La novella di ser Ciappelletto è
la prima della prima giornata e dunque la prima di tutto il Decameron. Vi si
racconta la storia di un uomo malvagio, ser Cepparello da Prato, che in punto
di morte riesce a confessarsi con un santo frate, un po’ ingenuo, finendo con l’apparirgli
come un santo, degno, dopo la sua morte, di culto religioso. Secondo il noto
manuale di letteratura di Mario Pazzaglia è «assurdo ricercare nella novella un proposito antireligioso»; forse è vero che non c’è un
proposito antireligioso, però mi sembra marcato un certo sentimento
anticlericale. Né il frate, né i fedeli che
santificano ser Ciappelletto fanno una bella figura in questa novella.
[1]
Ser Cepparello con una falsa
confessione inganna uno santo frate e muorsi; e, essendo stato un pessimo uomo
in vita, è morto reputato per santo e chiamato san Ciappelletto.
Ragionasi adunque che essendo
Musciatto Franzesi di ricchissimo e gran mercatante in Francia cavalier
divenuto e dovendone in Toscana venire con messer Carlo Senzaterra, fratello
del re di Francia, da papa Bonifazio addomandato e al venir promosso, sentendo
egli li fatti suoi, sì come le più volte son quegli de’ mercatanti, molto
intralciati in qua e in là e non potersi di leggiere né subitamente stralciare,
pensò quegli commettere a più persone e a tutti trovò modo: fuor solamente in
dubbio gli rimase cui lasciar potesse sofficiente a riscuoter suoi crediti
fatti a più borgognoni. E la cagione del dubbio era il sentire li borgognoni
uomini riottosi e di mala condizione e misleali; e a lui non andava per la
memoria chi tanto malvagio uom fosse, in cui egli potesse alcuna fidanza avere
che opporre alla loro malvagità si potesse. E sopra questa essaminazione
pensando lungamente stato, gli venne a memoria un ser Cepparello da Prato, il
qual molto alla sua casa in Parigi si riparava; il quale, per ciò che piccolo
di persona era e molto assettatuzzo, non sappiendo li franceschi che si volesse
dire Cepperello, credendo che cappello, cioè ghirlanda, secondo il loro volgare
a dir venisse, per ciò che piccolo era come dicemmo, non Ciappello, ma
Ciappelletto il chiamavano; e per Ciappelletto era conosciuto per tutto, là
dove pochi per ser Cepperello il conoscieno.
Era questo Ciappelletto di questa
vita: egli, essendo notaio, avea grandissima vergogna quando uno de’ suoi
strumenti (come che pochi ne facesse) fosse altro che falso trovato; de’ quali
tanti avrebbe fatti di quanti fosse stato richiesto, e quelli più volentieri in
dono che alcun altro grandemente salariato. Testimonianze false con sommo
diletto diceva, richiesto e non richiesto; e dandosi a que’ tempi in Francia a’
saramenti grandissima fede, non curandosi fargli falsi, tante quistioni
malvagiamente vincea a quante a giurare di dire il vero sopra la sua fede era
chiamato. Aveva oltre modo piacere, e forte vi studiava, in commettere tra
amici e parenti e qualunque altra persona mali e inimicizie e scandali, de’
quali quanto maggiori mali vedeva seguire tanto più d’allegrezza prendea.
Invitato ad un omicidio o a qualunque altra rea cosa, senza negarlo mai,
volenterosamente v’andava; e più volte a fedire e ad uccidere uomini colle
propie mani si trovò volentieri. Bestemmiatore di Dio e de’ santi era
grandissimo; e per ogni piccola cosa, sì come colui che più che alcun altro era
iracundo. A chiesa non usava giammai; e i sacramenti di quella tutti, come vil
cosa, con abominevoli parole scherniva; e così in contrario le taverne e gli
altri disonesti luoghi visitava volentieri e usavagli. Delle femine era così
vago come sono i cani de’ bastoni; del contrario più che alcun altro tristo
uomo si dilettava. Imbolato avrebbe e rubato con quella coscienza che un santo
uomo offerrebbe. Gulosissimo e bevitore grande, tanto che alcuna volta
sconciamente gli facea noia. Giuocatore e mettitore di malvagi dadi era
solenne. Perché mi distendo io in tante parole? egli era il piggiore uomo forse
che mai nascesse. La cui malizia lungo tempo sostenne la potenzia e lo stato di
messer Musciatto, per cui molte volte e dalle private persone, alle quali assai
sovente faceva ingiuria, e dalla corte, a cui tuttavia la facea, fu riguardato.
Venuto adunque questo ser
Cepperello nell’animo a messer Musciatto, il quale ottimamente la sua vita
conosceva, si pensò il detto messer Musciatto costui dovere essere tale quale
la malvagità de’ borgognoni il richiedea; e perciò, fattolsi chiamare, gli
disse così: «Ser
Ciappelletto, come tu sai, io sono per ritrarmi del tutto di qui: e avendo tra
gli altri a fare co’ borgognoni, uomini pieni d’inganni, non so cui io mi possa
lasciare a riscuotere il mio da loro più convenevole di te. E perciò, con ciò
sia cosa che tu niente facci al presente, ove a questo vogli intendere, io
intendo di farti avere il favore della corte e di donarti quella parte di ciò
che tu riscoterai che convenevole sia».
Ser Ciappelletto, che scioperato
si vedea e male agitato delle cose del mondo e lui ne vedeva andare che suo sostegno
e ritegno era lungamente stato, senza niuno indugio e quasi da necessità
costretto si diliberò, e disse che volea volentieri. Per che, convenutisi
insieme, ricevuta ser Ciappelletto la procura e le lettere favorevoli del re,
partitosi messer Musciatto, n’andò in Borgogna dove quasi niuno il conoscea; e
quivi, fuor di sua natura, benignamente e mansuetamente cominciò a voler
riscuotere e fare quello per che andato v’era, quasi si riserbasse l’adirarsi
al da sezzo.
E così faccendo, riparandosi in
casa di due fratelli fiorentini, li quali quivi ad usura prestavano e lui per
amor di messer Musciatto onoravano molto, avvenne che egli infermò. Al quale i
due fratelli fecero prestamente venire medici e fanti che il servissero e ogni
cosa opportuna alla sua santà racquistare. Ma ogni aiuto era nullo, per ciò che
’l buono uomo, il quale già era vecchio e disordinatamente vivuto, secondo che
i medici dicevano, andava di giorno in giorno di male in peggio, come colui ch’aveva
il male della morte; di che li due fratelli si dolevan forte.
E un giorno, assai vicini della
camera nella quale ser Ciappelletto giaceva infermo, seco medesimi cominciarono
a ragionare. «Che
farem noi» diceva
l’uno all’altro «di
costui? Non abbiamo de’ fatti suoi pessimo partito alle mani: per ciò che il
mandarlo fuori di casa nostra così infermo ne sarebbe gran biasimo e segno
manifesto di poco senno, veggendo la gente che noi l’avessimo ricevuto prima e
poi fatto servire e medicare così sollecitamente, e ora, senza potere egli aver
fatta cosa alcuna che dispiacere ci debba, così subitamente di casa nostra e
infermo a morte vederlo mandar fuori. D’altra parte, egli è stato sì malvagio
uomo, che egli non si vorrà confessare né prendere alcuno sacramento della
Chiesa; e, morendo senza confessione, niuna chiesa vorrà il suo corpo ricevere,
anzi sarà gittato a’ fossi a guisa d’un cane. E, se egli si pur confessa, i
peccati suoi son tanti e sì orribili che il simigliante n’avverrà, per ciò che
frate né prete ci sarà che ’l voglia né possa assolvere: per che, non assoluto,
anche sarà gittato a’ fossi. E se questo avviene, il popolo di questa terra, il
quale sì per lo mestier nostro, il quale loro pare iniquissimo e tutto ‘l
giorno ne dicon male, e sì per la volontà che hanno di rubarci, veggendo ciò,
si leverà a romore e griderà: ‘Questi lombardi cani, li quali a chiesa non sono
voluti ricevere, non ci si voglion più sostenere’; e correrannoci alle case e
per avventura non solamente l’avere ci ruberanno ma forse ci torranno oltre a
ciò le persone; di che noi in ogni guisa stiam male se costui muore».
Ser Ciappelletto, il quale, come
dicemmo, presso giacea là dove costoro così ragionavano, avendo l’udire
sottile, sì come le più volte veggiamo aver gl’infermi, udì ciò che costoro di
lui dicevano; li quali egli si fece chiamare, e disse loro: «Io non voglio che voi di
niuna cosa di me dubitiate né abbiate paura di ricevere per me alcun danno. Io
ho inteso ciò che di me ragionato avete e son certissimo che così n’avverrebbe
come voi dite, dove così andasse la bisogna come avvisate; ma ella andrà
altramenti. Io ho, vivendo, tante ingiurie fatte a Domenedio che, per farnegli
io una ora in su la mia morte, né più né meno ne farà. E per ciò procacciate di
farmi venire un santo e valente frate, il più che aver potete, se alcun ce n’è,
e lasciate fare a me, ché fermamente io acconcerò i fatti vostri e i miei in
maniera che starà bene e che dovrete esser contenti».
I due fratelli, come che molta
speranza non prendessono di questo, nondimeno se n’andarono ad una religione di
frati e domandarono alcuno santo e savio uomo che udisse la confessione d’un
lombardo che in casa loro era infermo; e fu lor dato un frate antico di santa e
di buona vita e gran maestro in Iscrittura e molto venerabile uomo, nel quale
tutti i cittadini grandissima e speziale divozione aveano, e lui menarono. Il
quale, giunto nella camera dove ser Ciappelletto giacea e allato postoglisi a
sedere, prima benignamente il cominciò a confortare, e appresso il domandò
quanto tempo era che egli altra volta confessato si fosse.
Al quale ser Ciappelletto, che
mai confessato non s’era, rispose: «Padre
mio, la mia usanza suole essere di confessarmi ogni settimana almeno una volta,
senza che assai sono di quelle che io mi confesso più; è il vero che poi ch’io
infermai, che son presso a otto dì, io non mi confessai, tanta è stata la noia
che la infermità m’ha data».
Disse allora il frate: «Figliuol mio, bene hai
fatto, e così si vuol fare per innanzi; e veggio che, poi sì spesso ti
confessi, poca fatica avrò d’udire o di dimandare».
Disse ser Ciappelletto: «Messer lo frate, non
dite così; io non mi confessai mai tante volte né sì spesso, che io sempre non
mi volessi confessare generalmente di tutti i miei peccati che io mi ricordassi
dal dì ch’i’ nacqui infino a quello che confessato mi sono; e per ciò vi
priego, padre mio buono, che così puntualmente d’ogni cosa mi domandiate come
se mai confessato non mi fossi. E non mi riguardate perch’io infermo sia, ché
io amo molto meglio di dispiacere a queste mie carni che, faccendo agio loro,
io facessi cosa che potesse essere perdizione dell’anima mia, la quale il mio
Salvatore ricomperò col suo prezioso sangue».
Queste parole piacquero molto al
santo uomo e parvongli argomento di bene disposta mente: e poi che a ser Ciappelletto
ebbe molto commendato questa sua usanza, il cominciò a domandare se egli mai in
lussuria con alcuna femina peccato avesse.
Al qual ser Ciappelletto
sospirando rispose: «Padre
mio, di questa parte mi vergogno io di dirvene il vero, temendo di non peccare
in vanagloria».
Al quale il santo frate disse: «Dí sicuramente, ché il vero dicendo né in confessione
né in altro atto si peccò giammai».
Disse allora ser Ciappelletto: «Poiché voi di questo mi
fate sicuro, e io il vi dirò: io son così vergine come io usci’ del corpo della
mamma mia».
«Oh, benedetto sie tu da Dio!» disse il frate «come bene hai fatto! e, faccendolo, hai tanto più
meritato, quanto, volendo, avevi più d’albitrio di fare il contrario che non
abbiam noi e qualunque altri son quegli che sotto alcuna regola son costretti».
E appresso questo il domandò se
nel peccato della gola aveva a Dio dispiaciuto. Al quale, sospirando forte, ser
Ciappelletto rispose di sì e molte volte; per ciò che, con ciò fosse cosa che
egli, oltre alli digiuni delle quaresime che nell’anno si fanno dalle divote
persone, ogni settimana almeno tre dì fosse uso di digiunare in pane e in
acqua, con quello diletto e con quello appetito l’acqua bevuta avea, e
spezialmente quando avesse alcuna fatica durata o adorando o andando in
pellegrinaggio, che fanno i gran bevitori il vino; e molte volte aveva
disiderato d’avere cotali insalatuzze d’erbucce, come le donne fanno quando
vanno in villa, e alcuna volta gli era paruto migliore il mangiare che non
pareva a lui che dovesse parere a chi digiuna per divozione, come digiunava
egli.
Al quale il frate disse: «Figliuol mio, questi
peccati sono naturali e sono assai leggieri, e per ciò io non voglio che tu ne
gravi più la coscienza tua che bisogni. Ad ogni uomo avviene, quantunque santissimo
sia, il parergli dopo lungo digiuno buono il manicare, e dopo la fatica il bere».
«Oh!»
disse ser Ciappelletto «padre
mio, non mi dite questo per confortarmi; ben sapete che io so che le cose che
al servigio di Dio si fanno, si deono fare tutte nettamente e senza alcuna
ruggine d’animo; e chiunque altramenti fa, pecca».
Il frate contentissimo disse: «E io son contento che
così ti cappia nell’animo e piacemi forte la tua pura e buona conscienza in
ciò. Ma dimmi: in avarizia hai tu peccato disiderando più che il convenevole o
tenendo quello che tu tener non dovesti?»
Al quale ser Ciappelletto disse: «Padre mio, io non vorrei
che voi guardasti perché io sia in casa di questi usurieri: io non ci ho a far
nulla, anzi ci era venuto per dovergli ammonire e gastigare e torgli da questo
abominevole guadagno; e credo mi sarebbe venuto fatto, se Idio non m’avesse
così visitato. Ma voi dovete sapere che mio padre mi lasciò ricco uomo, del cui
avere, come egli fu morto, diedi la maggior parte per Dio; e poi, per sostentar
la vita mia e per potere aiutare i poveri di Cristo, ho fatte mie piccole
mercatantie, e in quelle ho disiderato di guadagnare. E sempre co’ poveri di
Dio, quello che guadagnato ho, ho partito per mezzo, la mia metà convertendo
ne’ miei bisogni, l’altra metà dando loro: e di ciò m’ha sì bene il mio
Creatore aiutato, che io ho sempre di bene in meglio fatti i fatti miei».
«Bene hai fatto:» disse il frate «ma come ti se' tu spesso adirato?»
«Oh!»
disse ser Ciappelletto «cotesto
vi dico io bene che io ho molto spesso fatto; e chi se ne potrebbe tenere,
veggendo tutto il dì gli uomini fare le sconce cose, non servare i comandamenti
di Dio, non temere i suoi giudicii? Egli sono state assai volte il dì che io
vorrei più tosto essere stato morto che vivo, veggendo i giovani andar dietro
alle vanità e udendogli giurare e spergiurare, andare alle taverne, non visitar
le chiese e seguir più tosto le vie del mondo che quella di Dio».
Disse allora il frate: «Figliuol mio, cotesta è
buona ira, né io per me te ne saprei penitenzia imporre; ma per alcun caso,
avrebbeti l’ira potuto inducere a fare alcuno omicidio o a dire villania a
persona o a fare alcun’altra ingiuria?»
A cui ser Ciappelletto rispose: «Ohimè, messere, o voi mi
parete uomo di Dio: come dite voi coteste parole? o s’io avessi avuto pure un pensieruzzo
di fare qualunque s’è l'una delle cose che voi dite, credete voi che io creda
che Idio m’avesse tanto sostenuto? Coteste son cose da farle gli scherani e i
rei uomini, de’ quali qualunque ora io n’ho mai veduto alcuno, sempre ho detto:
‘Va, che Idio ti converta’».
Allora disse il frate: «Or mi dì, figliuol mio,
che benedetto sia tu da Dio: hai tu mai testimonianza niuna falsa detta contro
alcuno o detto male d'altrui o tolte dell’altrui cose senza piacere di colui di
cui sono?»
«Mai messer sì,» rispose ser Ciappelletto «che io ho detto male d’altrui; per ciò che io ebbi
già un mio vicino che, al maggior torto del mondo, non faceva altro che batter
la moglie, sì che io dissi una volta mal di lui alli parenti della moglie, sì
gran pietà mi venne di quella cattivella, la quale egli, ogni volta che bevuto
avea troppo, conciava come Dio vel dica».
Disse allora il frate: «Or bene, tu mi di' che
se' stato mercatante: ingannasti tu mai persona così come fanno i mercatanti?»
«Gnaffé,»
disse ser Ciappelletto «messer
sì, ma io non so chi egli si fu: se non che, uno avendomi recati danari che
egli mi doveva dare di panno che io gli avea venduto e io messigli in una mia
cassa senza annoverare, ivi bene ad un mese trovai ch’egli erano quattro
piccioli più che esser non doveano; per che, non rivedendo colui e avendogli
serbati bene uno anno per rendergliele, io gli diedi per l’amor di Dio».
Disse il frate: «Cotesta fu piccola cosa,
e facesti bene a farne quello che ne facesti».
E, oltre a questo, il domandò il
santo frate di molte altre cose, delle quali di tutte rispose a questo modo; e
volendo egli già procedere all’absoluzione, disse ser Ciappelletto: «Messere, io ho ancora
alcun peccato che io non v’ho detto».
Il frate il domandò quale; e egli
disse: «Io mi
ricordo che io feci al fante mio un sabato dopo nona, spazzare la casa e non
ebbi alla santa domenica quella reverenza che io dovea».
«Oh!»
disse il frate «figliuol
mio, cotesta è leggier cosa».
«Non,»
disse ser Ciappelletto «non
dite leggier cosa, ché la domenica è troppo da onorare, però che in così fatto
dì risuscitò da morte a vita il nostro Signore».
Disse allora il frate: «O, altro hai tu fatto?»
«Messer sì,»
rispose ser Ciappelletto «ché
io, non avvedendomene, sputai una volta nella chiesa di Dio».
Il frate cominciò a sorridere e
disse: «Figliuol
mio, cotesta non è cosa da curarsene: noi, che siamo religiosi, tutto il dì vi
sputiamo».
Disse allora ser Ciappelletto: «E voi fate gran
villania, per ciò che niuna cosa si convien tener netta come il santo tempio,
nel quale si rende sacrificio a Dio».
E in brieve de’ così fatti ne gli
disse molti; e ultimamente cominciò a sospirare e appresso a piagner forte,
come colui che il sapeva troppo ben fare quando volea.
Disse il santo frate: «Figliuol mio, che hai
tu?»
Rispose ser Ciappelletto: «Ohimè, messere, ché un
peccato m’è rimaso, del quale io non mi confessai mai, sì gran vergogna ho di
doverlo dire; e ogni volta ch’io me ne ricordo piango come voi vedete, e parmi
essere molto certo che Idio mai non avrà misericordia di me per questo peccato».
Allora il santo frate disse: «Va via, figliuol, che è
ciò che tu di’? Se tutti i peccati che furon mai fatti da tutti gli uomini, o
che si debbon fare da tutti gli uomini mentre che il mondo durerà, fosser tutti
in uno uom solo, ed egli ne fosse pentuto e contrito come io veggio te, si è
tanta la benignità e la misericordia di Dio, che, confessandogli egli, gliele
perdonerebbe liberamente; e per ciò dillo sicuramente».
Disse allora ser Ciappelletto
sempre piagnendo forte: «Ohimè,
padre mio, il mio è troppo gran peccato, e appena posso credere, se i vostri
prieghi non ci si adoperano, che egli mi debba mai da Dio esser perdonato».
A cui il frate disse: «Dillo sicuramente, ché
io ti prometto di pregare Idio per te».
Ser Ciappelletto pur piagnea e
nol dicea, e il frate pur il confortava a dire; ma poi che ser Ciappelletto
piagnendo ebbe un grandissimo pezzo tenuto il frate così sospeso, e egli gittò
un gran sospiro e disse: «Padre
mio, poscia che voi mi promettete di pregare Idio per me, e io il vi dirò: sappiate
che, quando io era piccolino, io bestemmiai una volta la mamma mia». E così detto
ricominciò a piagner forte.
Disse il frate: «O figliuol mio, or parti
questo così gran peccato? o gli uomini bestemmiano tutto il giorno Idio, e sì
perdona Egli volentieri a chi si pente d’averlo bestemmiato; e tu non credi che
Egli perdoni a te questo? Non piagner, confortati, ché fermamente, se tu fossi
stato un di quegli che il posero in croce, avendo la contrizione ch’io ti
veggio, sì ti perdonerebbe Egli».
Disse allora ser Ciappelletto: «Oimè, padre mio, che
dite voi? la mamma mia dolce, che mi portò in corpo nove mesi il dì e la notte
e portommi in collo più di cento volte! troppo feci male a bestemmiarla e
troppo è gran peccato; e se voi non pregate Idio per me, egli non mi serà
perdonato».
Veggendo il frate non essere
altro restato a dire a ser Ciappelletto, gli fece l’absoluzione e diedegli la
sua benedizione, avendolo per santissimo uomo, sì come colui che pienamente
credeva esser vero ciò che ser Ciappelletto avea detto: e chi sarebbe colui che
nol credesse, veggendo uno uomo in caso di morte dir così?
E poi, dopo tutto questo, gli
disse: «Ser
Ciappelletto, con l’aiuto di Dio voi sarete tosto sano; ma se pure avvenisse
che Idio la vostra benedetta e ben disposta anima chiamasse a sé, piacevi egli
che ’l vostro corpo sia sepellito al nostro luogo?»
Al quale ser Ciappelletto
rispose: «Messer
sì, anzi non vorrei io essere altrove, poscia che voi m’avete promesso di
pregare Idio per me; senza che io ho avuta sempre spezial divozione al vostro Ordine.
E per ciò vi priego che, come voi al vostro luogo sarete, facciate che a me
vegna quel veracissimo corpo di Cristo il qual voi la mattina sopra l’altare
consecrate; per ciò che, come che io degno non ne sia, io intendo colla vostra
licenzia di prenderlo, e appresso la santa e ultima unzione, acciò che io, se
vivuto son come peccatore, almeno muoia come cristiano».
Il santo uomo disse che molto gli
piacea e che egli dicea bene, e farebbe che di presente gli sarebbe apportato;
e così fu.
Li due fratelli, li quali
dubitavan forte non ser Ciappelletto gl’ingannasse, s’eran posti appresso a un
tavolato, il quale la camera dove ser Ciappelletto giaceva dividea da un’altra,
e ascoltando leggiermente udivano e intendevano ciò che ser Ciappelletto al
frate diceva; e aveano alcuna volta sì gran voglia di ridere, udendo le cose le
quali egli confessava d’aver fatte, che quasi scoppiavano: e fra sé talora
dicevano: «Che uomo
è costui, il quale né vecchiezza né infermità né paura di morte, alla qual si
vede vicino, né ancora di Dio, dinanzi al giudicio del quale di qui a picciola
ora s’aspetta di dovere essere, dalla sua malvagità l’hanno potuto rimuovere,
né far ch'egli così non voglia morire come egli è vivuto?» Ma pur vedendo che sì
aveva detto che egli sarebbe a sepoltura ricevuto in chiesa, niente del rimaso
si curarono.
Ser Ciappelletto poco appresso si
comunicò: e peggiorando senza modo ebbe l’ultima unzione e poco passato vespro,
quel dì stesso che la buona confessione fatta avea, si morì. Per la qual cosa
li due fratelli, ordinato di quello di lui medesimo come egli fosse
onorevolmente sepellito e mandatolo a dire al luogo de’ frati, e che essi vi
venissero la sera a far la vigilia secondo l’usanza e la mattina per lo corpo,
ogni cosa a ciò oportuna disposero.
Il santo frate che confessato l’avea,
udendo che egli era trapassato, fu insieme col priore del luogo; e fatto sonare
a capitolo, alli frati ragunati in quello mostrò ser Ciappelletto essere stato
santo uomo, secondo che per la sua confessione conceputo avea; e sperando per
lui Domenedio dovere molti miracoli dimostrare, persuadette loro che con
grandissima reverenzia e divozione quello corpo si dovesse ricevere. Alla qual
cosa il priore e gli altri frati creduli s’acordarono; e la sera, andati tutti
là dove il corpo di ser Ciappelletto giaceva, sopr’esso fecero una grande e
solenne vigilia; e la mattina, tutti vestiti co’ camisci e co’ pieviali, con li
libri in mano e con le croci innanzi cantando andaron per questo corpo e con
grandissima festa e solennità il recarono alla lor chiesa, seguendo quasi tutto
il popolo della città, uomini e donne. E nella chiesa postolo, il santo frate,
che confessato l’avea, salito in sul pergamo di lui cominciò e della sua vita,
de’ suoi digiuni, della sua virginità, della sua simplicità e innocenzia e
santità maravigliose cose a predicare, tra l’altre cose narrando quello che ser
Ciappelletto per lo suo maggior peccato piangendo gli avea confessato, e come
esso appena gli avea potuto metter nel capo che Idio gliele dovesse perdonare,
da questo volgendosi a riprendere il popolo che ascoltava, dicendo: «E voi, maledetti da Dio,
per ogni fuscello di paglia che vi si volge tra’ piedi bestemmiate Idio e la
Madre e tutta la corte di Paradiso».
E oltre a queste, molte altre
cose disse della sua lealtà e della sua purità: e in brieve colle sue parole,
alle quali era dalla gente della contrada data intera fede, sì il mise nel capo
e nella divozion di tutti coloro che v’erano, che, poi che fornito fu l’uficio,
con la maggior calca del mondo da tutti fu andato a basciargli i piedi e le
mani, e tutti i panni gli furono indosso stracciati, tenendosi beato chi pure un
poco di quegli potesse avere: e convenne che tutto il giorno così fosse tenuto,
acciò che da tutti potesse essere veduto e visitato. Poi, la vegnente notte, in
una arca di marmo sepellito fu onorevolmente in una cappella: e a mano a mano
il dì seguente vi cominciarono le genti a andare e a accender lumi e a
adorarlo, e per conseguente a botarsi e a appicarvi le imagini della cera
secondo la promession fatta.
E in tanto crebbe la fama della
sua santità e divozione a lui, che quasi niuno era che in alcuna avversità
fosse, che a altro santo che a lui si botasse, e chiamaronlo e chiamano san
Ciappelletto; e affermano molti miracoli Idio aver mostrati per lui e mostrare
tutto giorno a chi divotamente si raccomanda a lui.
Così adunque visse e morì ser
Cepparello da Prato e santo divenne come avete udito. Il quale negar non voglio
essere possibile lui essere beato nella presenza di Dio, per ciò che, come che
la sua vita fosse scelerata e malvagia, egli poté in su lo stremo aver sì fatta
contrizione, che per avventura Idio ebbe misericordia di lui e nel suo regno il
ricevette; ma, per ciò che questo n’è occulto, secondo quello che ne può
apparire ragiono, e dico costui più tosto dovere essere nelle mani del diavolo
in perdizione che in Paradiso. E se così è, grandissima si può la benignità di Dio
cognoscere verso noi, la quale non al nostro errore ma alla purità della fede
riguardando, così faccendo noi nostro mezzano un suo nemico, amico credendolo,
ci essaudisce, come se a uno veramente santo per mezzano della sua grazia
ricorressimo.
Miniatura del XV secolo raffigurante due momenti della novella di ser
Ciappelletto in una edizione manoscritta del “Decameron”: a sinistra la
confessione con il frate, a destra la santificazione del protagonista
PARAFRASI IN ITALIANO MODERNO
Ser Cepparello con una falsa
confessione inganna un santo frate prima di morire; così se è stato un pessimo
uomo in vita, da morto viene ritenuto santo e chiamato san Ciappelletto.
Si narra che essendo Musciatto
Franzesi ricchissimo e grande mercante in Francia divenuto cavaliere e dovendo
venire in Toscana con messer Carlo Senzaterra, fratello del re di Francia,
richiesto e sollecitato a ritornare da papa Bonifacio, sapendo egli che i suoi
affari, come spesso accade ai mercanti, erano piuttosto intralciati qua e là e
non si potevano sbrogliare facilmente e rapidamente, pensò di affidarli a più
persone e per tutti trovò una soluzione: non riusciva però a trovare qualcuno
di capace di riscuotere certi crediti che aveva con alcuni borgognoni. E questo
perché sapeva che i borgognoni sono litigiosi e di indole malvagia e sleali; e
non ricordava che ci fosse nessuno tanto malvagio di cui fidarsi per
contrapporlo alla loro malvagità. E dopo averci pensato a lungo, si ricordò di
un ser Cepparello da Prato, il quale aveva albergato spesso nella sua casa di
Parigi; costui, essendo piccolo di statura e molto affettato, e non sapendo i
francesi che cosa voglia dire Cepparello [diminutivo di Ciapo, deformazione di
Jacopo], credendo che significasse ‘cappello’, cioè ‘ghirlanda’ come essi
dicono, considerando come abbiamo detto che era basso di statura, non lo
chiamavano Ciappello, bensì Ciappelletto, e come Ciappelletto era da tutti
conosciuto, ben pochi conoscendolo come ser Cepperello.
Questo Ciappelletto viveva così:
essendo notaio, egli provava una grandissima vergogna quando uno dei suoi
numerosi atti notarili non fosse trovato falso; ne avrebbe fatti tanti quanti
gliene venissero richiesti e quelli li avrebbe fatti anche gratis, piuttosto
che altri con grande compenso. Diceva con sommo diletto false testimonianze,
richiesto e non richiesto; e poiché in quei tempi in Francia si prestava
grandissima fede ai giuramenti, non curandosi di darli falsi, vinceva tante
dispute con grande malvagità quante erano quelle sopra cui veniva chiamato a
giurare il vero. Provava un enorme piacere, e vi si appassionava fortemente,
nell’intessere tra amici e parenti e chiunque altro mali e inimicizie e
scandali, tanto che più se ne rallegrava quanto maggiori erano i mali che ne
conseguivano. Invitato a un omicidio o a qualunque altra azione malvagia, senza
mai negarsi, vi partecipava con somma volontà e più volte si ritrovò volentieri
a ferire e uccidere uomini con le proprie mani. Era un grandissimo
bestemmiatore di Dio e dei Santi ed era iracondo più di ogni altro, anche per
una piccolissima ragione. Non soleva andare mai andare in chiesa e scherniva
tutti i sacramenti di quella come cosa vile e con abominevoli parole; al
contrario frequentava volentieri le taverne e tutti gli altri posti disonesti.
Era così desideroso di femmine, tanto quanto lo sono i cani dei bastoni; si
dilettava alquanto del contrario [cioè con i maschi] più di qualunque altro
uomo. Avrebbe commesso furti e rapine con la stessa coscienza con cui un
sant’uomo avrebbe fatto l’elemosina. Era assai goloso e gran bevitore, tanto da
starne male sconciamente qualche volta. Era solenne nel gioco e nell’uso di
dadi truccati. Perché mi dilungo in così tante parole? Egli era il peggior uomo
che fosse mai nato. La sua malizia aveva salvaguardato a lungo la potenza e la
condizione di messer Musciatto, che gli permise di essere risparmiato molte
volte sia dai privati, ai quali faceva spesso ingiuria, sia dalla polizia, cui
la faceva di continuo.
Ricordandosi dunque di questo ser
Cepparello, messer Musciatto, che ne conosceva benissimo la vita, pensò che
egli fosse la persona adatta contro la malvagità dei borgognoni; perciò,
fattolo chiamare, gli disse così: «Ser
Ciappelletto, come sai io sto per ritirarmi; ma poiché ho ancora degli affari
in sospeso con dei borgognoni, uomini pieni d’inganni, ho pensato che non ci
sia nessuno più capace di te di riscuotere da loro quanto mi spetta. Perciò,
dato che al momento non stai facendo niente, se ti vuoi occupare di questo, io
ho in mente di farti avere il favore della corte reale e di donarti quella
parte che riterrai conveniente da ciò che riscuoterai».
Ser Ciappelletto, che era in quel momento disoccupato e in
non buone condizioni economiche e vedeva che stava per andarsene colui che
lungamente gli era stato sostegno e protezione, senza alcun indugio e quasi
costretto dalla necessità si decise ed accettò volentieri l’incarico. Per cui,
messisi d’accordo insieme, ser Ciappelletto ricevette la procura e le lettere
del re e, quando Musciatto partì, se n’andò in Borgogna, dove quasi nessuno lo
conosceva; e qui, contrariamente alla sua indole, iniziò a occuparsi delle
riscossioni per cui era andato lì benignamente, quasi volendo riservare le
maniere cattive da ultimo.
Mentre così si comportava, essendo ospite in casa di due
fratelli fiorentini, dediti al prestito a usura e che lo onoravano per amor di
messer Musciatto, accadde che si ammalò. Subito i due fratelli fecero giungere
medici e servi e ogni cosa che fosse necessaria per fargli riacquistare la
salute. Ma ogni mezzo era inutile, perché il buon uomo, che era vecchio ed era
vissuto disordinatamente, come dicevano i medici, peggiorava di giorno in giorno,
come colui che aveva il male della morte; della qual cosa i due fratelli erano
assai addolorati.
Un giorno, trovandosi vicini alla camera in cui ser
Ciappelletto giaceva infermo, cominciarono a discutere tra loro. «Che cosa
faremo», diceva uno all’altro, «di costui? A causa sua ci troviamo a mal
partito: perché se lo mandassimo fuori di casa nostra mentre è così infermo ne
avremmo gran biasimo e daremmo prova di aver poco senno, poiché la gente ha
visto che prima l’abbiamo ricevuto in casa nostra e poi siamo stati solleciti
nel servirlo e medicarlo, e ora, senza che lui possa averci fatto alcunché di
male, lo cacciamo pur essendo in punto di morte. D’altra parte, egli è stato un
uomo talmente malvagio, che non vorrà né confessarsi né prendere alcun
sacramento religioso; e, morendo senza essersi confessato, nessuna chiesa vorrà
ricevere il suo corpo, anzi, sarà gettato in un fossato a guisa d’un cane. E se
anche si confessasse, i suoi peccati sono così tanti e così orribili, che ci
accadrà lo stesso, dato che non esiste frate né prete che voglia o possa
assolverlo: cosicché, senza assoluzione, sarà ugualmente gettato nei fossi. E se
questo avviene, il popolo di questa terra, sia perché parla male in
continuazione di noi a causa del nostro mestiere che a loro sembra ingiusto,
sia perché hanno voglia di derubarci, si leverà in tumulto e griderà: ‘Questi
cani di lombardi [come venivano chiamati
in Francia tutti gli abitanti dell’Italia settentrionale, fino alla Toscana]
che non si lasciano nemmeno entrare in chiesa, qui non li vogliamo più
tollerare’; e ci verranno in casa e ci ruberanno non solo gli averi ma anche la
vita; e in ogni caso, se costui muore, noi siamo fritti».
Ser Ciappelletto, che come abbiamo detto giaceva là vicino, poiché
aveva l’udito fine, come succede spesso agli infermi, sentì ciò che essi dicevano
di lui; li chiamò e disse loro: «Io non voglio che temiate di nulla a causa mia,
né che abbiate paura di ricevere un qualche danno. Ho sentito i vostri
ragionamenti e sono certissimo che accadrebbe come voi avete detto, se tutto
accadesse come pensate; ma la cosa andrà in un altro modo. Vivendo, io ho fatto
tante di quelle offese a Dio, che, se gliene faccio un’altra in punto di morte,
non ne terrà alcun conto; perciò fate in modo di mandarmi qui un frate santo e
capace, il meglio che potete avere, se ce n’è qualcuno; e lasciate fare a me, perché
sistemerò gli affari vostri nel giusto modo e in maniera che ne sarete contenti».
I due fratelli, pur senza grande speranza, se n’andarono a
un convento di frati e chiesero di un uomo santo e saggio che venisse ad
ascoltare la confessione d’un lombardo che era a casa loro ammalato; e fu loro
affidato un vecchio frate di vita santa e buona, gran maestro nelle Scritture,
uomo molto venerabile, per il quale tutti i cittadini avevano una grandissima e
speciale devozione, ed essi lo condussero a casa loro. Il frate, giunto nella
camera dove ser Ciappelletto giaceva, sedutosi al suo fianco, prima cominciò a
confortarlo benevolmente, poi gli chiese quanto tempo fosse passato dall’ultima
sua confessione.
Ser Ciappelletto, che non si era mai confessato, gli rispose:
«Padre mio, sono solito confessarmi almeno una volta alla settimana, ma di
solito mi confesso di più; però è vero che da quando mi sono ammalato, sono già
passati otto giorni, durante i quali non mi sono mai confessato, tanta è stata
la noia che l’infermità mi ha dato».
Disse allora il frate: «Figliolo mio, hai fatto bene e così
si deve fare d’ora in poi; e dato che così spesso ti confessi, mi costerà poca
fatica ascoltare o chiederti i tuoi peccati».
Disse ser Ciappelletto: «Messere frate, non dite così: io
non mi sono confessato mai tante volte né così spesso, che non abbia sempre
voluto confessarmi di tutti i miei peccati che ricordassi dal giorno in cui
sono nato fino all’ultimo; perciò vi prego, padre mio buono, di chiedermi
minutamente ogni cosa, come se non mi fossi mai confessato; e non abbiate
riguardi se sono infermo, perché preferisco dispiacere a queste mie carni,
piuttosto che, per far loro indulgenza, fare qualcosa che possa essere di
perdizione alla mia anima, che il mio Salvatore ricomperò con il suo prezioso
sangue».
Queste parole piacquero molto al sant’uomo e gli parvero
indizio di una mente ben disposta: e dopo aver lodato lungamente ser
Ciappelletto per questa sua usanza, cominciò col chiedergli se avesse mai
peccato di lussuria con qualche femmina.
Sospirando ser Ciappelletto rispose: «Padre mio, su questo
mi vergogno a dirvi il vero, perché temo di peccare di vanagloria».
E il santo frate disse: «Di’ sicuramente, perché dicendo il
vero mai si è fatto peccato né nella confessione né in altro atto».
Disse allora ser Ciappelletto: «Poiché mi assicurate di
questo, ve lo dirò: io sono così vergine come quando uscii dal corpo della
mamma mia».
«Oh, che tu sia benedetto da Dio!» disse il frate «quanto
hai fatto bene! e facendolo, hai tanto più meritato, in quanto, volendo, avevi
maggior facoltà di fare il contrario di quanta ne abbiamo noi e chiunque altro
ne sia costretto da qualche regola monastica».
E dopo questo gli domandò se avesse dispiaciuto a Dio nel
peccato della gola. E, sospirando forte, ser Ciappelletto rispose di sì e molte
volte; per il fatto che, quantunque oltre ai digiuni quaresimali che i devoti
fanno nel corso dell’anno, egli fosse solito digiunare a pane e acqua almeno
tre giorni alla settimana, aveva bevuto quell’acqua con quel diletto e quell’appetito,
e specialmente dopo una fatica dovuta alle preghiere o a un pellegrinaggio, che
hanno i gran bevitori di vino; e molte volte aveva desiderato quelle insalatine d’erbette, come fanno le
donne quando vanno in campagna, e qualche volta gli era sembrato il mangiare
migliore di quanto non gli sembrasse che
dovesse sembrare a chi digiuna per devozione, come digiunava lui.
Al che il frate disse: «Figliolo mio, questi peccati sono
naturali e assai leggeri, perciò io non voglio che ti pesino sulla coscienza
più di quanto bisogni. Ad ogni uomo accade, per quanto santissimo sia, che gli
sembri buono dopo lungo digiuno il mangiare e dopo la fatica il bere».
«Oh!» disse ser Ciappelletto, «padre mio, non ditemi questo
per confortarmi: sapete bene che io so che le cose che si fanno al servizio di
Dio, si devono fare tutte nettamente e senza alcuna macchia d’animo: e chiunque
faccia altrimenti, pecca».
Il frate contentissimo disse: «sono contento che la pensi
così e mi piace molto la tua pura e buona coscienza in questo. Ma dimmi: in
avarizia hai tu peccato desiderando più di quel che conviene o tenendo ciò che
non dovevi tenere?»
Al che ser Ciappelletto disse: «Padre mio, io non vorrei che
voi abbiate dei sospetti perché mi trovo in casa di questi usurai: io non ci ho
nulla a che fare, anzi c’ero venuto per ammonirli e castigarli e toglierli da
questo abominevole guadagno; e credo che ci sarei riuscito, se Dio non mi
avesse così visitato. Ma voi dovete sapere che mio padre mi lasciò uomo ricco,
della cui eredità, appena egli morì, diedi la maggior parte per amor di Dio [cioè in carità]; e poi, per
sostentamento della mia vita e per poter aiutare i poveri di Cristo, ho fatto
alcuni piccoli affari col desiderio di guadagnarci qualcosa. Ma sempre con i
poveri di Dio ho fatto a metà di quello che ho guadagnato, la mia metà
convertendola in ciò di cui avevo bisogno, l’altra metà dandola a loro: e di
ciò mi ha così aiutato il mio Creatore, che i miei affari sono andati sempre di
bene in meglio».
«Hai fatto bene» disse il frate: «ma quante volte ti sei
adirato?»
«Oh!» disse ser Ciappelletto «devo dire che questo l’ho
fatto molte volte; e chi potrebbe trattenersi, vedendo tutto il giorno gli
uomini fare cose sconce, non osservare i comandamenti di Dio, non temere i suoi
castighi? Mi è successo più volte al giorno che avrei preferito essere morto
anziché vivo, vedendo i giovani andar dietro alle vanità e sentendoli giurare e
spergiurare, andare nelle taverne, non frequentare le chiese e seguire
piuttosto le vie del mondo che quella di Dio».
Disse allora il frate: «Figliolo mio, codesta è una
buona ira, né io saprei importi una penitenza; ma per caso può l’ira averti
indotto a fare un omicidio o a dire villania a una persona o a fare qualche
altra offesa?»
A ciò ser Ciappelletto rispose: «Ohimè, messere, eppure mi
sembrate uomo di Dio: come potete dire simili parole? Se io avessi avuto solo
la più pallida idea di fare una qualunque delle cose che mi avete detto,
credete voi che io creda che Dio mi avrebbe tanto sostenuto? Codeste sono cose
che possono fare i malandrini e i rei uomini, dei quali ogni volta che ne ho
veduto uno ho sempre detto: ‘Va, che Iddio ti converta’».
Allora disse il frate: «Or dimmi, figliolo mio, che tu sia
benedetto da Dio: hai mai detto una qualche falsa testimonianza contro qualcuno
o parlato male di altri o tolte a qualcuno le sue cose senza curarti di chi
fossero?»
«Signorsì», rispose ser Ciappelletto «che ho detto male di
altri; infatti io ebbi un vicino che, al maggior torto del mondo, non faceva
altro che battere la moglie, cosicché io una volta dissi male di lui ai parenti
della moglie, tale era la pietà che provavo per quella poveretta, che egli,
ogni volta che aveva bevuto troppo, conciava come solo Dio sa».
Disse allora il frate: «Orbene, tu mi dici che sei stato
mercante: hai mai ingannato qualcuno così come fanno i mercanti?»
«In fede mia», disse ser Ciappelletto «messere sì, ma io non
so chi egli fosse: se non che, avendomi uno dato dei denari per un panno che
gli avevo venduto e avendogli io messi in una mia cassa senza contarli, dopo un
mese buono mi accorsi che c’erano quattro piccioli più di quello che dovevano
essere; per cui, non rivedendo colui e dopo averli conservati per un anno con l’intento
di renderglieli, gli diedi per l’amor di Dio».
Disse il frate: «Codesta fu una cosa da niente e facesti
bene a farne quello che ne hai fatto».
E, oltre a questo, il santo frate gli chiese molte altre
cose, a tutte le quali rispose in questo modo; e volendo egli già procedere all’assoluzione,
ser Ciappelletto disse: «Messere, io ho ancora qualche peccato che non vi ho
detto».
Il frate gli domandò quale ed egli disse: «Mi ricordo che
obbligai un mio servo, un sabato dopo l’ora nona [cioè l’ora precedente al vespro del sabato, con cui iniziava la
celebrazione della domenica], a spazzare la casa e non ebbi quel rispetto
che dovevo alla santa domenica».
«Oh!» disse il frate «figliolo mio, codesta è una cosa da
poco».
«No», disse ser Ciappelletto «non dite cosa da poco, che la domenica è troppo da onorare,
dato che in questo dì nostro Signore resuscitò da morte a vita».
Disse allora il frate: «Hai fatto qualcos’altro?»
«Sì messere», rispose ser Ciappelletto «perché una volta,
senza avvedermene, sputai nella chiesa di Dio».
Il frate cominciò a sorridere e disse: «Figliolo mio,
codesta non è cosa di cui curarsi: noi, che siamo religiosi, vi sputiamo tutto
il giorno».
Disse allora ser Ciappelletto: «E voi fate una gran
villania, perché nessuna cosa conviene tener pulita quanto il santo tempio, nel
quale si rende sacrificio a Dio».
E in breve di fatti simili ne disse molti; e alla fine
cominciò a sospirare e appresso a pianger forte, come uno che lo sapeva fare
fin troppo bene quando voleva.
Disse il santo frate: «Figliolo mio, che hai?»
Rispose ser Ciappelletto: «Ohimè, messere, mi è rimasto un
peccato, del quale non mi sono mai confessato, tanta è la vergogna che ho di
doverlo dire; e ogni volta che me ne ricordo piango come voi vedete, e mi
sembra di essere assolutamente certo che mai Iddio avrà misericordia di me per
questo peccato».
Allora il santo frate disse: «Suvvia, figliolo, cos’è che
dici? Se tutti i peccati che sono mai stati commessi da tutti gli uomini, o che
si dovranno fare da tutti gli uomini finché il mondo durerà, fossero tutti in
un solo uomo, ed egli ne fosse pentito e contrito come io vedo te, è tale la
benignità e la misericordia di Dio, che, qualora egli li confessasse, Lui
glieli perdonerebbe volentieri: perciò di’ il tuo apertamente».
Disse allora ser Ciappelletto sempre piangendo forte: «Ohimé,
padre mio, il mio è un peccato troppo grande e a fatica posso credere, se le
vostre preghiere non mi soccorrono, che esso possa essermi perdonato da Dio».
A che il frate disse: «Dillo sicuramente, ché ti prometto di
pregare Iddio per te».
Ser Ciappelletto continuava a piangere e non lo diceva, e il
frate continuava a confortarlo perché lo dicesse; ma dopo che ser Ciappelletto
ebbe per un gran pezzo tenuto il frate così sospeso, ecco che gettò un gran
sospiro e disse: «Padre mio, date che mi promettete di pregare Iddio per me, ve
lo dirò: sappiate che, quand’ero piccolino, ingiuriai una volta la mamma mia». E
così detto ricominciò a pianger forte.
Disse il frate: «O figliolo mio, ti sembra questo un così
gran peccato? Gli uomini offendono tutto il giorno Iddio, eppure Egli perdona
volentieri chi si pente d’averlo offeso; e tu non credi che Egli perdoni a te
questo? Non piangere, confortati, ché davvero, se tu fossi stato uno di quelli
che lo misero in croce, avendo la contrizione che io ti vedo, Egli ti
perdonerebbe».
Disse allora ser Ciappelletto: «Ohimé, padre mio, che dite
voi? la mamma mia dolce, che mi portò in corpo nove mesi il dì e la notte e mi
portò al collo più di cento volte! troppo feci male a ingiuriarla e troppo è
gran peccato; e se voi non pregate Iddio per me, esso non mi sarà perdonato».
Vedendo il frate che non era
rimasto altro da dire a ser Ciappelletto, gli fece l’assoluzione e gli diede la
sua benedizione, stimandolo un santissimo uomo, così come colui che credeva
pienamente fosse vero ciò che ser Ciappelletto aveva detto: e chi sarebbe colui
che non lo credesse, vedendo un uomo in punto di morte dir così?
E poi, dopo tutto questo, gli
disse: «Ser Ciappelletto,
con l’aiuto di Dio voi sarete presto guarito; ma se pure avvenisse che Iddio la
vostra benedetta e ben disposta anima chiamasse a sé, siete contento che il
vostro corpo sia seppellito nel nostro convento?»
Al che ser Ciappelletto rispose: «Sì messere, anzi non vorrei io
essere altrove, dato che mi avete promesso di pregare Iddio per me: senza
contare che io ho avuto sempre una speciale devozione al vostro Ordine. Perciò vi
prego che, come sarete ritornato al vostro convento, facciate che mi giunga
quel veracissimo corpo di Cristo che voi la mattina consacrate sull’altare; in
quanto, pur non essendone degno, io intendo con il vostro permesso prenderlo, e
poi la santa e estrema unzione, affinché io, se sono vissuto come peccatore,
almeno muoia come cristiano».
Il santo uomo disse che molto gli
piaceva e che egli diceva bene, e che avrebbe fatto in modo che subito gli
fosse portato; e così fu.
I due fratelli, che dubitavano
fortemente che ser Ciappelletto non li ingannasse, si erano messi appresso a un
tavolato, il quale divideva la camera dove ser Ciappelletto giaceva da un’altra,
e ascoltando comodamente udivano e comprendevano ciò che ser Ciappelletto
diceva al frate; e alcune volte avevano una così gran voglia di ridere, udendo
le cose che egli confessava d’aver fatto, che quasi scoppiavano: e fra sé
talora dicevano: «Che uomo
è costui, il quale né vecchiaia né infermità né paura della morte, alla quale
si vede vicino, né paura di Dio, davanti al giudizio del quale di qui a poco si
aspetta di dover essere, l’hanno potuto rimuovere dalla sua malvagità, né far
sì che egli non voglia morire così come è vissuto?». Ma vedendo che aveva detto
che egli sarebbe stato ricevuto in chiesa per la sepoltura, non si curarono per
niente di tutto il resto.
Ser Ciappelletto poco dopo si comunicò: e peggiorando senza
modo ebbe l’ultima unzione e poco dopo il vespro, quel giorno stesso in cui
aveva fatto la buona confessione, morì. Per la qual cosa i due fratelli, ordinato
adoperando i suoi stessi denari come dovesse essere onorevolmente seppellito e
mandato a dire al convento dei frati che vi venissero la sera a far la veglia funebre
secondo l’usanza e al mattino per il corpo, disposero ogni cosa opportuna a
tutto questo.
Il santo frate che l’aveva confessato, udendo che egli era
trapassato, ebbe un colloquio con il priore del luogo; e fatto suonare a
capitolo [cioè per convocare una riunione],
ai frati radunati dichiarò che ser Ciappelletto era stato un sant’uomo, da
quello che aveva arguito dalla sua confessione; e sperando per lui che Domeneddio
potesse dar prova di molti miracoli, li persuase che quel corpo si doveva
ricevere con grandissima reverenza e devozione. Alla qual cosa il priore e gli
altri frati creduli si accordarono: e la sera, andati tutti là dove il corpo di
ser Ciappelletto giaceva, sopra di esso fecero una grande e solenne veglia; e
la mattina, tutti vestiti coi camici e coi piviali, con i libri in mano e con
le croci davanti andarono cantando in onore di questo corpo e con grandissima
festa e solennità lo recarono alla loro chiesa, con un seguito di quasi tutti
gli abitanti della città, uomini e donne. E postolo nella chiesa, il santo
frate, che l’aveva confessato, salito sul pergamo cominciò a predicare cose
meravigliose di lui e della sua vita, dei suoi digiuni, della sua verginità,
della sua semplicità e innocenza e santità, tra le altre cose narrando quello
che ser Ciappelletto gli aveva confessato piangendo come il suo maggior
peccato, e come avesse faticato a fargli capire che Iddio glielo avrebbe
perdonato, prendendo occasione da questo per riprendere il popolo che
ascoltava, dicendo: «E voi, maledetti da Dio, per ogni fuscello di paglia che
vi trovate tra i piedi bestemmiate Iddio e la Madre e tutta la corte del
Paradiso».
E oltre a queste, molte altre cose disse della sua lealtà e
della sua purezza: e in breve con le sue parole, alle quali la gente della
contrada prestava completa fede, talmente le mise nel capo e nella devozione di
tutti coloro che erano presenti, che, poi che l’ufficio fu terminato, con la
maggior calca del mondo tutti andarono a baciargli i piedi e le mani, e tutti i
panni che indossava gli furono stracciati, ritenendosi beato chi avesse potuto
avere anche un solo pezzetto di quelli: e convenne che per tutto il giorno
fosse tenuto in quel modo, affinché da tutti potesse essere visto e visitato. Poi,
la notte seguente, fu onorevolmente sepolto in un’arca di marmo in una
cappella: e subito il dì seguente la gente cominciò ad andar lì e a accendere
lumi e a pregarlo, e conseguentemente a far voti e ad appendervi gli ex voto
secondo la promessa fatta. E tanto crebbe la fama della sua santità e la devozione
nei suoi confronti, che non c’era quasi nessuno che si trovasse in qualche
avversità, che si votasse a un altro santo che a lui, e lo chiamarono e
chiamano san Ciappelletto; e affermano che Dio ha fatto molti miracoli per
mezzo suo e li fa spesso a chi devotamente si raccomanda a lui.
Così dunque visse e morì ser Cepparello da Prato e santo
divenne come avete udito. Il quale non voglio negare che lui possa essere beato
alla presenza di Dio, dato che, sebbene la sua vita fosse scellerata e
malvagia, egli poté in punto di morte essersi talmente contrito, che per
ventura Iddio ebbe misericordia di lui e nel suo regno lo abbia ricevuto: ma poiché
questo non mi è noto, secondo ciò che se ne può dedurre ragiono e dico che costui
deve essere nella perdizione nelle mani del diavolo, piuttosto che in Paradiso.
E se così è, si può conoscere quant’è grande la benevolenza di Dio verso di
noi, la quale non guardando al nostro errore ma alla purezza della fede, esaudisce
le nostre richieste anche se noi usiamo un suo nemico come nostro intercessore,
poiché lo crediamo amico, come se ricorressimo a uno veramente santo per intercedere
nella sua grazia.
1- Ser Ciappelletto a colloquio con Musciatto Franzesi
2- Ser Ciappelletto con i due fratelli toscani
3- Ser Ciappelletto infermo con il santo frate
4- La gente attorno al catafalco di san Ciappelletto
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