Andata in scena la prima volta al
Teatro Sant’Angelo di Venezia nel gennaio del 1753, questa commedia (concepita
nell’autunno del 1752) è tra le più note del Goldoni; essa non ebbe però grande
fortuna nel Settecento, forse perché, pur in maniera semplice e divertente,
mette in ridicolo i tre personaggi nobiliari ed esalta invece il personaggio
della locandiera, borghese, attiva e determinata a raggiungere ciò che vuole. I
tre nobili rappresentano la classe aristocratica in tre maniere differenti: il
Marchese di Forlipopoli è squattrinato e decaduto (ha dovuto vendere il suo
titolo per sopravvivere), il Conte d’Albafiorita è un mercante che si è
arricchito e che ha così potuto comperare il titolo di conte, e il Cavaliere di
Ripafratta è un aristocratico altezzoso abituato a dare ordini a chiunque e in
più è misogino: ma proprio da una donna (e per di più popolana) riceverà una
significativa lezione.
Le note al testo sono le stesse
poste dall’autore nella sua commedia.
Posto nel blog solo l’atto primo,
perché gli altri due, francamente, non mi piacciono.
PERSONAGGI
Il Cavaliere di
Ripafratta
Il Marchese di
Forlipopoli
Il Conte
d'Albafiorita
Mirandolina, locandiera
Ortensia, comica
Dejanira, comica
Fabrizio, cameriere di locanda
Servitore del Cavaliere
Servitore del Conte
La scena si rappresenta
in Firenze, nella locanda di Mirandolina.
L’AUTORE A CHI LEGGE
Fra tutte le Commedie da me
sinora composte, starei per dire essere questa la più morale, la più utile, la
più istruttiva. Sembrerà ciò essere un paradosso a chi soltanto vorrà fermarsi
a considerare il carattere della Locandiera,
e dirà anzi non aver io dipinto altrove una donna più lusinghiera, più
pericolosa di questa. Ma chi rifletterà al carattere e agli avvenimenti del
Cavaliere, troverà un esempio vivissimo della presunzione avvilita, ed una
scuola che insegna a fuggire i pericoli, per non soccombere alle cadute.
Mirandolina fa altrui vedere come
s'innamorano gli uomini. Principia a entrar in grazia del disprezzator delle donne,
secondandolo nel modo suo di pensare, lodandolo in quelle cose che lo
compiacciono, ed eccitandolo perfino a biasimare le donne istesse. Superata con
ciò l'avversione che aveva il Cavaliere per essa, principia a usargli delle
attenzioni, gli fa delle finezze studiate, mostrandosi lontana dal volerlo
obbligare alla gratitudine. Lo visita, lo serve in tavola, gli parla con umiltà
e con rispetto, e in lui vedendo scemare la ruvidezza, in lei s'aumenta
l'ardire. Dice delle tronche parole, avanza degli sguardi, e senza ch'ei se ne
avveda, gli dà delle ferite mortali. Il pover'uomo conosce il pericolo, e lo
vorrebbe fuggire, ma la femmina accorta con due lagrimette l'arresta, e con uno
svenimento l'atterra, lo precipita, l'avvilisce. Pare impossibile, che in poche
ore un uomo possa innamorarsi a tal segno: un uomo, aggiungasi, disprezzator delle
donne, che mai ha seco loro trattato; ma appunto per questo più facilmente egli
cade, perché sprezzandole senza conoscerle, e non sapendo quali sieno le arti
loro, e dove fondino la speranza de' loro trionfi, ha creduto che bastar gli
dovesse a difendersi la sua avversione, ed ha offerto il petto ignudo ai colpi
dell'inimico.
Io medesimo diffidava quasi a principio
di vederlo innamorato ragionevolmente sul fine della Commedia, e pure, condotto
dalla natura, di passo in passo, come nella Commedia si vede, mi è riuscito di
darlo vinto alla fine dell'Atto secondo.
Io non sapeva quasi cosa mi fare
nel terzo, ma venutomi in mente, che sogliono coteste lusinghiere donne, quando
vedono ne' loro lacci gli amanti, aspramente trattarli, ho voluto dar un
esempio di questa barbara crudeltà, di questo ingiurioso disprezzo con cui si
burlano dei miserabili che hanno vinti, per mettere in orrore la schiavitù che
si procurano gli sciagurati, e rendere odioso il carattere delle incantatrici
Sirene. La Scena dello stirare allora
quando la Locandiera si burla del Cavaliere che languisce, non muove gli animi
a sdegno contro colei, che dopo averlo innamorato l'insulta? Oh bello specchio
agli occhi della gioventù! Dio volesse che io medesimo cotale specchio avessi
avuto per tempo, che non avrei veduto ridere del mio pianto qualche barbara
Locandiera. Oh di quante Scene mi hanno provveduto le mie vicende medesime!...
Ma non è il luogo questo né di vantarmi delle mie follie, né di pentirmi delle
mie debolezze. Bastami che alcun mi sia grato della lezione che gli offerisco. Le
donne che oneste sono, giubileranno anch'esse che si smentiscano codeste
simulatrici, che disonorano il loro sesso, ed esse femmine lusinghiere
arrossiranno in guardarmi, e non importa che mi dicano nell'incontrarmi: che tu
sia maledetto!
Deggio avvisarvi, Lettor carissimo,
di una picciola mutazione, che alla presente Commedia ho fatto. Fabrizio, il
cameriere della Locanda, parlava in veneziano, quando si recitò la prima volta;
l'ho fatto allora per comodo del personaggio, solito a favellar da Brighella;
ove l'ho convertito in toscano, sendo disdicevole cosa introdurre senza
necessità in una Commedia un linguaggio straniero.
Ciò ho voluto avvertire, perché
non so come la stamperà il Bettinelli; può essere ch'ei si serva di questo mio originale,
e Dio lo voglia, perché almeno sarà a dover penneggiato. Ma lo scrupolo ch'ei
si è fatto di stampare le cose mie come io le ho abbozzate, lo farà trascurare anche
questa comodità.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Sala di locanda.
Il Marchese di
Forlipopoli ed il Conte d'Albafiorita
MARCHESE: Fra voi e me vi è
qualche differenza.
CONTE: Sulla locanda tanto vale
il vostro denaro, quanto vale il mio.
MARCHESE: Ma se la locandiera usa
a me delle distinzioni, mi si convengono più che a voi.
CONTE: Per qual ragione?
MARCHESE: Io sono il Marchese di
Forlipopoli.
CONTE: Ed io sono il Conte
d'Albafiorita.
MARCHESE: Sì, Conte! Contea
comprata.
CONTE: Io ho comprata la contea,
quando voi avete venduto il marchesato.
MARCHESE: Oh basta: son chi sono,
e mi si deve portar rispetto.
CONTE: Chi ve lo perde il
rispetto? Voi siete quello, che con troppa libertà parlando...
MARCHESE: Io sono in questa
locanda, perché amo la locandiera. Tutti lo sanno, e tutti devono rispettare una
giovane che piace a me.
CONTE: Oh, questa è bella! Voi mi
vorreste impedire ch'io amassi Mirandolina? Perché credete ch'io sia in Firenze?
Perché credete ch'io sia in questa locanda?
MARCHESE: Oh bene. Voi non farete
niente.
CONTE: Io no, e voi sì?
MARCHESE: Io sì, e voi no. Io son
chi sono. Mirandolina ha bisogno della mia protezione.
CONTE: Mirandolina ha bisogno di
denari, e non di protezione.
MARCHESE: Denari?... non ne
mancano.
CONTE: Io spendo uno zecchino il
giorno, signor Marchese, e la regalo continuamente.
MARCHESE: Ed io quel che fo non
lo dico.
CONTE: Voi non lo dite, ma già si
sa.
MARCHESE: Non si sa tutto.
CONTE: Sì! caro signor Marchese,
si sa. I camerieri lo dicono. Tre paoletti il giorno.
MARCHESE: A proposito di
camerieri; vi è quel cameriere che ha nome Fabrizio, mi piace poco. Parmi che la
locandiera lo guardi assai di buon occhio.
CONTE: Può essere che lo voglia
sposare. Non sarebbe cosa mal fatta. Sono sei mesi che è morto il di lei padre.
Sola una giovane alla testa di una locanda si troverà imbrogliata. Per me, se
si marita, le ho promesso trecento scudi.
MARCHESE: Se si mariterà, io sono
il suo protettore, e farò io... E so io quello che farò.
CONTE: Venite qui: facciamola da
buoni amici. Diamole trecento scudi per uno.
MARCHESE: Quel ch'io faccio, lo
faccio segretamente, e non me ne vanto. Son chi sono. Chi è di là? (chiama)
CONTE: (Spiantato! Povero e
superbo!). (da sé)
SCENA SECONDA
Fabrizio e detti.
FABRIZIO: Mi comandi, signore. (al Marchese)
MARCHESE: Signore? Chi ti ha
insegnato la creanza?
FABRIZIO: La perdoni.
CONTE: Ditemi: come sta la
padroncina? (a Fabrizio)
FABRIZIO: Sta bene,
illustrissimo.
MARCHESE: È alzata dal letto?
FABRIZIO: Illustrissimo sì.
MARCHESE: Asino.
FABRIZIO: Perché, illustrissimo
signore?
MARCHESE: Che cos'è questo
illustrissimo?
FABRIZIO: È il titolo che ho dato
anche a quell'altro Cavaliere.
MARCHESE: Tra lui e me vi è
qualche differenza.
CONTE: Sentite? (a Fabrizio)
FABRIZIO: (Dice la verità. Ci è
differenza: me ne accorgo nei conti). (piano
al Conte)
MARCHESE: Di' alla padrona che
venga da me, che le ho da parlare.
FABRIZIO: Eccellenza sì. Ho
fallato questa volta?
MARCHESE: Va bene. Sono tre mesi
che lo sai; ma sei un impertinente.
FABRIZIO: Come comanda,
Eccellenza.
CONTE: Vuoi vedere la differenza
che passa fra il Marchese e me?
MARCHESE: Che vorreste dire?
CONTE: Tieni. Ti dono uno
zecchino. Fa che anch'egli te ne doni un altro.
FABRIZIO: Grazie, illustrissimo.
(al Conte) Eccellenza... (al Marchese)
MARCHESE: Non getto il mio, come
i pazzi. Vattene.
FABRIZIO: Illustrissimo signore,
il cielo la benedica. (al Conte)
Eccellenza. (Rifinito. Fuor del suo paese non vogliono esser titoli per farsi
stimare, vogliono esser quattrini). (da
sé, parte)
SCENA TERZA
Il Marchese ed il
Conte.
MARCHESE: Voi credete di
soverchiarmi con i regali, ma non farete niente. Il mio grado val più di tutte
le vostre monete.
CONTE: Io non apprezzo quel che
vale, ma quello che si può spendere.
MARCHESE: Spendete pure a rotta
di collo. Mirandolina non fa stima di voi.
CONTE: Con tutta la vostra gran
nobiltà, credete voi di essere da lei stimato? Vogliono esser denari.
MARCHESE: Che denari? Vuol esser
protezione. Esser buono in un incontro di far un piacere.
CONTE: Sì, esser buono in un
incontro di prestar cento doppie.
MARCHESE: Farsi portar rispetto
bisogna.
CONTE: Quando non mancano denari,
tutti rispettano.
MARCHESE: Voi non sapete quel che
vi dite.
CONTE: L'intendo meglio di voi.
SCENA QUARTA
Il Cavaliere di
Ripafratta dalla sua camera, e detti.
CAVALIERE: Amici, che cos'è
questo romore? Vi è qualche dissensione fra di voi altri?
CONTE: Si disputava sopra un
bellissimo punto.
MARCHESE: II Conte disputa meco
sul merito della nobiltà. (ironico)
CONTE: Io non levo il merito alla
nobiltà: ma sostengo, che per cavarsi dei capricci, vogliono esser denari.
CAVALIERE: Veramente, Marchese
mio...
MARCHESE: Orsù, parliamo d'altro.
CAVALIERE: Perché siete venuti a
simil contesa?
CONTE: Per un motivo il più
ridicolo della terra.
MARCHESE: Sì, bravo! il Conte
mette tutto in ridicolo.
CONTE: Il signor Marchese ama la
nostra locandiera. Io l'amo ancor più di lui. Egli pretende corrispondenza,
come un tributo alla sua nobiltà. Io la spero, come una ricompensa alle mie
attenzioni. Pare a voi che la questione non sia ridicola?
MARCHESE: Bisogna sapere con
quanto impegno io la proteggo.
CONTE: Egli la protegge, ed io
spendo. (al Cavaliere)
CAVALIERE: In verità non si può
contendere per ragione alcuna che io meriti meno. Una donna vi altera? Vi scompone?
Una donna? che cosa mai mi convien sentire? Una donna? Io certamente non vi è
pericolo che per le donne abbia che dir con nessuno. Non le ho mai amate, non
le ho mai stimate, e ho sempre creduto che sia la donna per l'uomo una
infermità insopportabile.
MARCHESE: In quanto a questo poi,
Mirandolina ha un merito estraordinario.
CONTE: Sin qua il signor Marchese
ha ragione. La nostra padroncina della locanda è veramente amabile.
MARCHESE: Quando l'amo io, potete
credere che in lei vi sia qualche cosa di grande.
CAVALIERE: In verità mi fate
ridere. Che mai può avere di stravagante costei, che non sia comune all'altre donne?
MARCHESE: Ha un tratto nobile,
che incatena.
CONTE: È bella, parla bene, veste
con pulizia, è di un ottimo gusto.
CAVALIERE: Tutte cose che non
vagliono un fico. Sono tre giorni ch'io sono in questa locanda, e non mi ha
fatto specie veruna.
CONTE: Guardatela, e forse ci
troverete del buono.
CAVALIERE: Eh, pazzia! L'ho
veduta benissimo. È una donna come l'altre.
MARCHESE: Non è come l'altre, ha
qualche cosa di più. Io che ho praticate le prime dame, non ho trovato una
donna che sappia unire, come questa, la gentilezza e il decoro.
CONTE: Cospetto di bacco! Io son
sempre stato solito trattar donne: ne conosco li difetti ed il loro debole. Pure
con costei, non ostante il mio lungo corteggio e le tante spese per essa fatte,
non ho potuto toccarle un dito.
CAVALIERE: Arte, arte sopraffina.
Poveri gonzi! Le credete, eh? A me non la farebbe. Donne? Alla larga tutte
quante elle sono.
CONTE: Non siete mai stato
innamorato?
CAVALIERE: Mai, né mai lo sarò.
Hanno fatto il diavolo per darmi moglie, né mai l'ho voluta.
MARCHESE: Ma siete unico della
vostra casa: non volete pensare alla successione?
CAVALIERE: Ci ho pensato più
volte ma quando considero che per aver figliuoli mi converrebbe soffrire una
donna, mi passa subito la volontà.
CONTE: Che volete voi fare delle
vostre ricchezze?
CAVALIERE: Godermi quel poco che
ho con i miei amici.
MARCHESE: Bravo, Cavaliere,
bravo; ci goderemo.
CONTE: E alle donne non volete
dar nulla?
CAVALIERE: Niente affatto. A me
non ne mangiano sicuramente.
CONTE: Ecco la nostra padrona.
Guardatela, se non è adorabile.
CAVALIERE: Oh la bella cosa! Per
me stimo più di lei quattro volte un bravo cane da caccia.
MARCHESE: Se non la stimate voi,
la stimo io.
CAVALIERE: Ve la lascio, se fosse
più bella di Venere.
SCENA QUINTA
Mirandolina e detti.
MIRANDOLINA: M'inchino a questi
cavalieri. Chi mi domanda di lor signori?
MARCHESE: Io vi domando, ma non
qui.
MIRANDOLINA: Dove mi vuole,
Eccellenza?
MARCHESE: Nella mia camera.
MIRANDOLINA: Nella sua camera? Se
ha bisogno di qualche cosa verrà il cameriere a servirla.
MARCHESE: (Che dite di quel
contegno?). (al Cavaliere)
CAVALIERE: (Quello che voi
chiamate contegno, io lo chiamerei temerità, impertinenza). (al Marchese)
CONTE: Cara Mirandolina, io vi
parlerò in pubblico, non vi darò l'incomodo di venire nella mia camera. Osservate
questi orecchini. Vi piacciono?
MIRANDOLINA: Belli.
CONTE: Sono diamanti, sapete?
MIRANDOLINA: Oh, gli conosco. Me
ne intendo anch'io dei diamanti.
CONTE: E sono al vostro comando.
CAVALIERE: (Caro amico, voi li
buttate via). (piano al Conte)
MIRANDOLINA: Perché mi vuol ella
donare quegli orecchini?
MARCHESE: Veramente sarebbe un
gran regalo! Ella ne ha de' più belli al doppio.
CONTE: Questi sono legati alla
moda. Vi prego riceverli per amor mio.
CAVALIERE: (Oh che pazzo!). (da sé)
MIRANDOLINA: No, davvero,
signore...
CONTE: Se non li prendete, mi
disgustate.
MIRANDOLINA: Non so che dire...
mi preme tenermi amici gli avventori della mia locanda. Per non disgustare il
signor Conte, li prenderò.
CAVALIERE: (Oh che forca!). (da sé)
CONTE: (Che dite di quella
prontezza di spirito?). (al Cavaliere)
CAVALIERE: (Bella prontezza! Ve
li mangia, e non vi ringrazia nemmeno). (al
Conte)
MARCHESE: Veramente, signor
Conte, vi siete acquistato gran merito. Regalare una donna in pubblico, per vanità!
Mirandolina, vi ho da parlare a quattr'occhi, fra voi e me: son Cavaliere.
MIRANDOLINA: (Che arsura! Non
gliene cascano). (da sé) Se altro non
mi comandano, io me n'anderò.
CAVALIERE: Ehi! padrona. La
biancheria che mi avete dato, non mi gusta. Se non ne avete di meglio, mi provvederò.
(con disprezzo)
MIRANDOLINA: Signore, ve ne sarà
di meglio. Sarà servita, ma mi pare che la potrebbe chiedere con un poco di
gentilezza.
CAVALIERE: Dove spendo il mio
denaro, non ho bisogno di far complimenti.
CONTE: Compatitelo. Egli è nemico
capitale delle donne. (a Mirandolina)
CAVALIERE: Eh, che non ho bisogno
d'essere da lei compatito.
MIRANDOLINA: Povere donne! che
cosa le hanno fatto? Perché così crudele con noi, signor Cavaliere?
CAVALIERE: Basta così. Con me non
vi prendete maggior confidenza. Cambiatemi la biancheria. La manderò a prender
pel servitore. Amici, vi sono schiavo. (parte)
SCENA SESTA
Il Marchese, il Conte
e Mirandolina.
MIRANDOLINA: Che uomo salvatico!
Non ho veduto il compagno.
CONTE: Cara Mirandolina, tutti
non conoscono il vostro merito.
MIRANDOLINA: In verità, son così
stomacata del suo mal procedere, che or ora lo licenzio a dirittura.
MARCHESE: Sì; e se non vuol
andarsene, ditelo a me, che lo farò partire immediatamente. Fate pur uso della mia
protezione.
CONTE: E per il denaro che aveste
a perdere, io supplirò e pagherò tutto. (Sentite, mandate via anche il Marchese,
che pagherò io). (piano a Mirandolina)
MIRANDOLINA: Grazie, signori
miei, grazie. Ho tanto spirito che basta, per dire ad un forestiere ch'io non
lo voglio, e circa all'utile, la mia locanda non ha mai camere in ozio.
SCENA SETTIMA
Fabrizio e detti.
FABRIZIO: Illustrissimo, c'è uno
che la domanda. (al Conte)
CONTE: Sai chi sia?
FABRIZIO: Credo ch'egli sia un legatore
di gioje. (Mirandolina, giudizio; qui non istate bene). (piano a Mirandolina, e parte)
CONTE: Oh sì, mi ha da mostrare
un gioiello. Mirandolina, quegli orecchini, voglio che li accompagniamo.
MIRANDOLINA: Eh no, signor
Conte...
CONTE: Voi meritate molto, ed io
i denari non li stimo niente. Vado a vedere questo gioiello. Addio,
Mirandolina; signor Marchese, la riverisco! (parte)
SCENA OTTAVA
Il Marchese e
Mirandolina.
MARCHESE: (Maledetto Conte! Con
questi suoi denari mi ammazza). (da sé)
MIRANDOLINA: In verità il signor
Conte s'incomoda troppo.
MARCHESE: Costoro hanno quattro
soldi, e li spendono per vanità, per albagia. Io li conosco, so il viver del
mondo.
MIRANDOLINA: Eh, il viver del
mondo lo so ancor io.
MARCHESE: Pensano che le donne
della vostra sorta si vincano con i regali.
MIRANDOLINA: I regali non fanno
male allo stomaco.
MARCHESE: Io crederei di farvi
un'ingiuria, cercando di obbligarvi con i donativi.
MIRANDOLINA: Oh, certamente il
signor Marchese non mi ha ingiuriato mai.
MARCHESE: E tali ingiurie non ve
le farò.
MIRANDOLINA: Lo credo
sicurissimamente.
MARCHESE: Ma dove posso,
comandatemi.
MIRANDOLINA: Bisognerebbe ch'io
sapessi, in che cosa può Vostra Eccellenza.
MARCHESE: In tutto. Provatemi.
MIRANDOLINA: Ma verbigrazia, in
che?
MARCHESE: Per bacco! Avete un
merito che sorprende.
MIRANDOLINA: Troppe grazie,
Eccellenza.
MARCHESE: Ah! direi quasi uno
sproposito. Maledirei quasi la mia Eccellenza.
MIRANDOLINA: Perché, signore?
MARCHESE: Qualche volta mi auguro
di essere nello stato del Conte.
MIRANDOLINA: Per ragione forse
de' suoi denari?
MARCHESE: Eh! Che denari! Non li
stimo un fico. Se fossi un Conte ridicolo come lui...
MIRANDOLINA: Che cosa farebbe?
MARCHESE: Cospetto del diavolo...
vi sposerei. (parte)
SCENA NONA
MIRANDOLINA (sola)
Uh, che mai ha detto! L'eccellentissimo
signor Marchese Arsura mi sposerebbe? Eppure, se mi volesse sposare, vi sarebbe
una piccola difficoltà. Io non lo vorrei. Mi piace l'arrosto, e del fumo non so
che farne. Se avessi sposati tutti quelli che hanno detto volermi, oh, avrei pure
tanti mariti! Quanti arrivano a questa locanda, tutti di me s'innamorano, tutti
mi fanno i cascamorti; e tanti e tanti mi esibiscono di sposarmi a dirittura. E
questo signor Cavaliere, rustico come un orso, mi tratta sì bruscamente? Questi
è il primo forestiere capitato alla mia locanda, il quale non abbia avuto
piacere di trattare con me. Non dico che tutti in un salto s'abbiano a
innamorare: ma disprezzarmi così? è una cosa che mi muove la bile terribilmente.
È nemico delle donne? Non le può vedere? Povero pazzo! Non avrà ancora trovato
quella che sappia fare. Ma la troverà. La troverà. E chi sa che non l'abbia
trovata? Con questi per l'appunto mi ci metto di picca. Quei che mi corrono dietro,
presto presto mi annoiano. La nobiltà non fa per me. La ricchezza la stimo e
non la stimo. Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata.
Questa è la mia debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne. A
maritarmi non ci penso nemmeno; non ho bisogno di nessuno; vivo onestamente, e
godo la mia libertà. Tratto con tutti, ma non m'innamoro mai di nessuno. Voglio
burlarmi di tante caricature di amanti spasimati; e voglio usar tutta l'arte
per vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici
di noi, che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre
natura.
SCENA DECIMA
Fabrizio e detta.
FABRIZIO: Ehi, padrona.
MIRANDOLINA: Che cosa c'è?
FABRIZIO: Quel forestiere che è
alloggiato nella camera di mezzo, grida della biancheria; dice che è ordinaria,
e che non la vuole.
MIRANDOLINA: Lo so, lo so. Lo ha
detto anche a me, e lo voglio servire.
FABRIZIO: Benissimo. Venitemi
dunque a metter fuori la roba, che gliela possa portare.
MIRANDOLINA: Andate, andate,
gliela porterò io.
FABRIZIO: Voi gliela volete
portare?
MIRANDOLINA: Sì, io.
FABRIZIO: Bisogna che vi prema
molto questo forestiere.
MIRANDOLINA: Tutti mi premono.
Badate a voi.
FABRIZIO: (Già me n'avvedo. Non
faremo niente. Ella mi lusinga; ma non faremo niente). (da sé)
MIRANDOLINA: (Povero sciocco! Ha
delle pretensioni. Voglio tenerlo in isperanza, perché mi serva con fedeltà). (da sé)
FABRIZIO: Si è sempre costumato,
che i forestieri li serva io.
MIRANDOLINA: Voi con i forestieri
siete un poco troppo ruvido.
FABRIZIO: E voi siete un poco
troppo gentile.
MIRANDOLINA: So quel che fo, non
ho bisogno di correttori.
FABRIZIO: Bene, bene.
Provvedetevi di cameriere.
MIRANDOLINA: Perché, signor
Fabrizio? è disgustato di me?
FABRIZIO: Vi ricordate voi che
cosa ha detto a noi due vostro padre, prima ch'egli morisse?
MIRANDOLINA: Sì; quando mi vorrò
maritare, mi ricorderò di quel che ha detto mio padre.
FABRIZIO: Ma io son delicato di
pelle, certe cose non le posso soffrire.
MIRANDOLINA: Ma che credi tu
ch'io mi sia? Una frasca? Una civetta? Una pazza? Mi maraviglio di te. Che
voglio fare io dei forestieri che vanno e vengono? Se il tratto bene, lo fo per
mio interesse, per tener in credito la mia locanda. De' regali non ne ho bisogno.
Per far all'amore? Uno mi basta: e questo non mi manca; e so chi merita, e so
quello che mi conviene. E quando vorrò maritarmi... mi ricorderò di mio padre.
E chi mi averà servito bene, non potrà lagnarsi di me. Son grata. Conosco il
merito... Ma io non son conosciuta. Basta, Fabrizio, intendetemi, se potete. (parte.)
FABRIZIO: Chi può intenderla, è
bravo davvero. Ora pare che la mi voglia, ora che la non mi voglia. Dice che
non è una frasca, ma vuol far a suo modo. Non so che dire. Staremo a vedere.
Ella mi piace, le voglio bene, accomoderei con essa i miei interessi per tutto
il tempo di vita mia. Ah! bisognerà chiuder un occhio, e lasciar correre qualche
cosa. Finalmente i forestieri vanno e vengono. Io resto sempre. Il meglio sarà sempre
per me. (parte.)
SCENA UNDICESIMA
Camera del Cavaliere.
Il Cavaliere ed un
Servitore.
SERVITORE: Illustrissimo, hanno
portato questa lettera.
CAVALIERE: Portami la cioccolata.
(il Servitore parte)
(Il Cavaliere apre la lettera)
Siena, primo Gennaio 1753. (Chi scrive?) Orazio Taccagni. Amico carissimo. La tenera amicizia che a voi mi lega,
mi rende sollecito ad avvisarvi essere necessario il vostro ritorno in patria. È
morto il Conte Manna... (Povero Cavaliere! Me ne dispiace). Ha lasciato la sua unica figlia nubile erede
di centocinquanta mila scudi. Tutti gli amici vostri vorrebbero che toccasse a voi
una tal fortuna, e vanno maneggiando... Non s'affatichino per me, che non
voglio saper nulla. Lo sanno pure ch'io non voglio donne per i piedi. E questo
mio caro amico, che lo sa più d'ogni altro, mi secca peggio di tutti. (straccia la lettera) Che importa a me di
centocinquanta mila scudi? Finché son solo, mi basta meno. Se fossi accompagnato,
non mi basterebbe assai più. Moglie a me! Piuttosto una febbre quartana.
SCENA DODICESIMA
Il Marchese e detto.
MARCHESE: Amico, vi contentate
ch'io venga a stare un poco con voi?
CAVALIERE: Mi fate onore.
MARCHESE: Almeno fra me e voi
possiamo trattarci con confidenza; ma quel somaro del Conte non è degno di
stare in conversazione con noi.
CAVALIERE: Caro Marchese,
compatitemi; rispettate gli altri, se volete essere rispettato voi pure.
MARCHESE: Sapete il mio naturale.
Io fo le cortesie a tutti, ma colui non lo posso soffrire.
CAVALIERE: Non lo potete
soffrire, perché vi è rivale in amore! Vergogna! Un cavaliere della vostra
sorta innamorarsi d'una locandiera! Un uomo savio, come siete voi, correr
dietro a una donna!
MARCHESE: Cavaliere mio, costei
mi ha stregato.
CAVALIERE: Oh! pazzie! debolezze!
Che stregamenti! Che vuol dire che le donne non mi stregheranno? Le loro
fattucchierie consistono nei loro vezzi, nelle loro lusinghe, e chi ne sta
lontano, come fo io, non ci è pericolo che si lasci ammaliare.
MARCHESE: Basta! ci penso e non
ci penso: quel che mi dà fastidio e che m'inquieta, è il mio fattor di
campagna.
CAVALIERE: Vi ha fatto qualche
porcheria?
MARCHESE: Mi ha mancato di
parola.
SCENA TREDICESIMA
Il Servitore con una
cioccolata e detti.
CAVALIERE: Oh mi dispiace...
Fanne subito un'altra. (al Servitore)
SERVITORE: In casa per oggi non
ce n'è altra, illustrissimo.
CAVALIERE: Bisogna che ne provveda.
Se vi degnate di questa... (al Marchese)
MARCHESE (prende la cioccolata, e si mette a berla senza complimenti, seguitando
poi a discorrere e bere, come segue): Questo mio fattore, come io vi
diceva... (beve)
CAVALIERE: (Ed io resterò senza).
(da sé)
MARCHESE: Mi aveva promesso
mandarmi con l'ordinario... (beve)
venti zecchini... (beve)
CAVALIERE: (Ora viene con una
seconda stoccata). (da sé)
MARCHESE: E non me li ha
mandati... (beve)
CAVALIERE: Li manderà un'altra
volta.
MARCHESE: Il punto sta... il punto
sta... (finisce di bere) Tenete. (dà la chicchera al Servitore) Il punto sta
che sono in un grande impegno, e non so come fare.
CAVALIERE: Otto giorni più, otto
giorni meno...
MARCHESE: Ma voi che siete
Cavaliere, sapete quel che vuol dire il mantener la parola. Sono in impegno; e...
corpo di bacco! Darei della pugna in cielo.
CAVALIERE: Mi dispiace di vedervi
scontento. (Se sapessi come uscirne con riputazione!) (da sé)
MARCHESE: Voi avreste difficoltà
per otto giorni di farmi il piacere?
CAVALIERE: Caro Marchese, se
potessi, vi servirei di cuore; se ne avessi, ve li avrei esibiti a dirittura.
Ne aspetto, e non ne ho.
MARCHESE: Non mi darete ad
intendere d'esser senza denari.
CAVALIERE: Osservate. Ecco tutta
la mia ricchezza. Non arrivano a due zecchini. (mostra uno zecchino e varie monete)
MARCHESE: Quello è uno zecchino
d'oro.
CAVALIERE: Sì; l'ultimo, non ne
ho più.
MARCHESE: Prestatemi quello, che
vedrò intanto...
CAVALIERE: Ma io poi...
MARCHESE: Di che avete paura? Ve
lo renderò.
CAVALIERE: Non so che dire;
servitevi. (gli dà lo zecchino)
MARCHESE: Ho un affare di
premura... amico: obbligato per ora: ci rivedremo a pranzo. (prende lo zecchino, e parte)
SCENA QUATTORDICESIMA
CAVALIERE (solo)
Bravo! Il signor Marchese mi
voleva frecciare venti zecchini, e poi si è contentato di uno. Finalmente uno
zecchino non mi preme di perderlo, e se non me lo rende, non mi verrà più a
seccare. Mi dispiace più, che mi ha bevuto la mia cioccolata. Che
indiscretezza! E poi: son chi sono. Son Cavaliere. Oh garbatissimo Cavaliere!
SCENA QUINDICESIMA
Mirandolina colla
biancheria, e detto.
MIRANDOLINA: Permette,
illustrissimo? (entrando con qualche
soggezione)
CAVALIERE: Che cosa volete? (con asprezza)
MIRANDOLINA: Ecco qui della
biancheria migliore. (s'avanza un poco)
CAVALIERE: Bene. Mettetela lì. (accenna il tavolino)
MIRANDOLINA: La supplico almeno
degnarsi vedere se è di suo genio.
CAVALIERE: Che roba è?
MIRANDOLINA: Le lenzuola son di
rensa. (s'avanza ancor più)
CAVALIERE: Rensa?
MIRANDOLINA: Sì signore, di dieci
paoli al braccio. Osservi.
CAVALIERE: Non pretendevo tanto.
Bastavami qualche cosa meglio di quel che mi avete dato.
MIRANDOLINA: Questa biancheria
l'ho fatta per personaggi di merito: per quelli che la sanno conoscere; e in
verità, illustrissimo, la do per esser lei, ad un altro non la darei.
CAVALIERE: Per esser lei! Solito
complimento.
MIRANDOLINA: Osservi il servizio
di tavola.
CAVALIERE: Oh! Queste tele di
Fiandra, quando si lavano, perdono assai. Non vi è bisogno che le insudiciate per
me.
MIRANDOLINA: Per un Cavaliere
della sua qualità, non guardo a queste piccole cose. Di queste salviette ne ho
parecchie, e le serberò per V.S. illustrissima.
CAVALIERE: (Non si può però
negare, che costei non sia una donna obbligante). (da sé)
MIRANDOLINA: (Veramente ha una
faccia burbera da non piacergli le donne). (da
sé)
CAVALIERE: Date la mia biancheria
al mio cameriere, o ponetela lì, in qualche luogo. Non vi è bisogno che v'incomodiate
per questo.
MIRANDOLINA: Oh, io non
m'incomodo mai, quando servo Cavaliere di sì alto merito.
CAVALIERE: Bene, bene, non
occorr'altro. (Costei vorrebbe adularmi. Donne! Tutte così). (da sé)
MIRANDOLINA: La metterò
nell'arcova.
CAVALIERE: Sì, dove volete. (con serietà)
MIRANDOLINA: (Oh! vi è del duro.
Ho paura di non far niente). (da sé, va a
riporre la biancheria)
CAVALIERE: (I gonzi sentono
queste belle parole, credono a chi le dice, e cascano). (da sè)
MIRANDOLINA: A pranzo, che cosa
comanda? (ritornando senza la biancheria)
CAVALIERE: Mangerò quello che vi
sarà.
MIRANDOLINA: Vorrei pur sapere il
suo genio. Se le piace una cosa più dell'altra, lo dica con libertà.
CAVALIERE: Se vorrò qualche cosa,
lo dirò al cameriere.
MIRANDOLINA: Ma in queste cose
gli uomini non hanno l'attenzione e la pazienza che abbiamo noi donne. Se le
piacesse qualche intingoletto, qualche salsetta, favorisca di dirlo a me.
CAVALIERE: Vi ringrazio: ma né
anche per questo verso vi riuscirà di far con me quello che avete fatto col Conte
e col Marchese.
MIRANDOLINA: Che dice della
debolezza di quei due cavalieri? Vengono alla locanda per alloggiare, e
pretendono poi di voler fare all'amore colla locandiera. Abbiamo altro in testa
noi, che dar retta alle loro ciarle. Cerchiamo di fare il nostro interesse; se
diamo loro delle buone parole, lo facciamo per tenerli a bottega; e poi, io
principalmente, quando vedo che si lusingano, rido come una pazza.
CAVALIERE: Brava! Mi piace la
vostra sincerità.
MIRANDOLINA: Oh! non ho altro di
buono, che la sincerità.
CAVALIERE: Ma però, con chi vi fa
la corte, sapete fingere.
MIRANDOLINA: Io fingere? Guardimi
il cielo. Domandi un poco a quei due signori che fanno gli spasimati per me, se
ho mai dato loro un segno d'affetto. Se ho mai scherzato con loro in maniera
che si potessero lusingare con fondamento. Non li strapazzo, perché il mio
interesse non lo vuole, ma poco meno. Questi uomini effeminati non li posso
vedere. Sì come abborrisco anche le donne che corrono dietro agli uomini. Vede?
Io non sono una ragazza. Ho qualche annetto; non sono bella, ma ho avute delle
buone occasioni; eppure non ho mai voluto maritarmi, perché stimo infinitamente
la mia libertà.
CAVALIERE: Oh sì, la libertà è un
gran tesoro.
MIRANDOLINA: E tanti la perdono
scioccamente.
CAVALIERE: So io ben quel che
faccio. Alla larga.
MIRANDOLINA: Ha moglie V.S.
illustrissima?
CAVALIERE: Il cielo me ne liberi.
Non voglio donne.
MIRANDOLINA: Bravissimo. Si
conservi sempre così. Le donne, signore... Basta, a me non tocca a dirne male.
CAVALIERE: Voi siete per altro la
prima donna, ch'io senta parlar così.
MIRANDOLINA: Le dirò: noi altre
locandiere vediamo e sentiamo delle cose assai; e in verità compatisco quegli
uomini, che hanno paura del nostro sesso.
CAVALIERE: (È curiosa costei). (da sé)
MIRANDOLINA: Con permissione di
V.S. illustrissima. (finge voler partire)
CAVALIERE: Avete premura di
partire?
MIRANDOLINA: Non vorrei esserle
importuna.
CAVALIERE: No, mi fate piacere;
mi divertite.
MIRANDOLINA: Vede, signore? Così
fo con gli altri. Mi trattengo qualche momento; sono piuttosto allegra, dico
delle barzellette per divertirli, ed essi subito credono... Se la m'intende, e
mi fanno i cascamorti.
CAVALIERE: Questo accade, perché
avete buona maniera.
MIRANDOLINA: Troppa bontà,
illustrissimo. (con una riverenza)
CAVALIERE: Ed essi s'innamorano.
MIRANDOLINA: Guardi che
debolezza! Innamorarsi subito di una donna!
CAVALIERE: Questa io non l'ho mai
potuta capire.
MIRANDOLINA: Bella fortezza!
Bella virilità!
CAVALIERE: Debolezze! Miserie
umane!
MIRANDOLINA: Questo è il vero
pensare degli uomini. Signor Cavaliere, mi porga la mano.
CAVALIERE: Perché volete ch'io vi
porga la mano?
MIRANDOLINA: Favorisca; si degni;
osservi, sono pulita.
CAVALIERE: Ecco la mano.
MIRANDOLINA: Questa è la prima
volta, che ho l'onore d'aver per la mano un uomo, che pensa veramente da uomo.
CAVALIERE: Via, basta così. (ritira la mano)
MIRANDOLINA: Ecco. Se io avessi
preso per la mano uno di que' due signori sguaiati, avrebbe tosto creduto ch'io
spasimassi per lui. Sarebbe andato in deliquio. Non darei loro una semplice
libertà, per tutto l'oro del mondo. Non sanno vivere. Oh benedetto il
conversare alla libera! senza attacchi, senza malizia, senza tante ridicole
scioccherie. Illustrissimo, perdoni la mia impertinenza. Dove posso servirla,
mi comandi con autorità, e avrò per lei quell'attenzione, che non ho mai avuto
per alcuna persona di questo mondo.
CAVALIERE: Per quale motivo avete
tanta parzialità per me?
MIRANDOLINA: Perché, oltre il suo
merito, oltre la sua condizione, sono almeno sicura che con lei posso trattare
con libertà, senza sospetto che voglia fare cattivo uso delle mie attenzioni, e
che mi tenga in qualità di serva, senza tormentarmi con pretensioni ridicole, con
caricature affettate.
CAVALIERE: (Che diavolo ha costei
di stravagante, ch'io non capisco!). (da
sé)
MIRANDOLINA: (Il satiro si anderà
a poco a poco addomesticando). (da sé)
CAVALIERE: Orsù, se avete da
badare alle cose vostre, non restate per me.
MIRANDOLINA: Sì signore, vado ad
attendere alle faccende di casa. Queste sono i miei amori, i miei passatempi.
Se comanderà qualche cosa, manderò il cameriere.
CAVALIERE: Bene... Se qualche
volta verrete anche voi, vi vedrò volentieri.
MIRANDOLINA: Io veramente non
vado mai nelle camere dei forestieri, ma da lei ci verrò qualche volta.
CAVALIERE: Da me... Perché?
MIRANDOLINA: Perché,
illustrissimo signore, ella mi piace assaissimo.
CAVALIERE: Vi piaccio io?
MIRANDOLINA: Mi piace, perché non
è effeminato, perché non è di quelli che s'innamorano. (Mi caschi il naso, se
avanti domani non l'innamoro). (da sé)
SCENA SEDICESIMA
CAVALIERE (solo)
Eh! So io quel che fo. Colle donne?
Alla larga. Costei sarebbe una di quelle che potrebbero farmi cascare più delle
altre. Quella verità, quella scioltezza di dire, è cosa poco comune. Ha un non
so che di estraordinario; ma non per questo mi lascerei innamorare. Per un poco
di divertimento, mi fermerei più tosto con questa che con un'altra. Ma per fare
all'amore? Per perdere la libertà? Non vi è pericolo. Pazzi, pazzi quelli che
s'innamorano delle donne. (parte)
SCENA DICIASSETTESIMA
Altra camera di
locanda.
Ortensia, Dejanira,
Fabrizio.
FABRIZIO: Che restino servite
qui, illustrissime. Osservino quest'altra camera. Quella per dormire, e questa per
mangiare, per ricevere, per servirsene come comandano.
ORTENSIA: Va bene, va bene. Siete
voi padrone, o cameriere?
FABRIZIO: Cameriere, ai comandi
di V.S. illustrissima.
DEJANIRA: (Ci dà delle
illustrissime). (piano a Ortensia, ridendo)
ORTENSIA: (Bisogna secondare il
lazzo). Cameriere?
FABRIZIO: Illustrissima.
ORTENSIA: Dite al padrone che
venga qui, voglio parlar con lui per il trattamento.
FABRIZIO: Verrà la padrona; la
servo subito. (Chi diamine saranno queste due signore così sole? All'aria, all'abito,
paiono dame). (da sé, parte)
SCENA DICIOTTESIMA
Dejanira e Ortensia.
DEJANIRA: Ci dà dell'illustrissime.
Ci ha creduto due dame.
ORTENSIA: Bene. Così ci tratterà
meglio.
DEJANIRA: Ma ci farà pagare di
più.
ORTENSIA: Eh, circa i conti, avrà
da fare con me. Sono degli anni assai, che cammino il mondo.
DEJANIRA: Non vorrei che con
questi titoli entrassimo in qualche impegno.
ORTENSIA: Cara amica, siete di
poco spirito. Due commedianti avvezze a far sulla scena da contesse, da marchese
e da principesse, avranno difficoltà a sostenere un carattere sopra di una
locanda?
DEJANIRA: Verranno i nostri
compagni, e subito ci sbianchiranno (1).
ORTENSIA: Per oggi non possono
arrivare a Firenze. Da Pisa a qui in navicello vi vogliono almeno tre giorni.
DEJANIRA: Guardate che
bestialità! Venire in navicello!
ORTENSIA: Per mancanza di lugagni
(2). È assai che siamo venute noi in calesse.
DEJANIRA: È stata buona quella
recita di più che abbiamo fatto.
ORTENSIA: Sì, ma se non istavo io
alla porta, non si faceva niente.
SCENA DICIANNOVESIMA
Fabrizio e dette.
FABRIZIO: La padrona or ora sarà
a servirle.
ORTENSIA: Bene.
FABRIZIO: Ed io le supplico a comandarmi.
Ho servito altre dame: mi darò l'onor di servir con tutta l'attenzione anche le
signorie loro illustrissime.
ORTENSIA: Occorrendo, mi varrò di
voi.
DEJANIRA: (Ortensia queste parti
le fa benissimo). (da sé)
FABRIZIO: Intanto le supplico,
illustrissime signore, favorirmi il loro riverito nome per la consegna. (tira fuori un calamaio ed un libriccino)
DEJANIRA: (Ora viene il buono).
ORTENSIA: Perché ho da dar il mio
nome?
FABRIZIO: Noialtri locandieri
siamo obbligati a dar il nome, il casato, la patria e la condizione di tutti i
passeggeri che alloggiano alla nostra locanda. E se non lo facessimo, meschini
noi.
DEJANIRA: (Amica, i titoli sono
finiti). (piano ad Ortensia)
ORTENSIA: Molti daranno anche il
nome finto.
FABRIZIO: In quanto a questo poi,
noialtri scriviamo il nome che ci dettano, e non cerchiamo di più.
ORTENSIA: Scrivete. La Baronessa
Ortensia del Poggio, palermitana.
FABRIZIO: (Siciliana? Sangue
caldo). (scrivendo) Ella,
illustrissima? (a Dejanira)
DEJANIRA: Ed io... (Non so che mi
dire).
ORTENSIA: Via, Contessa Dejanira,
dategli il vostro nome.
FABRIZIO: Vi supplico. (a Dejanira)
DEJANIRA: Non l'avete sentito? (a Fabrizio)
FABRIZIO: L'illustrissima signora
Contessa Dejanira... (scrivendo) Il
cognome?
DEJANIRA: Anche il cognome? (a Fabrizio)
ORTENSIA: Sì, dal Sole, romana. (a Fabrizio)
FABRIZIO: Non occorr'altro.
Perdonino l'incomodo. Ora verrà la padrona. (L'ho io detto, che erano due dame?
Spero che farò de' buoni negozi. Mancie non ne mancheranno). pParte.)
DEJANIRA: Serva umilissima della
signora Baronessa.
ORTENSIA: Contessa, a voi
m'inchino. (Si burlano vicendevolmente.)
DEJANIRA: Qual fortuna mi offre
la felicissima congiuntura di rassegnarvi il mio profondo rispetto?
ORTENSIA: Dalla fontana del
vostro cuore scaturir non possono che torrenti di grazie.
SCENA VENTESIMA
Mirandolina e dette.
DEJANIRA: Madama, voi mi adulate.
(ad Ortensia, con caricatura)
ORTENSIA: Contessa, al vostro
merito ci converrebbe assai più. (fa lo
stesso)
MIRANDOLINA: (Oh che dame
cerimoniose). (da sé, in disparte)
DEJANIRA: (Oh quanto mi vien da
ridere!). (da sé)
ORTENSIA: Zitto: è qui la
padrona. (piano a Dejanira)
MIRANDOLINA: M'inchino a queste
dame.
ORTENSIA: Buon giorno, quella
giovane.
DEJANIRA: Signora padrona, vi
riverisco. (a Mirandolina)
ORTENSIA: Ehi! (fa cenno a Dejanira, che si sostenga)
MIRANDOLINA: Permetta ch'io le baci
la mano. (ad Ortensia)
ORTENSIA: Siete obbligante. (le dà la mano)
DEJANIRA: (ride da sé)
MIRANDOLINA: Anche ella,
illustrissima. (chiede la mano a Dejanira)
DEJANIRA: Eh, non importa...
ORTENSIA: Via, gradite le finezze
di questa giovane. Datele la mano.
MIRANDOLINA: La supplico.
DEJANIRA: Tenete. (le dà la mano, si volta, e ride)
MIRANDOLINA: Ride, illustrissima?
Di che?
ORTENSIA: Che cara Contessa! Ride
ancora di me. Ho detto uno sproposito, che l'ha fatta ridere.
MIRANDOLINA: (Io giuocherei che
non sono dame. Se fossero dame, non sarebbero sole). (da sé)
ORTENSIA: Circa il trattamento,
converrà poi discorrere. (a Mirandolina)
MIRANDOLINA: Ma! Sono sole? Non
hanno cavalieri, non hanno servitori, non hanno nessuno?
ORTENSIA: Il Barone mio marito...
DEJANIRA: (ride forte).
MIRANDOLINA: Perché ride,
signora? (a Dejanira)
ORTENSIA: Via, perché ridete?
DEJANIRA: Rido del Barone di
vostro marito.
ORTENSIA: Sì, è un Cavaliere
giocoso: dice sempre delle barzellette; verrà quanto prima col Conte Orazio, marito
della Contessina.
DEJANIRA (fa forza per trattenersi dal ridere).
MIRANDOLINA: La fa ridere anche
il signor Conte? (a Dejanira)
ORTENSIA: Ma via, Contessina,
tenetevi un poco nel vostro decoro.
MIRANDOLINA: Signore mie,
favoriscano in grazia. Siamo sole, nessuno ci sente. Questa contea, questa baronia,
sarebbe mai...
ORTENSIA: Che cosa vorreste voi
dire? Mettereste in dubbio la nostra nobiltà?
MIRANDOLINA: Perdoni, illustrissima,
non si riscaldi, perché farà ridere la signora Contessa.
DEJANIRA: Eh via, che serve?
ORTENSIA: Contessa, Contessa! (minacciandola)
MIRANDOLINA: Io so che cosa
voleva dire, illustrissima. (a Dejanira)
DEJANIRA: Se l'indovinate, vi
stimo assai.
MIRANDOLINA: Volevate dire: Che
serve che fingiamo d'esser due dame, se siamo due pedine? Ah! non è vero?
DEJANIRA: E che sì che ci
conoscete? (a Mirandolina)
ORTENSIA: Che brava commediante!
Non è buona da sostenere un carattere.
DEJANIRA: Fuori di scena io non
so fingere.
MIRANDOLINA: Brava, signora
Baronessa; mi piace il di lei spirito. Lodo la sua franchezza.
ORTENSIA: Qualche volta mi prendo
un poco di spasso.
MIRANDOLINA: Ed io amo
infinitamente le persone di spirito. Servitevi pure nella mia locanda, che
siete padrone; ma vi prego bene, se mi capitassero persone di rango, cedermi quest'appartamento,
ch'io vi darò dei camerini assai comodi.
DEJANIRA: Sì, volentieri.
ORTENSIA: Ma io, quando spendo il
mio denaro, intendo volere esser servita come una dama, e in questo appartamento
ci sono, e non me ne anderò.
MIRANDOLINA: Via, signora
Baronessa, sia buona... Oh! Ecco un cavaliere che è alloggiato in questa
locanda. Quando vede donne, sempre si caccia avanti.
ORTENSIA: È ricco?
MIRANDOLINA: Io non so i fatti
suoi.
SCENA VENTUNESIMA
Il Marchese e dette.
MARCHESE: È permesso? Si può
entrare?
ORTENSIA: Per me è padrone.
MARCHESE: Servo di lor signore.
DEJANIRA: Serva umilissima.
ORTENSIA: La riverisco
divotamente.
MARCHESE: Sono forestiere? (a Mirandolina)
MIRANDOLINA: Eccellenza sì. Sono
venute ad onorare la mia locanda.
ORTENSIA: (È un'Eccellenza!
Capperi!). (da sé)
DEJANIRA: (Già Ortensia lo vorrà
per sé). (da sé)
MARCHESE: E chi sono queste
signore? (a Mirandolina)
MIRANDOLINA: Questa è la
Baronessa Ortensia del Poggio, e questa la Contessa Dejanira dal Sole.
MARCHESE: Oh compitissime dame!
ORTENSIA: E ella chi è, signore?
MARCHESE: Io sono il Marchese di
Forlipopoli.
DEJANIRA: (La locandiera vuol
seguitare a far la commedia). (da sé)
ORTENSIA: Godo aver l'onore di
conoscere un cavaliere così compito.
MARCHESE: Se vi potessi servire,
comandatemi. Ho piacere che siate venute ad alloggiare in questa locanda. Troverete
una padrona di garbo.
MIRANDOLINA: Questo cavaliere è
pieno di bontà. Mi onora della sua protezione.
MARCHESE: Sì, certamente. Io la
proteggo, e proteggo tutti quelli che vengono nella sua locanda; e se vi
occorre nulla, comandate.
ORTENSIA: Occorrendo, mi prevarrò
delle sue finezze.
MARCHESE: Anche voi, signora
Contessa, fate capitale di me.
DEJANIRA: Potrò ben chiamarmi
felice, se avrò l'alto onore di essere annoverata nel ruolo delle sue
umilissime serve.
MIRANDOLINA: (Ha detto un
concetto da commedia). (ad Ortensia)
ORTENSIA: (Il titolo di Contessa
l'ha posta in soggezione). (a Mirandolina)
(Il Marchese tira fuori di tasca un bel fazzoletto di seta, lo spiega, e
finge volersi asciugar la fronte)
MIRANDOLINA: Un gran fazzoletto,
signor Marchese!
MARCHESE: Ah! Che ne dite? È
bello? Sono di buon gusto io? (a
Mirandolina)
MIRANDOLINA: Certamente è di
ottimo gusto.
MARCHESE: Ne avete più veduti di
così belli? (ad Ortensia)
ORTENSIA: È superbo. Non ho
veduto il compagno. (Se me lo donasse, lo prenderei). (da sé)
MARCHESE: Questo viene da Londra.
(a Dejanira)
DEJANIRA: È bello, mi piace
assai.
MARCHESE: Son di buon gusto io?
DEJANIRA: (E non dice a' vostri
comandi). (da sé)
MARCHESE: M'impegno che il Conte
non sa spendere. Getta via il denaro, e
non compra mai una galanteria di buon gusto.
MIRANDOLINA: Il signor Marchese
conosce, distingue, sa, vede, intende.
MARCHESE (piega il fazzoletto con attenzione) Bisogna piegarlo bene, acciò
non si guasti. Questa sorta di roba bisogna custodirla con attenzione. Tenete.
(lo presenta a Mirandolina)
MIRANDOLINA: Vuole ch'io lo
faccia mettere nella sua camera?
MARCHESE: No. Mettetelo nella
vostra.
MIRANDOLINA: Perché... nella mia?
MARCHESE: Perché... ve lo dono.
MIRANDOLINA: Oh, Eccellenza,
perdoni...
MARCHESE: Tant'è. Ve lo dono.
MIRANDOLINA: Ma io non voglio.
MARCHESE: Non mi fate andar in
collera.
MIRANDOLINA: Oh, in quanto a questo
poi, il signor Marchese lo sa, io non voglio disgustar nessuno. Acciò non vada
in collera, lo prenderò.
DEJANIRA: (Oh che bel lazzo!). (ad Ortensia)
ORTENSIA: (E poi dicono delle
commedianti). (a Dejanira)
MARCHESE: Ah! Che dite? Un
fazzoletto di quella sorta, l'ho donato alla mia padrona di casa. (ad Ortensia)
ORTENSIA: È un cavaliere
generoso.
MARCHESE: Sempre così.
MIRANDOLINA: (Questo è il primo
regalo che mi ha fatto, e non so come abbia avuto quel fazzoletto). (da sé)
DEJANIRA: Signor Marchese, se ne
trovano di quei fazzoletti in Firenze? Avrei volontà d'averne uno compagno.
MARCHESE: Compagno di questo sarà
difficile; ma vedremo.
MIRANDOLINA: (Brava la signora
Contessina). (da sé)
ORTENSIA: Signor Marchese, voi
che siete pratico della città, fatemi il piacere di mandarmi un bravo
calzolaro, perché ho bisogno di scarpe.
MARCHESE: Sì, vi manderò il mio.
MIRANDOLINA: (Tutte alla vita; ma
non ce n'è uno per la rabbia). (da sé)
ORTENSIA: Caro signor Marchese,
favorirà tenerci un poco di compagnia.
DEJANIRA: Favorirà a pranzo con
noi.
MARCHESE: Sì, volentieri. (Ehi
Mirandolina, non abbiate gelosia, son vostro, già lo sapete).
MIRANDOLINA: (S'accomodi pure: ho
piacere che si diverta). (al Marchese)
ORTENSIA: Voi sarete la nostra
conversazione.
DEJANIRA: Non conosciamo nessuno.
Non abbiamo altri che voi.
MARCHESE: Oh care le mie damine!
Vi servirò di cuore.
SCENA VENTIDUESIMA
Il Conte e detti.
CONTE: Mirandolina, io cercava
voi.
MIRANDOLINA: Son qui con queste
dame.
CONTE: Dame? M'inchino umilmente.
ORTENSIA: Serva divota. (Questo è
un guasco più badial (3) di quell'altro). (piano
a Dejanira)
DEJANIRA: (Ma io non sono buona
per miccheggiare) (4). (piano ad Ortensia)
MARCHESE: (Ehi! Mostrate al Conte
il fazzoletto). (piano a Mirandolina)
MIRANDOLINA: Osservi signor Conte,
il bel regalo che mi ha fatto il signor Marchese. (mostra il fazzoletto al Conte)
CONTE: Oh, me ne rallegro! Bravo,
signor Marchese.
MARCHESE: Eh niente, niente.
Bagattelle. Riponetelo via; non voglio che lo diciate. Quel che fo, non s'ha da
sapere.
MIRANDOLINA: (Non s'ha da sapere,
e me lo fa mostrare. La superbia contrasta con la povertà). (da sé)
CONTE: Con licenza di queste
dame, vorrei dirvi una parola. (a
Mirandolina)
ORTENSIA: S'accomodi con libertà.
MARCHESE: Quel fazzoletto in
tasca lo manderete a male. (a Mirandolina)
MIRANDOLINA: Eh, lo riporrò nella
bambagia, perché non si ammacchi!
CONTE: Osservate questo piccolo
gioiello di diamanti. (a Mirandolina)
MIRANDOLINA: Bello assai.
CONTE: È compagno degli orecchini
che vi ho donato. (Ortensia e Dejanira
osservano, e parlano piano fra loro)
MIRANDOLINA: Certo è compagno, ma
è ancora più bello.
MARCHESE: (Sia maledetto il
Conte, i suoi diamanti, i suoi denari, e il suo diavolo che se lo porti). (da sé)
CONTE: Ora, perché abbiate il
fornimento compagno, ecco ch'io vi dono il gioiello. (a Mirandolina)
MIRANDOLINA: Non lo prendo
assolutamente.
CONTE: Non mi farete questa male
creanza.
MIRANDOLINA: Oh! delle male
creanze non ne faccio mai. Per non disgustarla, lo prenderò.
(Ortensia e Dejanira parlano come sopra, osservando la generosità del
Conte)
MIRANDOLINA: Ah! Che ne dice,
signor Marchese? Questo gioiello non è galante?
MARCHESE: Nel suo genere il
fazzoletto è più di buon gusto.
CONTE: Sì, ma da genere a genere
vi è una bella distanza.
MARCHESE: Bella cosa! Vantarsi in
pubblico di una grande spesa.
CONTE: Sì, sì, voi fate i vostri
regali in segreto.
MIRANDOLINA: (Posso ben dire con
verità questa volta, che fra due litiganti il terzo gode). (da sé)
MARCHESE: E così, damine mie,
sarò a pranzo con voi.
ORTENSIA: Quest'altro signore chi
è? (al Conte)
CONTE: Sono il Conte
d'Albafiorita, per obbedirvi.
DEJANIRA: Capperi! È una famiglia
illustre, io la conosco. (anch'ella
s'accosta al Conte)
CONTE: Sono a' vostri comandi. (a Dejanira)
ORTENSIA: È qui alloggiato? (al Conte)
CONTE: Sì, signora.
DEJANIRA: Si trattiene molto? (al Conte)
CONTE: Credo di sì.
MARCHESE: Signore mie, sarete
stanche di stare in piedi, volete ch'io vi serva nella vostra camera?
ORTENSIA: Obbligatissima. (con disprezzo) Di che paese è, signor
Conte?
CONTE: Napolitano.
ORTENSIA: Oh! Siamo mezzi
patrioti. Io sono palermitana.
DEJANIRA: Io son romana; ma sono
stata a Napoli, e appunto per un mio interesse desiderava parlare con un
cavaliere napolitano.
CONTE: Vi servirò, signore. Siete
sole? Non avete uomini?
MARCHESE: Ci sono io, signore: e
non hanno bisogno di voi.
ORTENSIA: Siamo sole, signor
Conte. Poi vi diremo il perché.
CONTE: Mirandolina.
MIRANDOLINA: Signore.
CONTE: Fate preparare nella mia
camera per tre. Vi degnerete di favorirmi? (ad
Ortensia e Dejanira)
ORTENSIA: Riceveremo le vostre
finezze.
MARCHESE: Ma io sono stato
invitato da queste dame.
CONTE: Esse sono padrone di
servirsi come comandano, ma alla mia piccola tavola in più di tre non ci si sta.
MARCHESE: Vorrei veder anche questa...
ORTENSIA: Andiamo, andiamo,
signor Conte. Il signor Marchese ci favorirà un'altra volta. (parte)
DEJANIRA: Signor Marchese, se
trova il fazzoletto, mi raccomando. (parte)
MARCHESE: Conte, Conte, voi me la
pagherete.
CONTE: Di che vi lagnate?
MARCHESE: Son chi sono, e non si
tratta così. Basta... Colei vorrebbe un fazzoletto? Un fazzoletto di quella sorta?
Non l'avrà. Mirandolina, tenetelo caro. Fazzoletti di quella sorta non se ne
trovano. Dei diamanti se ne trovano, ma dei fazzoletti di quella sorta non se
ne trovano. (parte)
MIRANDOLINA: (Oh che bel pazzo!).
(da sé)
CONTE: Cara Mirandolina, avrete
voi dispiacere ch'io serva queste due dame?
MIRANDOLINA: Niente affatto,
signore.
CONTE: Lo faccio per voi. Lo
faccio per accrescer utile ed avventori alla vostra locanda; per altro io son
vostro, è vostro il mio cuore, e vostre son le mie ricchezze, delle quali disponetene
liberamente, che io vi faccio padrona. (parte)
SCENA VENTITREESIMA
MIRANDOLINA (sola)
Con tutte le sue ricchezze, con tutti
li suoi regali, non arriverà mai ad innamorarmi; e molto meno lo farà il
Marchese colla sua ridicola protezione. Se dovessi attaccarmi ad uno di questi
due, certamente lo farei con quello che spende più. Ma non mi preme né
dell'uno, né dell'altro. Sono in impegno d'innamorar il Cavaliere di
Ripafratta, e non darei un tal piacere per un gioiello il doppio più grande di questo.
Mi proverò; non so se avrò l'abilità che hanno quelle due brave comiche, ma mi
proverò. Il Conte ed il Marchese, frattanto che con quelle si vanno
trattenendo, mi lasceranno in pace; e potrò a mio bell'agio trattar col
Cavaliere. Possibile ch'ei non ceda? Chi è quello che possa resistere ad una
donna, quando le dà tempo di poter far uso dell'arte sua? Chi fugge non può
temer d'esser vinto, ma chi si ferma, chi ascolta, e se ne compiace, deve o
presto o tardi a suo dispetto cadere. (parte)
_________________________________________________________________________
(1) Gergo de’ commedianti, che vuol dire: ci scopriranno
(2) Gergo: danari
(3) Guasco badiale in gergo vuol dire un nobile ricco
(4) Micheggiare in gergo vuol dire domandar regali e
cose simili