Meneghello continua in questo
capitolo del suo romanzo d’esordio la propria riflessione personale sulla gente
di Malo: sui suoi valori, le sue istituzioni, il modo di vivere. E continua il
confronto con il presente degli anni Cinquanta-Sessanta e il mondo acculturato
dei centri urbani: la cultura paesana (o meglio, il costume paesano) emerge con
la propria molteplice varietà, fatta di bestemmie, lavoro, interesse,
allevamento dei bachi da seta, condizione della donna, varietà dialettali e
molto altro ancora.
Perché questo paese mi pare certe
volte più vero di ogni altra parte del mondo che conosco? E quale paese: quello
di adesso, di cui ormai si riesce appena a seguire tutte le novità; o
quell’altro che conoscevo così bene, di quando si era bambini e ragazzi, e ciò
che ne sopravvive nella gente che invecchia? O non piuttosto l’altro ancora,
quello dei vecchi di allora, che alla mia generazione pareva già antico e
favoloso? È difficile dire.
Ora siamo in un momento in cui,
scrivendo, non si può dire bene né “il paese di allora” né “il paese di
adesso”; i tempi mi oscillano sotto la penna, era, è, un po’ di più, molto
meno. In alcune cose il cambiamento è radicale, quello che era non è più, in
altre c’è poco cambiamento.
Mentre si formano le nuove
strutture è rimasto ancora non poco delle vecchie, di quella vita paesana che
fino a una generazione fa era comune ai nostri paesi della provincia, e per noi
era (e per certi versi è rimasta) la vita tout
court. Quella vita si potrebbe rimpiangerla solo per sentimentalismo
generico: ma qui dove almeno l’impianto generale delle strade, delle case,
degli edifici pubblici è rimasto quasi immutato, è ancora possibile
commemorarla.
Il paese di una volta aveva un
suo pregio: formava una comunità umana modesta ma organica. Ci conoscevamo
tutti, il rapporto tra i vecchi e i giovani era più naturale, il rapporto tra
gli uomini e le cose era stabile, ordinato, duraturo. Duravano le case, le
piccole opere pubbliche, gli arredi, gli oggetti dell’uso: tutto era incrostato
di esperienze e di ricordi ben sovrapposti gli uni agli altri. Gli utensili
domestici avevano una personalità più spiccata, si sentiva la mano
dell’artigiano che li aveva fatti; la parsimonia stessa del vivere li rendeva
più importanti. Perfino i giochi dei bambini erano più seri: meno giocattoletti
di plastica, meno sciocchezze. Tutto costava e valeva di più: perfino le
palline “di marmo”, le figurine con cui si giocava erano tesori.
Le stagioni avevano più senso,
perché vedute negli stessi luoghi, sopportate nelle stesse case. Sembrava quasi
che anche la vita privata avesse più senso, o almeno un senso più pieno,
proprio perché era indistinguibile dalla vita pubblica di ciascuno. Si veniva
al mondo con una persona pubblica già ben definita: Chi sei tu? Un Rana, un Cimberle,
un Marchioro? Di quali Marchioro: Fiore, Risso, Còche, Culatta, Culattella?
Dove non bastavano i nomi di famiglia, intervenivano i soprannomi di famiglia a
definire l’identità di ciascuno. Si era al centro di una fitta rete di
genealogie, di occupazioni ereditarie, di tradizioni, di aneddoti.
C’erano “signori”, gente e
poveri; ma molte parti della vita si condividevano (in certi sensi di più, per
esempio, che non sarebbe pensabile in Inghilterra): i servizi pubblici erano in
comune, in comune la lingua, le scuole, le osterie, le chiese, i confessionali.
Non era in comune il cibo: e più volte vedendo i poveri mangiare ebbi lo shock di sentire una differenza che in
seguito avrei potuto chiamare di classe.
Il culmine del successo mondano per i nostri vecchi era quello: “Mangia bene”.
C’erano - oltre alle istituzioni
riconosciute de jure - innumerevoli
altri istituti di fatto che informavano la vita: le compagnie, la classe di
leva, il vino, persino la bestemmia. La bestemmia è un istituto di una certa
importanza, non è vero che sia solo un ausilio espressivo degli inarticulate: c’è bensì anche questo
aspetto nelle bestemmie della gente, specie quelle allegre e serene che credo
facciano sorridere anche il Signore e i santi. Ma la bestemmia vera è quella
arrabbiata, che “tira giù” il soprannaturale, ed esprime un giudizio di fondo -
rozzo ma indipendente - sul funzionamento del mondo. Ufficialmente il
bestemmiatore non s’arrischierebbe a sostenere che in fondo ne abbiano colpa
lassù, se le cose vanno storte: ma nell’atto di bestemmiare, fa proprio questo,
e viene a contrapporre il punto di vista del buon senso eretico a quello della
pietà tradizionale. Il giovanotto emancipato che bestemmia per sport (e
altrettanto il popolano che bestemmia per dispetto) suscita nei più giovani la
sensazione di una sfida empia ma interessante, in cui si avverte con un
delizioso brivido la differenza tra ciò che veramente si crede e si sente, e
ciò che si dovrebbe credere e sentire.
Probabilmente non è il caso,
parlando di questi modi di vita, di tirar fuori la parola cultura. In un solo
senso c’era una nostra cultura paesana, e cioè come costume tradizionale, un
sistema di rapporti e di valori ben definito e articolato. Va da sé che quella
che si può chiamare in senso stretto la cultura - la cultura intellettuale - o
mancava o era importata dai centri urbani dove la si elabora.
Invece un nostro costume paesano
c’era: noi si viveva secondo un sistema di valori in buona parte diverso da
quello ufficialmente vigente; un sistema di antica formazione prevalentemente
rurale e popolare, che aveva adottato anche idee di origine urbana e colta, ma
le aveva assimilate e trasformate a modo suo. In quanto questo costume si
rifletteva in una cultura (un’elaborazione riflessa del proprio modo di vivere)
era soltanto una cultura parlata, priva di testi scritti. Aveva però la potenza
delle cose vere, mentre il codice culturale ufficiale, espresso per iscritto in
una lingua forestiera, dava l’impressione di una convenzione vuota, e (benché
indiscusso, come le malattie) restava astratto fino al momento in cui il suo
braccio secolare o ecclesiastico non intervenisse a raggiungerci.
Dietro al paese si sentiva il
fondo stabile di una maggioranza contadina, inamovibile, testarda. In qualche
modo noi eravamo a nostra volta il fiore urbano di questa società contadina, un
centro. Si formava ancora quasi un tutto unico con la campagna, ma il paese
travasava e raffinava il costume campagnolo. Di questo complesso lavoro di
mediazione esercitato dall’ambiente paesano è difficile documentare bene la
natura, soprattutto per difficoltà di lingua. La lingua in cui eseguivamo
(senza saperlo, ben s’intende) la nostra mediazione non è scritta, e la lingua
che scriviamo in paese e in tutta l’Italia può facilmente tradirci.
Il divario tra il codice di
condotta postulato dalla cultura ufficiale scritta, e il costume reale del
paese, era grande.
Trovo sul rovescio della
copertina di un vecchio quaderno di scuola usato un anno prima che nascessi io,
un Decalogo Civile che comincia così:
1. Ama i compagni di scuola, che saranno i tuoi compagni di lavoro di
tutta la vita.
2. Ama lo studio...
3. Santifica tutti i giorni con qualche azione utile e buona, con
qualche atto gentile.
Fin qui siamo ancora tra le virtù
specifiche dello scolaretto; poi si passa tra quelle che adorneranno tutta la
vita, dignità, veracità, rettitudine, generosità, lealtà, correttezza;
additando i correlativi da evitare, il servilismo, la viltà, la credulità.
È un documento ammirevole, ma che
significato poteva avere per gli alunni di Malo che scrivevano in quaderni come
questo? È un codice di moralità civile che avrà avuto qualche senso nei centri
urbani, dove forse c’erano mamme e papà che credevano davvero all’importanza
della rettitudine civile, della bontà, della fermezza, ecc., così definite.
Doveva esserci un’Italia urbana e borghese dove queste parole diventavano
almeno in parte costume. Ma a Malo?
Nel nostro ambiente paesano
queste parole restavano parole. “Ama i compagni di scuola”: questa non era una
massima seria, nessuno cercava sul serio di farci credere, nella nostra propria
lingua, che “bisogna amare i compagni di scuola”. Quando si baruffava con
questi compagni, a volte ci rimproveravano, altre volte prendevano le nostre
parti. In astratto i compagni di scuola non bisognava né amarli né disamarli:
l’ingiunzione dell’amore non è concepibile in dialetto (e del resto è una ben
strana ingiunzione anche in lingua; e nemmeno i professori di Vicenza e di
Padova hanno poi saputo insegnarmi che cosa veramente significhi). I compagni
erano come tutti gli altri, con alcuni si andava d’accordo, con altri no, e
andava poi a giorni.
Press’a poco così era anche per
tutto il resto. Ho preso in questo Decalogo il primo esempio che mi è capitato
sottomano, per richiamarmi concretamente a uno dei tanti “codici” espliciti di
condotta, o prevalentemente di origine civile e laica, come questo, o ispirati
direttamente agli insegnamenti morali della religione, che da questo punto di
vista era il settore più importante della cultura ufficiale.
Tutti sono ugualmente lontani dal
codice reale di condotta che seguiva la gente, pur non trovandolo scritto in
alcun luogo. Non dico che questo fosse l’opposto di quelli, che la gente
vivesse in modo apertamente immorale e incivile: dico solo che la nostra
condotta non si ispirava ai modelli che ci erano proposti.
La rettitudine contava
relativamente poco. Parlo, s’intende, dei valori, non già dei fatti. Va da sé
che la proporzione delle persone rette e di quelle non rette era press’a poco
la stessa che ovunque. L’espressione “uomo retto” esiste anche in paese, ma
l’ho sempre sentita con un’inflessione speciale, simile a quella che potrebbe
avere altrove una frase come “ha una voce così gentile e delicata”. La
rettitudine è una virtù, ma marginale.
Le virtù principali vigevano
nella cerchia del mondo familiare, ed erano connesse colle necessità della
vita, e col lavoro. La parola “dovere” in senso morale è sconosciuta al
dialetto; c’è invece l’espressione “bisogna”, nel senso in cui si dice che
morire bisogna. Anche lavorare bisogna, per sé, per la “dòna”, per “el me òmo”,
per i figli, per i vecchi che non possono più lavorare. Bisogna lavorare non
otto ore, o sette ore, o dieci ore, ma praticamente sempre, magari con pause, interruzioni e rallentamenti, però in
continuazione e senza orario, più o meno da quando si alza il sole fino a
notte; bisogna lavorare da quando si è appena finito di essere bambini (e le
bambine nelle case anche prima) fino a quando si è già vecchi da un pezzo;
bisogna lavorare quando si è così poveri che lavorando sempre si arriva appena
a sopravvivere, e anche quando si è meno poveri, e si potrebbe lavorare meno.
Anche qui, non descrivo principalmente fatti ma valori: naturalmente non tutti
lavoravano così, c’erano gli scioperati, i fainéants,
i voglia-di-far-bene. Ma il principio centrale riconosciuto da tutti era che
bisogna lavorare per la famiglia con tutte le proprie forze, sopportare
qualunque fatica e sacrificio.
Un Decalogo realistico in lingua
sarebbe dovuto cominciare così:
1. Ricordati che bisogna lavorare per la tua famiglia, e che la tua
famiglia viene prima di tutto.
Di gran lunga la maggior parte
delle energie fisiche e spirituali della gente si riversava in questo lavoro.
Per i più la vita era estremamente dura: duro il lavoro nei campi, nelle
officine, nelle bottegucce degli artigiani, nelle filande, e durissimo per le
donne nelle case e nelle famiglie. Ma anche i lavori ritenuti meno duri, dei
bottegai, degli osti, dei commercianti, dei mediatori, erano pesanti a paragone
dei criteri di oggi.
Le quattro filande erano
l’industria massima del paese: tutte le donne del popolo o prima o poi andavano
o erano andate in filanda, con orari, salari e condizioni di lavoro che
riescono oggi quasi incredibili. Quando la filanda “andava”, c’era un fracasso
alto e continuo di macchinari antiquati, e in mezzo come un lamento acuto il
canto delle filandiere stordite:
Santa Madre, deh Voi
fate
che le piaghe del
Signore
siàno impresse nel
mio cuore.
Polenta e cipolla, polenta e
anguria. Le filandiere uscivano a mezzogiorno, rientravano alla “cuca” (1) tra
la mezza e un bòtto (2). Per questo breve lunch
hour non tutte correvano a casa; quelle che venivano da lontano si sedevano
lungo i due marciapiedi, di qua e di là della strada. Dai cartocci di carta
gialla tiravano fuori la polenta e lo stupefacente companatico.
Oltre alle filiere vere e proprie
sapevo che c’erano le scoattìne (3) e le ingroppìne (4), nomi di sogno.
Scoattìne! Ingroppìne! Non pareva credibile guardando queste donne e ragazze
col colore dei bachi da seta sul viso.
Ristorate, dopo una mattina di
lavoro, tornavano dentro a lavorare alle bacinelle di acqua bollente fino a
sera, invocando in alte grida la Santa Madre del cielo, chiedendole piaghe.
Nelle case si allevavano i bachi
da seta, i bizzarri “cavalieri” che si spargevano come un minuto seme nero (la
“semenza”) e a mano a mano diventavano piccole miniature di bruchi, poi si vedevano
crescere di giorno in giorno, si allargavano su ampi territori ombrosi e
tiepidi di tralicci accatastati a ripiani, invadevano le stanze, brucando con
forza sempre più grande la “foglia” di moraro.
La vita di queste creature colla
pancia piena di seta somigliava a una febbre: il livello saliva di giorno in
giorno, aggravando la fame dei malati. Già mangiavano dalle tre, poi dalle
quattro; il piccolo brusio che in principio si avvertiva appena tendendo l’orecchio,
diventava una vibrazione intensa, e infine un rombo. Gli uomini e i bambini
arrampicati sui morari pelavano la foglia sempre più in fretta, arrivavano coi
sacchi: frane di lucida foglia seppellivano i mostri deliranti che la
sbranavano in pochi minuti.
Ora i cavalieri mangiavano di
furia: qualcuno andava in vacca, una specie di Tisi dei cavalieri che spegneva la
febbre. La seta marciva dentro e si liquefaceva, gonfiando la pelle traslucida:
a pungerlo con uno spillo il mostro si sgonfiava spargendo uno zampillo di
tabe. Gli altri paralizzati dalla febbre e da tutto quel mangiare,
s’intorpidivano e venivano deposti nel “bosco” (le siepi di fascine in granaio)
dove in pochi giorni, nello spazio abbuiato dagli schermi di carta sulle
finestre, avveniva in segreto il miracolo; poi si trovavano nei rami secchi i
giocattolini d’oro lustri e leggeri.
La cura dei bachi da seta era uno
di quei lavori supplementari che s’affidavano principalmente alle donne, perché
non restassero in ozio: avevano solo da partorire fino a una dozzina di figli,
da allevarne mezza dozzina, da cucinare per tutti, lavare, stirare, spazzare,
rifare i letti, vuotare i vasi, lavare i piatti, cucire, rattoppare,
rammendare, badare alle galline, curare i malati, pregare per il marito, andare
in chiesa e baruffare un po’ con le vicine. Come riuscissero ad andare anche in
filanda non ho mai capito.
Alla sera facevano filò (5), in
campagna nelle stalle, in paese nelle cucine: si divertivano, le pigrone, a far
la calza o addirittura a giocare la tombola; oppure d’estate sedevano sulla
porta con le mani in mano a vedere la gente che tornava dalle osterie.
Gli uomini per divertirsi alla
sera andavano all’osteria a giocare alle carte; non erano venute ancora né
televisione né luce al neon né bibite. C’erano decine di osterie in paese,
tutte fornite di vino clinto dal sapore volpino e di negro vino nostrano. Se
queste osterie, sociologicamente parlando, erano una piaga, erano però luoghi
più attraenti dei caffè con la televisione di oggi (che secondo me sono
anch’essi, sociologicamente parlando, una piaga): avevano pesanti tavole
bislunghe, grosse sedie impagliate, il banco di legno, il focolare aperto.
Nella medesima stanza, o in una adiacente anch’essa aperta agli avventori,
c’era la cucina della famiglia dell’oste: andando in osteria si aveva la
sensazione di andare anche in visita.
Gli aspetti del lavoro di cui ho
parlato finora riguardano soprattutto ciò che Hannah Arendt nel suo bellissimo
saggio sul lavoro umano chiama “labour” e distingue da “work.” È il
lavoro-fatica, il tribulare del
dialetto, che caratterizza soprattutto le società contadine, e si svolge sotto
il segno della necessità: sono tipicamente i lavori della campagna, i lavori
domestici, i lavori servili, tutto ciò che ha a che fare col sostentamento
della vita fisiologica, secondo il ritmo delle stagioni, del giorno e della
notte, del nascere, del crescere, del nutrirsi. È quel lavoro che bisogna fare
semplicemente perché si mangia, perché si consuma, perché si vegeta; il lavoro
che bisogna fare ogni giorno, ogni mese, ogni anno: la condanna e la schiavitù
primaria dell’uomo.
Questo è il tipico labour, ma
qualunque altra attività può diventare mero labour quando si sia costretti a
compierla in condizioni e con ritmo analogo, e così accadeva in paese.
Vivevamo sotto il segno della
Necessità, e l’immagine della Madonna in Castello mi sembra che abbia più senso
da questo punto di vista. Placida, florida e robusta, questa Donna incinta è il
simbolo più appropriato di ciò che può sperare una comunità di labourers. Giocando in Castello qualche
volta, se venivo a trovarmi in chiesa da solo, quando non c’era nessuno, andavo
a guardarla e le domandavo: “Cossa pénsito ti?”. Lei continuava a fare quella
specie di sorriso con gli occhi prosperi e lieti; ora so che pensa soltanto:
“Fuori dalla Necessità ci sono Io”.
Non ricordo se ne parli la
Arendt, ma la virtù che corrisponde a questo aspetto del lavoro è ovviamente la
pazienza, la laboriosità, la voglia e la forza di lavorare molto. Questa virtù
era riconosciuta presso di noi: “È un lavoratore” è un’espressione di alta lode
per mio padre, e vuol dire proprio questo: è uno che si consuma a lavorare, che
non si ferma mai. Ma non è l’espressione più alta di lode che mio padre usa a
proposito di lavoro. La lode massima è: “È bravo,
è un bravo operaio,” e per operaio intende non tanto l’operaio industriale,
quanto chiunque faccia “opere” (che è la traduzione esatta di “work”),
l’artigiano, colui che la Arendt chiama homo
faber. Qui la virtù somma è l’abilità tecnica, la virtus dell’artefice.
Perché, noi non eravamo una
società rurale, eravamo un paese, con le sue arti, il suo work creativo, fatto
di abilità e non solo di pazienza. Per questo ci sentivamo parte di un mondo:
la Arendt sostiene con ammirevole lucidezza che il “mondo” solido e reale, in
quanto distinto dalla caduca e illusoria “natura”, si produce quando
l’artigiano interpone tra noi e la natura le cose che fa: res da cui reale.
Forse è una delle ragioni per cui
l’esperienza di crescere in paese riusciva così schietta, e ancora oggi (pur
sapendo benissimo che è inevitabile e desiderabile che si affermino nuove forme
di vita associata) ci sembra che per certi versi fondamentali ci fosse più sugo
a vivere allora a Malo che non oggi nelle nostre città moderne, in Italia e
fuori.
Il paese era una struttura
veramente fatta a misura dell’uomo, fatta letteralmente dai nostri compaesani,
e quindi adatta alla scala naturale della nostra vita. Quello che c’era era
stato fatto in buona parte lì, oggi invece le cose scendono dall’alto, le
fabbriche piombano dal cielo di un’economia più vasta, creano strutture nuove
che per un verso ci inciviliscono, ma per un altro ci disumanizzano. Le nuove
strade arrivano come dall’aria, le fanno imprese forestiere, macchine; le mode
del vestire e del vivere arrivano anche loro dall’aria, attraverso i tubi e i
canali della televisione. Allora le cose non piombavano dal cielo, le facevano
qui.
Si parla di stanze da bagno con
mio padre, di impianti dell’acqua, della luce; ci dice quando sono arrivati i
primi esempi di queste cose in paese. Si ricorda benissimo quando è stato
installato il primo bagno, dal Conte: era ragazzo e ci ha lavorato anche lui.
Quand’era bambino c’erano ancora i pozzi, pubblici e privati, come quello del
cortile della nonna che funzionava ancora ai miei tempi; quando poi fu fatto
l’acquedotto, lui e un suo compagno si presero l’incarico di fabbricare non so
che tipo di giunto o di raccordo, e li fabbricarono tutti loro. Si alzavano
alle quattro, anche alle tre del mattino, e lavoravano fino a notte.
Le cose del nostro mondo ce le facevamo dunque noi stessi, molto più
di adesso; le idee venivano bensì da
fuori, ma si assimilavano profondamente attraverso il lavoro diretto. Tutto era
umanizzato in questo modo. Oggi arrivano i rubinetti cromati, gli aspirapolvere
e le vasche da bagno, il mio amico Sandro li mette in vetrina, e poi li vende e
buona notte (e si dà il caso che Sandro sia un artigiano di prim’ordine, erede
di quelli di una volta; ma nel paese di oggi sembra quasi un hobby, una sua abilità personale come
fare i giochi di prestigio con le carte).
Il nostro Decalogo potrebbe
dunque continuare così:
2. Preparati a tribolare: quasi tutti debbono tribolare.
3. Impara a essere bravo nel tuo lavoro. Non c’è nulla di più
rispettabile di uno bravo nel suo lavoro.
Il quarto comandamento potrebbe
riguardare le donne:
4. Sii pulita. La donna onta non merita stima.
Nella vecchia generazione quasi
l’unica critica che si faceva alle donne era contro quelle che non erano
“pulite”: non “néte” che vuol dire pulite nella persona ma “pulite” ossia brave
a tenere la casa in ordine (“néta”), i bambini lavati, i vestiti ben rammendati
e rattoppati con cura. “Onta” vuol dire insomma untidy (6); nei casi gravissimi si diceva, e mio padre dice
tuttora, che una donna era “un luamàro” che vuol dire most untidy.
Poiché non voglio compilare io un
Decalogo, ma esemplificare un discorso, mi fermerò qui con i comandamenti.
Nei rapporti tra famiglie era
quasi onnipotente nel determinare il costume ciò che si chiamava l’intaresse, naturalmente in funzione
della solidarietà familiare. Né le leggi dello stato né i precetti morali della
religione avevano - nel modificare questo codice di condotta - la forza che
aveva invece il senso del decoro (“no sta ben”), di ciò che riscuote la
sanzione della comunità, e che può differire profondamente non solo da quello
che prescrive la legge, ma anche da quello che ingiunge la religione.
In ciò che concerne l’intaresse, lo Stato si considerava quasi
universalmente un estraneo importuno che ognuno aveva il diritto e poco meno
che il dovere di defraudare. Il rubare era riprovato dai più, ma nella sfera
privata, furtiva, classica dei ladronecci notturni di galline, o dei furti dal
cassetto d’un negozio o d’una credenza; invece l’“arrangiarsi” nei confronti di
qualunque ente pubblico, o anche di enti impersonali, era molto diffuso; e piuttosto
frequente anche l’arrangiarsi nei confronti di gruppi familiari estranei con
cui si dividessero orti, cortili, magazzini, cantine, granai.
Della prima forma di
arrangiamento si parlava apertamente come di cosa naturale e sottintesa, e
molti se ne vantavano; della seconda invece non solo non si parlava in
pubblico, ma si negava anche l’evidenza. Mentire in caso di bisogno era regola
poco meno che generale: si mentiva, se necessario, con grandi segni di croce, e
facce stravolte. Per le bugie, come per il rubare, l’astratto era condannato,
il concreto spesso praticato. “Busiaro” come “ladro” erano insulti; ma mentire
di fatto e (nei casi che ho detto) rubare di fatto non erano sentiti dalla
gente come esempi di menzogna e di furto. “Onesto” si diceva delle persone
eccezionalmente corrette negli affari: se ne parlava come di cosa ammirevole e
poco saggia, un lusso e una finezza di persone eccentriche, per lo più signori
che potevano permetterselo senza gravi conseguenze. L’opposto di “onesto” non è
“disonesto”, ma “uno che tende i so intaressi”. L’equivalente paesano del
“disonesto” della lingua sarebbe “un poco de bòn”, ossia uno che compie
imbrogli nelle sfere non consentite, e anche senza vera necessità. Il ladro di
galline non è né onesto, né disonesto, è un ladro.
Questi esempi che mi paiono
cruciali nella morale convenzionale, potranno bastare per ogni altro caso. In
generale la bontà non si associava con questi, e gli altri analoghi, aspetti
della condotta: era piuttosto una categoria psicologica che morale. “Bòn” vuol
dire di indole gentile; “cattivo” vuol dire litigioso, incline a trovar da
dire, a rimproverare i sottomessi, a menar le mani. Né si associava la bontà
con la devozione religiosa, anzi le persone “di chiesa” erano spesso tenute in
sospetto di una forma speciale di cattiveria secca. Però era proprio su questo
terreno della bontà che il contenuto morale della religione riusciva ad
acquistare un significato comprensibile a tutti attraverso la raccomandazione
generica a essere buoni, che era come la traduzione in dialetto dell’invito
evangelico alla gentilezza, alla tolleranza, alla generosità, e in breve ad
amare il prossimo.
I vizi canonici, invidia,
superbia, iracondia, avarizia, erano considerati tratti psicologici, non
concetti morali. Da piccoli eravamo stati istruiti ad accusarcene in
confessione, e ce ne accusavamo scrupolosamente; ma crescendo poi ci parevano irrelevant per un adulto, come il
domandarsi se si fosse stati “disubbidienti”. Le corrispondenti qualità si
riconoscevano bensì nella gente, ma parevano moralmente indifferenti, meri
tratti naturali dell’individuo, come la corporatura o la guardatura
stralocchiata.
Se è vero che nei rapporti tra
famiglie era quasi onnipotente l’interesse, non bisogna però credere che fosse
onnipresente. Inoltre se il lavoro era duro, e riempiva le giornate di
ciascuno, non è detto però che isolasse l’individuo dal resto del paese;
avveniva anzi il contrario. Badando ai propri interessi e al proprio lavoro, la
gente si mescolava con la gente, attraverso una fitta serie di rapporti
disinteressati.
Era questa la sfera della nostra
libertà paesana. Il lavoro stesso, le necessità della giornata, l’attendere
alle proprie faccende, i brevi intervalli di riposo, il semplice andare fino in
piazza a comprare, a portare qualcosa, a chiamare qualcuno, bastavano a mettere
ciascuno a contatto con tutti. Non soltanto avevamo una persona pubblica, ma
anche agivamo in pubblico. Buona parte di ciò che si faceva, era fatto davanti
agli occhi di tutti, era conosciuto, valutato, commentato: apparteneva oltre
che a noi, al paese. Qui non valeva più la legge severa della Necessità: si
poteva improvvisare, scherzare, osservare come vivevano e scherzavano e
improvvisavano gli altri; si partecipava con piacere e disinteressatamente a
una vita comune, e per solo effetto della comune appartenenza allo spazio
pubblico del paese.
Le botteghe-negozi erano quasi
estensioni delle case e delle famiglie, erano “aperte” quasi sempre, e in ogni
modo non c’era vera distinzione tra aperte e chiuse: per comprare qualcosa si
poteva sempre entrare per il cortile, scusandosi appena con la famiglia a cena
in cucina.
“Aperte” erano anche per lo più
le botteghe-laboratori; c’erano i fabbri con la faccia fuligginosa, i mistri
(7) in mezzo al rame, gli scarpari che
tagliavano il cuoio profumato, i maniscalchi (uno era proprio in piazza, e ce
n’erano altri due), i marangoni (8), il cui nitido lavoro eseguito tra nitide
superfici mi sarebbe piaciuto fare; c’erano i beccari (9) che malmenavano quarti di bestie e
frangevano ossa coi coltellacci, i munari
(10) impolverati, i fornari che lavoravano nelle ore piccole della
notte, e chi si alzava a quell’ora poteva affacciarsi alla porta e chiedere un
pezzo di pane fresco, come accadde una volta a mio padre, e quelli glielo
davano, sagome col grembiule bianco contro le fiamme del forno, ma quando si voltavano
si vedeva che il grembiule era aperto di dietro, e sotto erano nudi-infanti e
mostravano la schiena liscia e i rialti del sedere luccicanti di sudore.
C’erano i canolari, i mestelari, i bottàri, i priari, i carrari, i soccolari
(11); c’erano i moletta erranti, e i careghetta, e gli ombrellari, gli
stramazzari, i mas’ciari (12), e insomma tutti gli altri. I barbieri erano anche
sartori: mio padre ancora non riesce a capacitarsi che si possa vivere facendo
solo il barbiere, eppure oggi vivono così, e mantengono la famiglia. Molti di
questi mestieri sono praticamente scomparsi oggi, molti altri si sono
modificati: l’altr’anno c’era ancora un forno a legna, ora non so. L’esistenza
stessa di tutti questi mestieri, e il loro interpenetrarsi nel paese, dava
varietà e vivacità alla vita.
Le piazze e le strade erano la
nostra agorà; la nostra lingua, a differenza di quella attica, non si scriveva,
ma era ricca e flessibile, e con essa si riproduceva come in uno specchio di
parole il quadro rallegrante di una vita fatta non solo di triboli, ma anche di
incontri, di avventure, di capricci alati, di riflessioni, di liberi eventi.
La lingua aveva strati
sovrapposti: era tutto un intarsio. C’era la gran divisione della lingua
rustica e di quella paesana, e c’era inoltre tutta una gradazione di sfumature
per contrade e per generazioni. Strambe linee di divisione tagliavano i
quartieri, e fino i cortili, i porticati, la stessa tavola a cui ci si sedeva a
mangiare.
Sculièro a casa nostra, guciàro
dalla zia Lena; ùgnolo presso il
papà, sìnpio presso di noi. Si
sentivano lunghe ondate fonetiche bagnare le generazioni: lo zio Checco non
disse mai gi, neanche nei nomi propri, solo ji; del resto anche mio padre dice jèra piuttosto che gèra. Anche la morfologia era a incastro: se abbiamo fatto la
seconda guerra gèrimo soldà, se la
prima gerìvimo. Della a finale della
prima persona dell’imperfetto nel numero dei meno, si avvertiva la soavità
arcaica specialmente nei diagrammi del dialetto corretto. Parlavamo al caffè di
non so che osservazioni fatte da ciascuno di noi in vari paesi vicini, chi a
San Vito, chi a Marano, chi a Isola. C’era anche il Commendatore, un uomo di
mondo, che a un certo punto intervenne e cominciò: «Me trovavaaa a Sàn
Rafaèl…». La lunga a parve a tutti irresistibilmente graziosa, benché sia
normale nel dialetto schietto.
La lingua si muove come una
corrente: normalmente il suo flusso sordo non si avverte, perché ci siamo
dentro, ma quando torna qualche emigrato si può misurare la distanza dal punto
dove è uscito a riva. Tornano dopo dieci anni, dopo venti anni dalle Australie,
dalle Americhe: in famiglia hanno continuato a parlare lo stesso dialetto che
parlavano qui con noi, che parlavamo tutti; tornano e sembrano gente di un
altro paese o di un’altra età. Eppure non è la loro lingua che si è alterata, è
la nostra. È come se anche le parole tornassero in patria, si riconoscono con uno
strano sentimento, spesso dopo un po’ di esitazione: di qualcuna perfino ci si
vergogna un poco.
Mia zia candida sposata a Como,
quando torna a trovarci dice chive e live, che tutti i miei zii hanno
abbandonato da decenni. L’antipatica ròda
che noi consideriamo vicentina di città, ha quasi scacciato la nostra rùa: almeno abbiamo ancora le ruèle e le ruàre, gli orolojaji la cui nominaglia è Ruet-te, e il casolìno il cui nome è Ruaro. Ruette essendo un
soprannome scherzoso, si dice con la doppia. L’uso delle doppie, come gli
aspetti del verbo russo, è difficile da spiegare ai foresti: la doppia si
adopera in genere per caratterizzare, per imitare, per fingere di dire una cosa
e dirne invece un’altra; è una specie di schinca linguistica, che ti lascia lì.
Se poi entriamo nella sfera delle doppie ss e delle doppie zz, le regole sono
praticamente inutili.
Questa lingua, benché non
registrata, benché territorialmente limitata (uno dalla Val di Là parla già
diverso da noi), benché tutta divisa in se stessa e di continuo terremotata,
non è però uno strumento da prendersi a gabbo. Gli utenti della koinè
“italiana”, passando per di qui qualche volta ci provano. Ma noi possiamo
rispondere: «Non c’è modo di mettervelo per iscritto, ma fin che abbiamo fiato
possiamo cojonarvi anche noi, pajazzi!».
Ma per capire la differenza tra pajassi e pajazzi bisognerebbe che venissero ad abitare qui per qualche anno.
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(1) cuca = la sirena
(2) bòtto = l’una, quando la
campana faceva un rintocco
(3) scoattìne = le operaie
addette alla pulitura dei bozzoli per liberarli dai fili rotti, nell’acqua a
70-80°, usando una scopetta di erica
(4) ingroppìne = le operaie
addette ad annodare a mano i fili che si rompono
(5) filò = la veglia, e per
estensione le chiacchiere che si fanno di sera, alla fine della giornata di
lavoro, attorno al tavolo di cucina o anche in stalla
(6) untidy = disordinata,
trascurata, sciatta
(7) mistri = venditori di
ferramenta
(8) marangoni = falegnami
(9) beccari = macellai
(10) munari = mugnai
(11) i canolari, i mestelari, i
bottàri, i priari, i carrari, i soccolari = fabbricatori di cannelle per le
botti, di mastelli, di botti, cavapietre, carrettieri, zoccolai
(12) i moletta erranti, e i
careghetta, e gli ombrellari, gli stramazzari, i mas’ciari = arrotini
ambulanti, seggiolai, ombrellai, materassai, produttori di salumi e carni
insaccate (mas’cio = maiale)