETERNITÀ. LASCIATE OGNI SPERANZA, VOI CHE QUI ENTRATE.
Queste parole dal significato oscuro io vidi scritte sulla sommità d’una porta; per cui io: «Maestro, non capisco il loro significato».
Ed egli a me, come persona esperta: «Qui conviene lasciare ogni timore; conviene che qui sia morta ogni viltà
Noi siamo giunti nel luogo dove ti ho detto che vedrai le genti addolorate che hanno perduto il bene dell’intelletto [la verità e dunque Dio]».
E dopo che ebbe messo la sua mano nella mia con volto lieto, per la qual cosa io provai conforto, mi introdusse a quelle cose segrete.
Qui sospiri, pianti e forti urli risuonavano nell’aria priva di stelle, per cui io, udendoli per la prima volta, cominciai a piangere.
Lingue diverse [differenti o strane], pronunce orribili, parole di dolore, esclamazioni d’ira, voci alte e deboli, e battiti di mani mescolati ad esse
facevano un tumulto, che si aggira sempre in quell’aria eternamente buia, come la rena quando soffia il turbine.
E io che avevo la testa avvolta d’orrore, dissi: «Maestro, che cos’è ciò che odo? E che gente è questa che pare così sopraffatta nel dolore?»
Ed egli a me: «Questo misero modo [di fare] hanno le anime dolenti di coloro che vissero senza infamia e senza lode.
Sono mescolate a quella malvagia schiera degli angeli che non furono ribelli a Dio né gli furono fedeli, ma furono solo per sé [pensarono solo a sé stessi].
I cieli li cacciano per non perdere la loro bellezza, il profondo inferno non li riceve, perché i dannati riceverebbero da essi [dall’essere in loro compagnia] qualche motivo di gloria».
E io: «Maestro, che cosa è a loro tanto grave, che li fa lamentare così forte?». Rispose: «Te lo dirò speditamente.
Costoro non hanno alcuna speranza di morire e la loro vita oscura è tanto infima, che sono invidiosi di qualunque altra sorte.
Il mondo non lascia che resti fama di loro; la misericordia e la giustizia [di Dio] li sdegna: non parliamo di loro, ma guarda e passa oltre».
E io, che guardai, vidi un’insegna che correva girando tanto veloce, che mi sembrava impossibile che potesse mai fermarsi;
e dietro le veniva una così lunga fila di gente, che io non avrei mai creduto che la morte ne avesse ucciso così tanta.
Dopo che io ebbi riconosciuto qualcuno tra essi, vidi e riconobbi l’ombra di colui che per vigliaccheria fece il grande rifiuto [secondo la maggior parte dei commentatori antichi è il papa Celestino V, che rinunciò a fare il papa sentendosi inadeguato, e permettendo così che venisse eletto al suo posto Bonifacio VIII, che Dante considerava il maggior responsabile della rovina di Firenze].
Subito capii e ne fui certo che questa era la setta di quei vili, che non piacevano a Dio ed anche ai nemici di Dio [sono generalmente chiamati IGNAVI, persone cioè che nella loro vita non si sono mai sentiti in dovere di compiere qualcosa di buono, che non hanno mai assunto alcuna responsabilità verso se stessi].
Questi esseri abbietti, che non furono mai vivi, erano nudi e punti in continuazione da mosconi e da vespe che là c’erano.
Esse rigavano il loro volto di sangue, che, mescolato alle lacrime, era raccolto ai loro piedi da vermi schifosi.
E dopo che mi misi a guardare oltre, vidi della gente sulla riva di un grande fiume; per cui dissi: «Maestro, concedimi ora
di sapere chi è questa gente, e quale istinto la fa apparire così ansiosa di passare all’altra riva, come discerno attraverso la debole luce».
Ed egli a me: «Le cose ti saranno note quando noi fermeremo i nostri passi sul desolato fiume d’Acheronte».
Allora con gli occhi vergognosi e bassi, temendo che le mie domande gli fossero importune, evitai di parlare finché non giungemmo al fiume.
Ed ecco venire verso noi su una nave un vecchio, canuto per vecchio pelo, gridando: «Guai a voi, anime malvage!
Non sperate di vedere mai il cielo: io vengo per condurvi all’altra riva, nelle tenebre eterne, nel caldo e nel gelo.
E tu [= Dante ] che sei qui, anima viva, scostati da costoro che sono morti». Ma poiché vide che io non me ne andavo,
disse: «Per un’altra strada, per altri porti giungerai a una spiaggia da attraversare, non qui: un’imbarcazione più leggera converrà che ti porti» [Caronte intende dire che Dante verrà portato alla sua morte non in inferno, bensì in purgatorio, per giungere nel quale vi è una barca più agile. Ma è presumibile immaginare che Dante, quando scrisse questi versi, non aveva ancora ben chiara in mente tutta la struttura dei tre regni ultraterreni].
E la mia guida a lui: «Caronte, non arrabbiarti: si vuole così là dove si può ciò che si vuole e non domandare nient’altro» [È Dio stesso che vuole che Dante visiti l’inferno: Dio, infatti, è colui che può fare tutto ciò che vuole].
Da qui in poi se ne stettero quiete le gote pelose del nocchiero della palude livida [nera come dei lividi], che aveva intorno agli occhi cerchi fiammeggianti.
Ma quelle anime, che erano affrante e nude, cambiarono di colore e battevano i denti, non appena intesero le crudeli parole:
bestemmiavano Dio e i loro genitori, la specie umana e il luogo e il tempo [della loro nascita] e il seme della loro semenza [cioè i padri dei padri] e delle loro nascite [cioè i loro stessi padri].
Poi si ritirarono tutte quante insieme, piangendo forte, sulla malvagia riva che attende qualunque uomo che non teme Dio.
Il demonio Caronte, con occhi di brace, con un solo cenno rivolto a loro, li raduna tutti; con il remo picchia qualunque di loro indugia.
Come in autunno le foglie si levano una dopo l’altra, finché il ramo vede per terra tutte le sue spoglie [il ramo è descritto da dante come una persona che si spoglia e resta nuda],
allo stesso modo i malvagi discendenti di Adamo si gettano ad uno ad uno da quella riva, in seguito ai cenni [di Caronte] come un uccello sentendo il suo richiamo.
Così se ne vanno sopra l’onda nera e prima che siano scese sull’altra riva, di qua una nuova schiera si è radunata.
«Figliolo mio», disse il mio maestro cortese, «coloro che muoiono nell’ira di Dio giungono qui tutti da ogni paese:
e sono pronti ad oltrepassare il fiume, poiché la divina giustizia li sprona, a tal punto che il timore si muta in desiderio.
Di qui non passa mai un’anima buona; perciò, se Caronte di te si lamenta, ben puoi capire ormai che cosa significano le sue parole».
Finito questo discorso, la buia campagna tremò così forte, che la mente [= il ricordo] mi bagna di sudore ancora per lo spavento.
La terra intrisa di lacrime sprigionò un vento, che fece balenare una luce rossastra la quale mi vinse ogni sentimento [= mi fece perdere i sensi]
e caddi come un uomo che il sonno piglia.













venerdì 9 dicembre 2016

27 La Divina Commedia - Inferno: canto primo (di Dante Alighieri




LA SELVA OSCURA E L’INCONTRO CON VIRGILIO

Scritta in un lungo arco di tempo, che va probabilmente dal 1305 al 1321, la Comedia dantesca (ora conosciuta universalmente come Divina commedia) è divisa in 3 parti, dette cantiche: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Ogni cantica è composta da 33 canti, tranne la prima che ne ha 34, considerando il primo come introduttivo all’intero poema: in totale, dunque, 100 canti, per un totale di 14.233 versi tutti endecasillabi, riuniti in terzine. Il famoso inizio del poema descrive Dante smarrito in un bosco: è uno smarrimento simbolico, che allude a una condizione di crisi interiore, sia spirituale, sia morale.

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

Ah quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’io vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.

Io non so ben ridir com’io v’entrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.

Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,

guardai in alto, e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogni calle.

Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pièta.

E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago alla riva
si volge all’acqua perigliosa e guata,

così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.

Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.

Ed ecco, quasi al cominciar dell’erta,
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;

e non mi si partía dinanzi al volto,
anzi impediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.

Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n su con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino

mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera alla gaetta pelle

l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.

Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne temesse.

Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca nella sua magrezza,
e molte genti fe’ già viver grame,

questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza dell’altezza.

E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutt’i suoi pensier piange e s’attrista;

tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi incontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace.

Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi alli occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.

Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».

Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantovani per patria ambedui.

Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
nel tempo delli dei falsi e bugiardi.

Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
poi che ’l superbo Iliòn fu combusto.

Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?».

«Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»
rispuos’io lui con vergognosa fronte.

«O delli altri poeti onore e lume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ha fatto cercar lo tuo volume.

Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore;
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ha fatto onore.

Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi».

«A te convien tenere altro viaggio»,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
«se vuo’ campar d’esto loco selvaggio:

ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;

e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ’l pasto ha più fame che pria.

Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ’l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.

Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.

Questi la caccerà per ogni villa,
fin che l’avrà rimessa nello ’nferno,
là onde invidia prima dipartilla.

Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per luogo etterno,

ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
che la seconda morte ciascun grida;

e vederai color che son contenti
nel fuoco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.

A le qua’ poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;

ché quello imperador che là su regna,
perch’io fu’ ribellante a la sua legge,
non vuol che ’n sua città per me si vegna.

In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l’alto seggio:
oh felice colui cu’ ivi elegge!».

E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
acciò ch’io fugga questo male e peggio,

che tu mi meni là dove or dicesti,
sì ch’io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti».

Allor si mosse, e io li tenni dietro.

(testo secondo l'edizione di Natalino Sapegno, 1968)


Dante nella selva oscura, illustrazione di Gustave Doré

PARAFRASI:
A metà del cammino della nostra vita [cioè a 35 anni] mi ritrovai dentro una foresta buia perché avevo smarrito la via diritta.
Ah com’è difficile dire che cos’era questa selva selvaggia, malagevole e difficile, che solo a pensarci rinnova la mia paura!
È tanto amara che la morte è poco di più; ma per parlare di ciò che di bene vi ho trovato, parlerò delle altre cose che vi ho veduto.
Io non so dire bene come vi ero entrato, tanto ero pieno di sonno [dell’anima] in quel punto in cui avevo abbandonato la via della verità.
Ma quando fui giunto ai piedi d’un colle, là dove finiva quella valle che mi aveva trafitto il cuore di paura,
guardai in alto e vidi i pendii [del colle] illuminati dai raggi di quel pianeta [il Sole] che conduce chiunque a camminare drittamente per ogni calle.
Allora si quietò un poco la paura che mi aveva riempito a lungo il lago del cuore quella notte che io passai con tanto affanno.
E come colui che con respiro affannato uscito fuori dal mare sulla riva si volta a guardare l’acqua pericolosa e la fissa intensamente
così l’animo mio, che ancora fuggiva [dalla selva, come se ci fosse ancora dentro], si voltò indietro a contemplare quel passaggio che giammai ha lasciato una persona viva.
Dopo che ebbi riposato un poco il corpo stanco, ripresi il cammino su per il pendio deserto, cosicché il piede fermo era sempre quello più in basso.
Ed ecco, quasi all’inizio della salita, una lonza [un felino simile al leopardo] agile e molto veloce, coperta di una pelliccia a macchie;
e non se ne andava davanti a me, anzi, ostacolava tanto il mio cammino, che più volte io mi voltai per tornare indietro.
Il tempo era quello dell’inizio del mattino, e il sole sorgeva assieme a quelle stelle che c’erano con lui quando l’amore divino
creò dapprima quelle belle cose [gli astri. Era opinione che Dio avesse creato il mondo all’inizio della primavera]; cosicché motivo a ben sperare riguardo a quella fiera dalla pelliccia così gradevole erano
l’ora mattutina e la bella stagione; ma non così tanto che non mi procurasse paura la vista di un leone che apparve.
Questo sembrava che venisse contro me con la testa alta e con fame rabbiosa, tanto che pareva che persino l’aria ne avesse paura.
E una lupa, che nella sua magrezza sembrava carica di tutte le brame, e aveva fatto vivere miseramente molta gente,
questa mi diede tanta di quell’ambascia con la paura che sprigionava dal suo aspetto, che io persi la speranza di raggiungere l’altezza [la sommità del colle].
E come colui che ha volontà solo per il guadagno [l’avaro], quando giunge il tempo in cui perde ogni sua cosa, piange in tutti i suoi pensieri e si rattrista;
tale mi rese la bestia senza pace, che, venendomi incontro, a poco a poco mi respingeva là dove il sole non batteva [cioè nella selva da cui ero appena uscito].
Mentre precipitavo in basso, mi apparve davanti agli occhi uno che, per essere rimasto a lungo in silenzio, pareva incapace di parlare.
Quando lo vidi in quel gran luogo solitario, «Pietà di me!» gridai a lui, «chiunque tu sia, od ombra o uomo vero!»
Mi rispose: «Non sono uomo, uomo lo sono stato, e i miei genitori furono lombardi, entrambi mantovani di patria.
Nacqui ai tempi di Giulio Cesare, anche se tardi [perché lui potesse conoscermi], e vissi a Roma sotto il buon Augusto al tempo degli dei falsi e bugiardi.
Fui poeta e cantai di quel giusto figlio d’Anchise [Enea] che giunse da Troia, dopo che la superba Ilio venne bruciata.
Ma perché ritorni indietro in tanta angoscia? Perché non sali il piacevole monte, che è l’inizio e la ragione di ogni gioia?»
«Ma sei tu quel Virgilio e quella fontana che dà origine a un fiume così largo di parole?», risposi a lui con fronte vergognosa [in segno di rispetto].
«Oh onore e luce di tutti i poeti! Mi giovi presso di te il lungo studio e il grande amore che mi ha spinto a studiare il tuo libro [l’Eneide].
Tu sei il mio maestro e l’autore che prediligo; tu sei il solo da cui io ho ricavato il bel stile che mi ha fatto onore.
Guarda la bestia per paura della quale sono tornato indietro: aiutami contro di lei, famoso saggio, che essa mi fa tremare le vene e i polsi».
«Ti conviene percorrere un’altra via» mi rispose vedendomi piangere, «se vuoi sopravvivere a questo luogo selvaggio:
perché questa bestia, a causa della quale gridi soccorso, non lascia che nessuno passi sulla sua strada, anzi, glielo impedisce fino a farlo morire;
essa ha una natura così malvagia e crudele, che non sazia mai la sua voglia bramosa, e dopo aver mangiato ha più fame di prima.
Molti sono gli uomini a cui si accoppia e saranno ancora di più, fino a quando verrà un veltro [cane da caccia], che la farà morire dolorosamente.
Questo non si nutrirà né di terre né di monete, bensì di sapienza, amore e virtù [cioè di Dio, nella sua Trinità] e la sua origine avverrà nel feltro [un panno semplice e povero].
Sarà salutare per quell’umile Italia, per la quale morì per le ferite la vergine Camilla, ed Eurialo e Turno e Niso [tutti personaggi di eroi morti nella guerra che Enea combatté per conquistare il Lazio].
Questo la caccerà da ogni città, finché l’avrà rimessa in quell’inferno, da cui l’ha fatta uscire l’invidia [di Lucifero contro Dio]
Perciò io per il tuo meglio penso e giudico che tu mi segua, e io sarò tua guida, e ti porterò da qui in luogo eterno [l’Inferno],
dove udrai le strida disperate, vedrai gli antichi spiriti addolorati, che tutti implorano la seconda morte [non è chiaro ciò che Dante intenda: la morte definitiva dopo il giudizio universale?];
e vedrai coloro che sono contenti di stare nel fuoco [del Purgatorio], perché sperano di giungere, quando sarà il momento, tra i beati [in Paradiso].
Se vorrai arrivare ad essi, un’altra anima sarà più degna di me a condurti da loro: con lei ti lascerò quando me ne andrò;
perché l’imperatore che regna lassù [Dio], dato che io fui ribelle alla sua legge [essendo Virgilio pagano e non cristiano], non vuole che io venga nella sua città,
egli impera ovunque e in questa città è re; qui [in Paradiso] c’è la sua città e il suo alto trono: oh felice colui che è ammesso a entrarvi!»
E io a lui: «Poeta, io ti prego per quel Dio che non hai conosciuto, affinché io sfugga al mio male e peggio [alla dannazione],
che tu mi conduca dove ora mi hai detto, cosicché io veda la porta di san Pietro e coloro che tu descrivi così tanto mesti».
Allora egli si mosse e io gli andai dietro.

TRAMA IN SINTESI:
Quando avevo 35 anni, cioè nell’anno 1300, esattamente all’inizio della primavera, mi capitò di trovarmi sperduto in mezzo a una foresta, poiché avevo smarrito la giusta via. Fu terribile e se ci ripenso, ne provo ancora una grande paura. Ma non vi ho trovato solo brutte cose. So che a un certo punto mi trovai ai piedi di un colle e, guardando in alto, vidi che il sole ne illuminava la cima; ciò mi diede conforto, come uno che sta per naufragare e finalmente arriva sulla riva del mare. Ma ecco che, appena iniziai la scalata di quel colle, mi si parò davanti una lonza, che mi impediva di passare; data la bella stagione, io pensai che avrei potuto superarla, ma subito mi accorsi che c’era anche un leone, che sembrava volesse mangiarmi. E subito dopo vidi una lupa, così avida nella sua magrezza, che io mi disperai, come succede a chi, avido di ogni cosa, si trova a perdere tutto. Cominciai a retrocedere, ma all’improvviso comparve qualcuno che pareva quasi un fantasma. «Aiutami», gridai, «chiunque tu sia, uomo od ombra!». Egli mi rispose che non era più un uomo, ma lo era stato: era figlio di mantovani, era vissuto ai tempi di Giulio Cesare e di Augusto, era stato poeta e aveva raccontato le gesta di Enea, dopo la distruzione di Troia. Allora capii che avevo davanti a me Virgilio, il poeta che più amavo, colui da cui avevo imparato a scrivere versi. Gli dissi, pieno di rispetto, che mi aiutasse contro quella bestia che tanto mi impauriva ed egli mi rispose: «Ti conviene prendere un’altra strada, perché questa bestia non lascia passare nessuno. Essa morirà solo il giorno in cui comparirà sulla terra qualcuno che non sia avido né di potere né di ricchezze, bensì di Dio, che è sapienza, amore e virtù; qualcuno di umili origini, che caccerà quella bestia nell’inferno da cui è uscita. Perciò io sono qui: ti farò da guida nel regno eterno della disperazione, l’Inferno, e nel regno del Purgatorio, dove stanno le anime di coloro che un giorno saliranno tra i beati. E se tu, poi, vorrai vedere anche quelli, ci vorrà un’altra anima che ti accompagni, dato che io non ci posso venire, poiché in vita non fui cristiano». Io allora gli chiesi di condurmi fino alle porte del Paradiso e, siccome egli si mosse, io lo seguii.

ALLEGORIE:
LA SELVA OSCURA = lo stato di ignoranza e di corruzione dell’umanità, la vita peccaminosa di Dante ma anche di tutti noi, che abbiamo dimenticato il fine ultimo per cui siamo stati creati, cioè la felicità di tendere a Dio, anche per colpa del potere religioso e di quello politico, che da quel fine ci hanno allontanato.
IL COLLE ILLUMINATO DAL SOLE = il contrario della selva, cioè la vita virtuosa e ordinata, illuminata dalla Grazia divina
LE TRE FIERE = sono altrettanti peccati che ostacolano sia Dante nel pentimento per i suoi peccati, sia l’umanità nel raggiungimento di un ordine politico e morale veramente cristiano. I commentatori antichi vedono nella lonza la lussuria, nel leone la superbia, nella lupa l’avarizia: i primi due vizi particolarmente sentiti da Dante come suoi propri, mentre il terzo visto come la causa più profonda della corruzione sociale

IL VELTRO = l’antidoto all’avarizia e alla cupidigia, capace di riportare ordine e giustizia nel mondo, in particolare in Italia, dove la Chiesa ha perduto la sua pura missione spirituale e la sua povertà evangelica, per seguire l’avidità e la ricchezza.

domenica 4 dicembre 2016

26 Aleandro Corona (di Mario Spinella)




Nel marzo 1944 Mario Spinella viene arrestato e condotto alle prigioni di Firenze. Qui incontra vari personaggi, tra fascisti e partigiani. In questo brano parla di un pastore sardo, che viene arrestato come disertore, per essere scappato dall’esercito dopo l’8 settembre 1943, come fecero quasi tutti i soldati italiani, stanchi di una guerra che non capivano. Spinella, nel libro “Memoria della Resistenza”,  lo descrive con poche, rapide pennellate, che ne evidenziano la tragica sorte e mettono in risalto la barbarie della mentalità fascista.

Firenze, marzo 1944
Avevamo appena finito di mangiare, ieri, quando la porta della cella si aperse e la guardia fece entrare un giovane basso e tarchiato, dal viso largo, le mani robuste.
Indossava un paio di pantaloni corti, scarpacce militari, una stinta camicia grigia. Era spaurito e il primo sguardo che ci diede fu di diffidenza.
Emilio (1) era il più bravo in queste cose, e gli rivolse subito la parola. Il ragazzo era sardo, si chiamava Aleandro Corona, e, con Emilio, intrecciarono subito un fitto dialogo nel loro dialetto. Poi Corona racconto di sé: l’otto settembre si era trovato a Firenze, aveva gettato i panni militari e si era rifugiato nel Mugello. Un mezzadro gli aveva dato lavoro nella sua terra – una buona terra, facile da lavorare, diceva Corona – e lì aveva vissuto tranquillo fino ad allora. Erano stati mesi buoni, i migliori che avesse mai avuto: il lavoro non era pesante, e c’era da mangiare quanto bastava. Aveva fatto amicizia con i giovani del luogo, e la sera, all’osteria, gli offrivano volentieri del vino perché parlasse della Sardegna. Non che avesse molto da raccontare: ancora bambino lo avevano mandato in montagna con un cane, un sacchetto di pane, una forma di pecorino, a guardare gli animali. Quella del pastore era una vita dura: mangiare poco o niente, dormire per terra, il più delle volte, quando non si trovava una grotta, all’aperto. Non c’era niente di strano se si prendeva l’abitudine di parlare con i cani e le pecore, se la mente vagava in una specie di torpore. E non c’era niente di strano se Corona era restato analfabeta, e, come lui diceva, nei primi tempi che lo avevano chiamato militare non sapeva neanche parlare. Le armi, invece, già le conosceva, e dopo due mesi lo avevano mandato in Albania. In caserma, non si stava male: c’era il rancio, vestire pulito, la paga. Anche in guerra – nei primi tempi – si campava: un colonnello se l’era preso come attendente (2), e tutto andava liscio. Poi un giorno, su una strada di montagna, l’automobile in cui stava con il colonnello era saltata su una mina. Si era trovato sporco di sangue, di terra, di midollo, senza capire più niente. Uno che era con loro urlava, gli altri erano morti: lui, Corona, non si era fatto niente. Ma lo avevano mandato in linea, dove c’erano morti vicino a lui ogni giorno, e spesso non si mangiava e non si dormiva. I greci sembravano pastori come lui; e un giorno, mentre stava per colpirne uno con la baionetta, gli aveva visto gli occhi dolci, come quelli di una pecora, e si era fermato.
Era stato, con gli altri, in Grecia, dove si prendeva una donna con mezza pagnotta, poi lo avevano rispedito in Italia. E ora, mentre lavorava tranquillo nei campi, i fascisti l’avevano trovato. Dicevano che era un disertore, e l’avevano portato in prigione. Dicevano anche che lo avrebbero ammazzato insieme con gli altri di Vicchio (3). Aveva spiegato che non sapeva nulla: l’otto settembre tutti erano scappati, e così aveva fatto anche lui. Se c’era da andare ancora soldato era pronto: che era quella storia di ammazzarlo? Aveva fatto il suo dovere, la guerra, era un uomo onesto: perché dovevano ammazzarlo?
Gli dissi che poteva stare tranquillo: io ero disertore quanto lui, e in più mi accusavano di essere comunista, ma ormai era quasi un mese che ero dentro, e nessuno parlava di ammazzarmi.
«Ma voi, - mi disse Corona – siete un signore, e vi sapete difendere».
Emilio cercò di spiegargli che questo non c’entrava: eravamo tutti nella stessa barca e i fascisti, se era per questo, non guardavano in faccia a nessuno. Ma Corona era ostinato: «Voi siete signori» continuava a ripetere.
La sera non toccò quasi cibo; gli offrimmo per confortarlo il meglio che avevamo: salame, formaggio, un dolce di riso. Non voleva mangiare, se ne stava in un angolo, rannicchiato, con gli occhi sbarrati, e così rimase tutta la notte, sino a quando, nel buio, non sentimmo aprire la cella. Venivano a prendere Corona, oramai rassegnato a morire. Nessuno di noi pensava che fosse vero; forse lo portavano in una caserma.
Ma oggi la voce del carcere (4) non ci lascia più dubbi: hanno davvero ammazzato Aleandro Corona, con altri ragazzi contadini di Vicchio, sorpresi, in un rastrellamento, a coltivare la terra, condannati a morte per diserzione, fucilati.

1) Emilio = un altro partigiano in carcere con Mario Spinella
2) attendente = soldato addetto al personale servizio di un ufficiale in tempo di guerra
3) Vicchio = comune della provincia di Firenze
4) la voce del carcere = le notizie che, in un carcere, girano oralmente da una cella all’altra


Il Lungarno fiorentino nell’agosto 1944


25 Allegria di servi (di Mario Spinella)




Anche in questo brano tratto da “Memoria della Resistenza” Mario Spinelli sottolinea tutto il suo disprezzo per i fascisti, servi dei tedeschi, di essi paurosi. E contrappone a loro le certezze degli uomini e delle donne della Resistenza, che, nell’ombra, stanno preparando pericolosamente il riscatto di Firenze e dell’Italia.

Firenze, febbraio 1944

Di giorno in giorno Firenze appare di più come una città assediata: le sue strade, che ricordavo gaie nei miei viaggi da Pisa, ora si svuotano presto. La gente non esce di casa se non per necessità, le vetrine si sguarniscono, i cinema sono deserti. Nei grande caffè di piazza Vittorio, a certe ore del giorno, i camerieri si aggirano come spettri, e solo la rissosa allegria dei fascisti fa correre il vino e i liquori.
Anche la vita familiare, entro le mura, non più sicure, delle case si fa squallida e chiusa: ognuno combatte la sua piccola lotta per procacciare il cibo a sé e ai figli; fa freddo nelle stanze, e si va a letto al tramonto per tentare di scaldarsi, almeno, sotto le coperte. Molti vivono clandestinamente, con falso nome, false carte, effimeri domicili; e vi è anche chi non esce da mesi, chi è nascosto in un abbaino, in una cantina, tra i profughi e gli sfollati di Palazzo Pitti e delle caserme fuori uso.
Circolano voci di arresti, di prelevamenti, di perquisizioni, non si parla con chi non si conosca bene, non ci si incontra più se non in giro ristretto e fidato. Persino i ragazzi delle scuole sono diversi, e mi ricordano gli studenti di Karkov o di Kupjansk (1) che si recavano a lezione con gli occhi bassi, i libri sotto il cappotto, ad uno ad uno, come per non dare nell’occhio, per scomparire.
In questo raggelarsi e intristirsi della città, i più squallidi e tetri sono i fascisti: ostentano sempre una falsa sicurezza, una falsa allegria. Fingono di non accorgersi che l’odio sale, come il freddo della morte, intorno a loro. Urlano, sbracati, nelle grandi piazze, entrano nei bar e nelle osterie in gruppi compatti, squadrano le donne con occhi avidi, gli uomini con disprezzo e ironia. Ma non è difficile scorgere che la loro è un’allegria di servi, o di lacchè (2), sotto il duro sguardo tedesco. E preferiscono, i tedeschi, non incontrarli: richiudono la porta di un caffè se ne vedono qualcuno, cambiano strada allo spuntare di una pattuglia di Feldgendarmerie (3), tacciono se si trovano in loro presenza. Mai mi è accaduto di scorgere tra questi uomini in uniforme che pure si battono sotto le stesse insegne, un momento di cordialità e di cameratismo. E se ciò poteva non essere insolito negli anni in cui si era casualmente soldati sullo stesso fronte, se sempre una barriera profonda ci aveva separato in Russia o in Jugoslavia – tra i volontari di Salò (4) e l’esercito occupante questo totale distacco acquistava altri significati. Mi ricordava lo spregio senza limiti con cui un ufficiale tedesco mi aveva parlato un giorno, a Karkov, dei pochi ucraini che si erano posti al loro servizio, e di quanto invece egli ammirasse il valore dei resistenti (5) anche se, come mi aveva detto «ai primi devo dare cibo e denaro, ai secondi la tortura e la morte». E nulla mi appariva più al di fuori della ragione che il continuo parlare di onore dei servi repubblichini di fronte ai quali i tedeschi, bene o male, pur rappresentavano una diversa, per quanto abominevole, realtà.
In questo deserto che era Firenze, come punti di luce reconditi tra le sue mura, si accendevano i fuochi della resistenza. Forse in quella casa davanti a cui ora passa, e si arresta, una pattuglia, c’è una tipografia clandestina, o qualcuno verga un volantino, o un fabbro prepara i chiodi a tre punte (6), un chimico le miscele esplosive. Quell’uomo che zoppica, con l’aria smunta, le scarpe scalcagnate, ha in tasca un foglio ciclostilato, quell’altro una pistola o una bomba. La ragazza ben vestita nasconde nella borsetta un messaggio da recapitare, l’operaio che esce dalla fabbrica si affretta a una riunione (7). Persino questo ragazzo coi pantaloni corti, che fischietta sul Lungarno spingendo un triciclo, entro la cassa di bottiglie vuote può avere un cliché o una colonna di piombo (8) dei nostri giornali, e quell’altro che si trascina a fatica un sacco di stracci, amorosamente avvolta nel mezzo del mucchio forse ha un’arma che deve portare a un amico, che penserà poi, talvolta in una lunga catena, a farla arrivare in montagna (9).
Di questa vita elementare e nuda vive Firenze; e noi in essa, con il nostro assillante pensiero, e talvolta la fierezza, altre la paura, la nostra fame, il nostro dolore; ma più di tutto la speranza, la certezza che stiamo facendo l’unica cosa che è giusto fare.

1) Karkov e Kupjansk = città dell’Ucraina, che Spinella conobbe durante la campagna di Russia del 1942
2) lacchè = persona pronta a manifestazioni di servile ossequio (come i domestici in livrea che precedevano o seguivano per strada i loro padroni)
3) Feldgendarmerie = la polizia militare dell’esercito tedesco, fino alla Seconda guerra mondiale
4) volontari di Salò = i sostenitori e seguaci della Repubblica Sociale Italiana, guidata da Mussolini ma voluta da Hitler, che governò l’Italia occupata dal settembre 1943 all’aprile 1945. Più avanti sono chiamati con il termine repubblichini
5) resistenti = in questo caso sono coloro che si erano opposto all’invasione tedesca dell’Ucraina tra il 1941 e il 1944
6) chiodi a tre punte = vedi la nota nel brano 24
7) ovviamente è una riunione clandestina, dei partigiani, o di un partito antifascista
8) cliché e colonna di piombo = strumenti per stampare un volantino o un giornale
9) cioè ai partigiani che operano in montagna


Soldati tedeschi a Firenze nel 1943




24 Il tedesco e il fascista (di Mario Spinella)




In questo brano, tratto da “Memoria della Resistenza”, l’autore descrive i suoi diversi sentimenti nei riguardi dei fascisti, che hanno portato l’Italia alla dittatura e alla seconda guerra mondiale, e dei tedeschi, che l’hanno occupata dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Ma si chiede, con incredibile capacità critica, per quanto ancora l’Italia potrà essere ammorbata dalla mentalità fascista, che ispira i comportamenti osservati per le strade di Firenze e che qui descrive, con pochi ma efficaci tratti.

Firenze, novembre 1943

È cominciata in pieno per me l’esperienza della doppia vita, una singolare esperienza che molti uomini della Resistenza conoscono e, al ricordo, appare densa di eventi, tesa e felice. Ogni giorno si apre con un programma preciso e rigoroso, ma è insieme aperto all’imprevisto. Ogni sera si compie un bilancio i cui fili si intrecciano in una partita doppia di apparenza e realtà. Apparenza è il vivere ed il muoversi come gli altri, discutere di futilità, sedere al tavolo di un ristorante, rievocare, con mio padre, eventi lontani.
Ma mio padre, le vetrate degli alberghi e dei ristoranti, il tepore della biblioteca, il rosso dei tramonti, tutto ciò, giorno dopo giorno, è come lo sfondo eguale e indistinto sul quale prende corpo l’immagine vera della mia vita: gli incontri rapidi, lo scambio di una notizia o di un giornale, la visita alla fucina di campagna dove si forgiano i chiodi a tre punte (1), la rete sempre più fitta e continua che si stende su Firenze, e i cui nodi andiamo faticosamente stringendo quartiere per quartiere, strada per strada, onde avvolgerne, a sua insaputa, il tedesco e il fascista.

Il tedesco e il fascista: quale ignobile conclusione, per l’esasperato nazionalismo di quest’ultimo, fare da servo agli stranieri nella caccia agli italiani. Conosco troppo bene i tedeschi per riuscire ad odiarli, e troppo bene i fascisti per riuscire ad odiarli. Ma i sentimenti che gli uni e gli altri mi suscitano sono tuttavia diversi. I tedeschi sono una grande macchina irrazionale che ruota e macina, ben oleata, in un flusso continuo. Il problema, con loro, è di inceppare questa macchina, di immettere un pugno di sabbia nei suoi meccanismi e nei suoi ingranaggi: altro, per ora, non possiamo fare. Ma a un automa si guarda senza ira; lo si affronta e si lotta per scomporlo nelle sue parti e renderlo innocuo, come innocui, e per certi aspetti patetici, così sovente avevo visto i singoli tedeschi, con i loro irrisolti abissi di orgoglio e di frustrazione nella vita di ogni giorno, con la loro inettitudine a cavarsela, a salvarsi, dopo la sconfitta sul Don (2).
I fascisti no: essi mi appaiono come insetti striscianti, che si nutrono delle gocce di grasso che la macchina dell’esercito tedesco lascia cadere. Proprio perché sono individui, e sordidi individui per lo più, occorre schiacciarli ad uno ad uno, come si calpesta uno scarafaggio od un verme – con un senso di ribrezzo. E poi, i tedeschi sono stranieri, finiranno per tornarsene a casa loro. I fascisti sono qui, e qui rimarranno a contaminare, sordida lebbra, la nostra stessa vita. Li ritroveremo, con il sorriso o con la grinta, sul pianerottolo di casa nostra, ci urteranno negli autobus o nei tram, ci sederanno accanto al cinematografo. Stolidi e furbi, si rintaneranno nelle cellule del corpo della nazione, di nuovo, poco a poco, potranno farla marcire.

Ne vedo un gruppo, questo pomeriggio, al “Grande Italia”. Se ne stanno a gambe larghe, stivaloni ed orbace (3), aquile e pendagli (4), sulle loro sedie, a godersi il sole novembrino. I tavolini sono colmi di bottiglie e bottigliette; quando passa una donna urlano e ammiccano. A un tratto uno si alza, va incontro a una biondina impacciata, una ragazzetta; quella tenta di sfuggire, il fascista la afferra ai polsi, le cerca la bocca, ma la biondina, con uno strappo, si libera. Il fascista le fa un gestaccio e tutti ridono sgangherati. La gente guarda e tace.
Ed eccone un altro entrare con aria prepotente e furtiva in una salumeria. Si avvicina al banco, chiede del padrone, questo arriva pulendosi le mani nel grembiule. Non sento che cosa si dicono, ma il fascista passa nel retrobottega; dopo un poco ne esce con un involto che, dalla forma, si palesa per un grosso salame. «Potete stare tranquillo» dice al padrone. Come lo avrà ricattato, quale insulsa minaccia avrà rivolto? Quando esce, il salumiere mi guarda e allarga le braccia.
Ma il luogo dove sembra convergere la vitalità dei fascisti è il bordello (5). Ce n’è uno sulla strada che mi porta a casa, e sempre una frotta di militi sembra sorvegliarne la porta. Urlano e schiamazzano, si chiamano per nome, si domandano com’è andata. «Vieni giù» gridano a una donna che appare per un momento alla finestra di fronte. Una sera, doveva essere un loro scherzo, tra i militi scorsi un’ausiliaria (6) con la gonna nera, il basco, un alto cinturone. Erano fermi davanti all’uscio, sotto la luce rossa, e confabulavano; infine si decisero a suonare ed entrarono tutti insieme, la donna in mezzo, cui un segno di esitazione restituì, presto cancellato, un bagliore di dignità.
Verso costoro non c’è odio in me, ma disprezzo, e il senso che la nostra battaglia è, insieme che politica, anche morale; più ancora profonda la consapevolezza che, al di là dello stesso Fascismo, questa muta meschina ed urlante rimarrà a lungo nelle case, nelle strade, negli uffici, nei bar, intorno a noi. Quanto occorrerà per liberarla della sua miseria? Ma certo, prima di allora, ancora ci soffocherà, forse prevarrà, inserita nella società emersa dalla guerra e dalla Resistenza.

1) chiodi a tre punte = dispositivi formati da un chiodo metallico a quattro punte, disposto in modo che tre facciano da basamento e una sia sempre rivolta verso l’alto; venivano usati, dopo averli disseminati su una strada, per forare gli pneumatici dei veicoli militari nemici. Si chiamano anche piedi di corvo, o triboli
2) Don = il Don è un fiume della Russia, lungo il cui corso mediano nel 1942 tedeschi e italiani subirono una pesante sconfitta da parte dell’esercito russo, che portò alla liberazione della città di Stalingrado. Mario Spinella vi aveva partecipato, in quanto militare dell’esercito italiano
3) orbace = tessuto di lana, dal filato irregolare, tipico della Sardegna, che durante il fascismo indicava la divisa (fatta appunto con quel tessuto) indossata dai militi di quel partito
4) aquile e pendagli = sono le varie decorazioni che i militi fascisti ostentavano sulle loro divise
5) bordello = casa in cui le prostitute esercitavano il loro mestiere. In Italia vennero soppressi nel 1958, in seguito alla battaglia per la loro chiusura portata avanti dalla senatrice socialista Lina Merlin
6) ausiliaria = donna che lavorava come volontaria in un corpo militarizzato della Repubblica Sociale Italiana negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale, con compiti di soccorso infermieristico o di altra natura


Un gruppo di militi fascisti in orbace: Spinella li definisce “insetti striscianti” da schiacciare “con un senso di ribrezzo”




martedì 29 novembre 2016

23 Orlando furioso - Canto trentesimoquarto: ottave 69-86 (di Ludovico Ariosto)


ASTOLFO SULLA LUNA

Astolfo, paladino allegro e balzano, s’impossessa dell’ippogrifo; con esso e con l’appoggio di san Giovanni Evangelista, sale sulla luna, dove trova il senno perduto d’Orlando. Infatti sulla luna vanno a finire tutte le cose labili ed effimere che inseguiamo nella nostra vita e che sono tutte vanità. E soprattutto lassù c’è il cervello degli uomini, racchiuso in ampolle con tanto di nome e di cognome. L’unica cosa che manca è la pazzia, poiché essa dimora stabilmente sulla terra.

69
Quattro destrier via più che fiamma rossi
al giogo il santo evangelista aggiunse;
e poi che con Astolfo rassettossi,
e prese il freno, inverso il ciel li punse.
Ruotando il carro, per l’aria levossi,
e tosto in mezzo il fuoco eterno giunse;
che ’l vecchio fe’ miracolosamente,
che, mentre lo passar, non era ardente.
70
Tutta la sfera varcano del fuoco,
ed indi vanno al regno de la luna.
Veggon per la più parte esser quel loco
come un acciar che non ha macchia alcuna;
e lo trovano uguale, o minor poco
di ciò ch’in questo globo si raguna,
in questo ultimo globo de la terra,
mettendo il mar che la circonda e serra.
71
Quivi ebbe Astolfo doppia meraviglia:
che quel paese appresso era sì grande,
il quale a un picciol tondo rassimiglia
a noi che lo miriam da queste bande;
e ch’aguzzar conviengli ambe le ciglia,
s’indi la terra e ’l mar ch’intorno spande,
discerner vuol; che non avendo luce,
l’imagin lor poco alta si conduce.
72
Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
sono là su, che non son qui tra noi;
altri piani, altre valli, altre montagne,
c’han le cittadi, hanno i castelli suoi,
con case de le quai mai le più magne
non vide il paladin prima né poi:
e vi sono ample e solitarie selve,
ove le ninfe ognor cacciano belve.
73
Non stette il duca a ricercar il tutto;
che là non era asceso a quello effetto.
Da l’apostolo santo fu condutto
in un vallon fra due montagne istretto,
ove mirabilmente era ridutto
ciò che si perde o per nostro diffetto,
o per colpa di tempo o di Fortuna:
ciò che si perde qui, là si raguna.
74
Non pur di regni o di ricchezze parlo,
in che la ruota instabile lavora;
ma di quel ch’in poter di tor, di darlo
non ha Fortuna, intender voglio ancora.
Molta fama è là su, che, come tarlo,
il tempo al lungo andar qua giù divora:
là su infiniti prieghi e voti stanno,
che da noi peccatori a Dio si fanno.
75
Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desideri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.
76
Passando il paladin per quelle biche,
or di questo or di quel chiede alla guida.
Vide un monte di tumide vesiche,
che dentro parea aver tumulti e grida;
e seppe ch’eran le corone antiche
e degli Assiri e de la terra lida,
e de’ Persi e de’ Greci, che già furo
incliti, ed or n’è quasi il nome oscuro.
77
Ami d'oro e d’argento appresso vede
in una massa, ch’erano quei doni
che si fan con speranza di mercede
ai re, agli avari principi, ai patroni.
Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede,
ed ode che son tutte adulazioni.
Di cicale scoppiate imagine hanno
versi ch’in laude dei signor si fanno.
78
Di nodi d’oro e di gemmati ceppi
vede c’han forma i mal seguiti amori.
V’eran d’aquile artigli; e che fur, seppi,
l’autorità ch’ai suoi danno i signori.
I mantici ch’intorno han pieni i greppi,
sono i fumi dei principi e i favori
che danno un tempo ai ganimedi suoi,
che se ne van col fior degli anni poi.
79
Ruine di cittadi e di castella
stavan con gran tesor quivi sozzopra.
Domanda, e sa che son trattati, e quella
congiura che sì mal par che si cuopra.
Vide serpi con faccia di donzella,
di monetieri e di ladroni l’opra:
poi vide bocce rotte di più sorti,
ch’era il servir de le misere corti.
80
Di versate minestre una gran massa
vede, e domanda al suo dottor ch’importe.
- L’elemosina è (dice) che si lassa
alcun, che fatta sia dopo la morte.
Di vari fiori ad un gran monte passa,
ch’ebbe già buono odore, or putia forte.
Questo era il dono (se però dir lece)
che Costantino al buon Silvestro fece.
81
Vide gran copia di panie con visco,
ch’erano, o donne, le bellezze vostre.
Lungo sarà, se tutte in verso ordisco
le cose che gli fur quivi dimostre;
che dopo mille e mille io non finisco,
e vi son tutte l’occurrenze nostre:
sol la pazzia non v’è poca né assai;
che sta qua giù, né se ne parte mai.
82
Quivi ad alcuni giorni e fatti sui,
ch’egli già avea perduti, si converse;
che se non era interprete con lui,
non discernea le forme lor diverse.
Poi giunse a quel che par sì averlo a nui,
che mai per esso a Dio voti non ferse;
io dico il senno: e n’era quivi un monte,
solo assai più che l’altre cose conte.
83
Era come un liquor suttile e molle,
atto a esalar, se non si tien ben chiuso;
e si vedea raccolto in varie ampolle,
qual più, qual men capace, atte a quell’uso.
Quella è maggior di tutte, in che del folle
signor d’Anglante era il gran senno infuso;
e fu da l’altre conosciuta, quando
avea scritto di fuor: Senno d’Orlando.
84
E così tutte l’altre avean scritto anco
il nome di color di chi fu il senno.
Del suo gran parte vide il duca franco;
ma molto più maravigliar lo fenno
molti ch’egli credea che dramma manco
non dovessero averne, e quivi dénno
chiara notizia che ne tenean poco;
che molta quantità n’era in quel loco.
85
Altri in amar lo perde, altri in onori,
altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze;
altri ne le speranze de’ signori,
altri dietro alle magiche sciocchezze;
altri in gemme, altri in opre di pittori,
ed altri in altro che più d’altro aprezze.
Di sofisti e d’astrologhi raccolto,
e di poeti ancor ve n’era molto.
86
Astolfo tolse il suo; che gliel concesse
lo scrittor de l’oscura Apocalisse.
L’ampolla in ch’era al naso sol si messe,
e par che quello al luogo suo ne gisse:
e che Turpin da indi in qua confesse
ch’Astolfo lungo tempo saggio visse;
ma ch’uno error che fece poi, fu quello
ch’un'altra volta gli levò il cervello.

PARAFRASI:

69
Il santo Evangelista [san Giovanni] aggiunse al giogo quattro destrieri rossi più d’una fiamma e dopo essersi sistemato con Astolfo sul carro e aver preso le redini, li spronò verso il cielo: ruotando il carro si levò per aria e giunse subito in mezzo al fuoco eterno [la sfera del fuoco che, si credeva, circondasse la Terra], che miracolosamente il Vecchio fece sì che non fosse ardente, mentre lo attraversavano.
70
Varcano tutta la sfera del fuoco e quindi vanno nel regno della luna; vedono che quel luogo è per la maggior parte come un acciaio senza alcuna macchia: e lo trovano uguale o poco meno grande di quanto sia la superficie di questo globo, questo infimo globo della terra, comprendendovi il mare che lo circonda e lo racchiude.
71
Qui Astolfo vi ebbe una doppia meraviglia; che quel paese, che assomiglia a un piccolo tondo a noi che lo guardiamo da questa parte, visto da vicino era così grande: e gli conviene aguzzare entrambi gli occhi, se vuole distinguere la terra e il mare che vi si spande attorno; poiché, non avendo luce propria, la loro immagine non arriva così in alto [La doppia meraviglia di Astolfo consiste nel fatto che la luna, che a noi sembra piccola, vista da vicino è enorme e la terra, vista dalla luna, ci appare piccola, tanto da non distinguere ciò che vi si trova sulla superficie]
72
Ben altri fiumi, altri laghi, altre montagne vi sono lassù, diversi da quelli che ci sono qui tra noi; altre pianure, altre valli, altre campagne, piene di città e di propri castelli, con case che mai il paladino ne vide di più grandi né prima né poi: e vi sono selve ampie e solitarie, dove le Ninfe cacciano le belve di continuo.
73
Il duca non stette a esplorare tutto quanto, dato che non era salito lassù con questo scopo. Fu condotto dal santo Apostolo in una valle stretta tra due montagne, dove era miracolosamente raccolto ciò che noi perdiamo per colpa nostra, o per colpa del tempo o della Fortuna: ciò che noi perdiamo qui [sulla Terra], là si raccoglie.
74
Non parlo solo di regni o di ricchezze, sui quali agisce la ruota instabile [della Fortuna]; ma di ciò che la Fortuna non ha in potere di togliere o di dare, voglio intendere. Lassù vi è molta fama, che, come un tarlo il tempo quaggiù divora a lungo andare: lassù stanno infinite preghiere e voti, che si fanno a Dio da noi peccatori.
75
Le lacrime e i sospiri degli amanti, il tempo inutile che si perde nel gioco e l’ozio completo in cui vivono gli uomini ignoranti, i vani progetti che non hanno mai effetto, i vani desideri sono così tanti, che ingombrano la maggior parte di quel luogo: insomma ciò che quaggiù avessi perso, potresti ritrovare salendo lassù.
76
Passando il paladino tra quei mucchi, ora di questo ora di quello chiede alla sua guida. Vide un monte di vesciche gonfie, che sembrava avesse dentro tumulti e grida; e seppe che erano le antiche corone [regni] degli Assiri, della Lidia, dei Persiani e dei Greci, che furono famosi un tempo ed ora il loro nome è quasi sconosciuto.
77
Poi vede in massa ami d’oro e d’argento, che erano quei doni che si fanno con la speranza di riceverne ricompensa ai re, ai principi avari, ai protettori. Vede in ghirlande lacci nascosti; e chiede e ode che sono tutte adulazioni. Hanno l’aspetto di cicale scoppiate [per il troppo cantare] i versi che si fanno in lode dei signori.
78
Vede che gli amori sfortunati hanno forma di nodi d’oro e di ceppi gemmati. V’erano artigli d’aquile, che furono, seppi, l’autorità che i signori concedono ai loro seguaci. I mantici di cui sono pieni i pendii intorno sono gli onori vani dei principi e i favori che un tempo diedero ai loro favoriti, che svaniscono poi col fiore degli anni [= con il passar del tempo].
79
Rovine di città e di castelli stavano con grandi tesori qui sottosopra. Domanda e viene a sapere che sono trattati [violati] e congiure scoperte. Vide serpenti con volti di fanciulle, che sono l’opera dei falsari di moneta e dei ladroni: poi vide bocce rotte di diversi tipi, che erano il servilismo delle misere corti [i signori le gettano via, quando non servono più, come fanno dei loro cortigiani].
80
Vede una gran massa di minestre rovesciate e domanda alla sua guida che cosa significa. – È l’elemosina (dice) che si fa dopo esser morti [Intende le elemosine che si lasciano per testamento e che risultano inutili, poiché gli eredi non le fanno. Ma può significare anche le elemosine fatte in punto di morte per paura dell’inferno e che quindi sono poco meritorie] – Passa accanto a un gran monte di vari fiori, che aveva un buon odore prima ed ora puzzava assai. Questo era il dono (se mi è lecito dir così) che Costantino fece al buon Silvestro [si riferisce alla famosa donazione di Roma fatta dall’imperatore Costantino a papa Silvestro, da cui ebbe origine il potere temporale dei papi; donazione che al tempo dell’Ariosto era già risultata falsa].
81
Vide un gran numero di panie con il vischio [= sostanze vischiose che servivano per catturare gli uccelli] che erano, o donne, le vostre bellezze. Sarebbe lunga, se volessi mettere in versi le cose che qui gli furono mostrate; che dopo mille e mille non avrei ancor finito e in pratica vi è tutto ciò di cui abbiamo bisogno: solo la pazzia non c’è né poca né molta; perché essa sta tutta quaggiù [sulla Terra] e non se ne va mai via.
82
Qui Astolfo si rivolse ad alcuni giorni e alcune azioni ch’egli aveva perduto; ma, se non ci fosse stato con lui un interprete [cioè la sua guida, san Giovanni], lui non li avrebbe riconosciuti date le loro strane forme. Poi giunse a quella cosa che a tutti noi sembra di possedere, tanto che mai facciamo voti a Dio per averla; parlo del senno; e qui ce n’era una montagna, assai più di tutto le altre cose raccontate.
83
Era come un liquore sottile e molle [= leggero e sfuggente], pronto ad evaporare, se non si tiene ben chiuso; lo si vedeva raccolto in varie ampolle, alcune più alcune meno capaci, fatte proprio per quell’uso. La maggiore di tutte è quella nella quale era contenuto il grande senno del folle signore d’Anglante; e fu riconosciuta in mezzo alle altre, dal momento che fuori vi era scritto: senno d’Orlando.
84
E anche tutte le altre avevano scritto il nome di coloro di cui erano state il senno. Il duca valoroso [ma franco potrebbe significare anche francese, nel senso di “cavaliere di Francia, di Carlo Magno”, poiché Astolfo era in realtà inglese] vide una gran parte del suo senno; ma ciò che ancor più gli fece meraviglia, fu vedere che molti che egli credeva che non dovessero averne nemmeno una piccola quantità di meno, in realtà qui dimostravano chiaramente di averne assai poco; perché davvero in quel luogo ve n’era una gran quantità.
85
Alcuni lo perdono nell’amore, altri negli onori, altri nella ricerca di ricchezze correndo per il mare, altri nelle speranze riposte nei signori, altri dietro allo sciocche pratiche di magia, altri nelle gemme, altri nelle opere dei pittori, e altri in tutto ciò d’altro che apprezzino più di ogni altra cosa. Di sofisti [= filosofi] e di astrologi e di poeti ancora ve n’era raccolto assai [qui sulla luna].
86
Astolfo prese il suo; che glielo concesse colui che aveva scritto l’oscura Apocalisse [cioè san Giovanni, autore, appunto, dell’Apocalisse, l’oscura profezia sulla fine del mondo]. L’ampolla in cui era contenuto si portò soltanto al naso e pare che quello se ne andasse al suo posto [basta aspirare il senno contenuto nell’ampolla, perché – sembra – che questo torni nel cervello]; e pare che Turpino [un monaco dei tempi di Carlo Magno, presunto autore di una cronaca da cui Ariosto in vari punti del poema dice di aver ricavato informazioni – ma di solito le più inverosimili] confessi che da qui in poi Astolfo visse gran tempo saggiamente; ma che un errore che poi fece, fu quello che gli levò il cervello un’altra volta.

Astolfo sulla Luna, illustrazione di Gustave Doré