Una delle pagine, dedicate alla descrizione di
un territorio, più belle che io conosca, superiore al manzoniano “Quel ramo del
lago di Como”. Come a volo d’uccello, l’autore esplora tutta la zona
circostante Malo, per poi planare sul proprio paese, descrivendo luoghi,
strade, viottoli, ed entrando infine nelle case, nelle stanze, soffermandosi
sull’uso quotidiano che la gente faceva di lavatoi, cucine, granai, cessi
(pubblici e privati). Confrontando il passato col presente e continuando la sua
indagine sulla lingua-dialetto di Malo, che è quasi un reato tradurre in
italiano. Chi ha pazienza non legga le note, ma cerchi piuttosto di capire il
senso di tanti termini dialettali indovinandoli dal contesto.
Mezzogiorno col sole, quando
l’estate è ancora illimitata, ai tavoli del caffè in Piazzetta con un bicchiere
di vino bianco, io e mio padre scambiando poche parole, attendendo gli amici,
osservando la gente che conosciamo.
Gioia somma e perfetta, astratta
dal tempo, in mezzo al paese, come fuori della portata della morte.
Rabbrividivo al sole.
Le cose sono al loro posto, gli
spazi immutati. Conosco bene il giro che fa l’ombra delle case, qui davanti, e
il taglio del sole a mezzogiorno in Piazzetta. A quest’ora il Listón che va
verso nord è infilato dal sole e dà come una vampata di luce. Contrà Chiesa ha
una tettoia d’ombra; a sud, oltre la piazza, affacciandosi verso il ponte del
Castello, la chiesa, la calotta di Monte Piàn si vedono tremolare, l’aria è
piena di lustrini. Pochi passi nel sole vivo, fino al ponte: si entra in un
molle caos di verdi e di celesti, che vibra.
Il questo punto le colline che
salgono da Vicenza si allargano verso ponente, e si tirano dietro un lembo
della pianura. Questa baia è nostra. Sullo sperone che la separa dal lago della
pianura è ancorato il nostro paese. Davanti a noi c’è Schio con le spalle a un
bastione di monti azzurri, il Sengio Alto con gli Apostoli, il Pasubio, il
Novegno, la piramide del Summano, e l’orlo alto e lungo dell’Altipiano.
Sull’orlo finisce il
rastrellamento, i tedeschi ora scendono verso Granezza. Trenta passi da questo
punto e si è fuori; si aprono le conchette, gli orizzontini interni si
sparpagliano, si spalanca il salto d’aria vuota.
Il mondo incredibile è accampato
là sotto in uno stacco che annulla le distanze: ecco i giocattoli che luccicano
fra le strisce dei torrenti, Zanè, Giavenale, Marano, Thiene, Villaverla.
Dietro c’è una ressa di Montecchi e di Sandrighi, in fondo la risacca piena di
Castelfranchi e Cittadelle. Il mondo che in questi mesi sembrava più lontano
dell’India e della Cina è qui: visto dall’orlo alto dell’Altipiano pare un
presepio.
Quello là a destra, sotto il
golfo delle colline impicciolite che fuma, è il mio paese. Bisogna sedersi per
terra, aspettare che sembri tutto vero.
Lelio in tempo di guerra
arrivando con me in bicicletta da Vicenza (forse non era mai venuto qui, o non
aveva guardato) osservava spostarsi, sulla sinistra, le quinte dei colli, e
diceva: «Sacramèn che bello». Alla Barbara parve una meraviglia, le case però
più che il posto, la nostra urbanistica per così dire. Quando venne, un paio
d’anni fa, scese dalla macchina in Piazzetta, si guardò attorno e disse: «Oh,
but this is wonderful». Questi
apprezzamenti sono gentili, e anche giusti credo; ma per noi il paese non era
né bello né brutto, era il nostro paese, e così anche il sito. Ci piaceva, ma
non ci veniva in mente di dire che fosse bello.
L’approccio da levante è il più
strano. È come se ci fosse stato un elefante, o una bestia molto simile, che
camminava verso Schio rimorchiandosi dietro un erpice di collinette; arrivando
all’ansa del torrente, che doveva essere pieno d’acqua a quei tempi, avrà
voluto bere una sbruffata, e allungò la proboscide. A questo punto cominciò ad
affondare (c’era palude, si vede, a sud del torrente) e affondò circa tre
quarti, poi deve aver toccato roccia e si fermò. Ora è tutto roccia anche lui,
ed è Monte Piàn. La testa si vede bene arrivando da Thiene, profilata in scuro
contro il fondale alto delle altre colline a ponente; ma per vederla di pieno
bisogna spostarsi un po’ in giù, alla Vacchetta per esempio. Ha la massa
poliedrica a facce ampie, irregolari e armoniose che è tipica del cranio degli
elefanti, e l’angolo giusto della testa di un elefante in marcia; la proboscide
è distesa in avanti, mezza interrata e mezza fuori; ci è cresciuta sopra una
natta con qualche pelo, che è il Castello, e proprio sulla punta c’è il paese.
Avvicinandosi pare che al di là
di questo testone di Monte Piàn non ci sia più spazio, forse solo una stretta
esedra cieca fra la spalla della bestia e i colli alti contro cui strisciava.
Si vede un sipario di colli, una costa erta, selvosa e compatta che pare senza
esiti fino alle vette rocciose pochi chilometri più a nord. È un’impressione
falsa: entrando in paese, e prendendo poi per contrà Chiesa per uscire dalla
parte opposta, come si arriva al campanile e alla chiesa, prima di capire che
cosa sta succedendo, ci si trova in uno spazio nuovo. Il sipario arcigno dei colli
davanti e a destra s’è come tirato in là, s’è ingentilito; c’è questo nuovo
spazio a ponente e a mezzogiorno, il più nostro di tutti gli spazi di questo
mondo, un piccolo drappo fermato in cima dal nodo che chiamiamo Priabona.
Il paese è attraversato da sud a
nord dalla strada che va da Vicenza a Schio e al passo della Streva; ora c’è un
nuovo raccordo che taglia fuori l’abitato. Con questa s’incrocia la strada che
venendo dalle pianure di Thiene continua poi verso Priabona e la Val di Là. Lo
stradone di Vicenza era già “spalto”, quello di Schio lo divenne ai miei tempi;
a Priabona e a Thiene s’andava su una superficie di terra battuta già rovinata
dal traffico.
Le strade minori erano una parte
importante del mondo del paese; lo sono ancora, ma assai meno ora che si
viaggia con le cose a motore, e si ha più spiccato il senso di voler solo
spostarsi in modo pratico e insipido da qui a là. Erano fatte principalmente
per camminarci, passarci coi carri e con le bestie, al massimo in bicicletta.
Serpeggiavano per i campi, o lungo il piede dei colli, erano strettine, con un
buon fondo di terra e ghiaietta chiara e compatta, non ancora sciupata dalle
rare automobili.
C’erano inoltre le caviàgne, o
stradicciole rurali, che non vanno in un paese, ma quasi in visita ai casolari
e alle famiglie dei contadini (“dai” tali o talaltri), o anche vanno
semplicemente a finire in mezzo alla spagna e allo strafòglio (1), ai margini
di una landa sconfinata di campi e fossati e colture. Allora si resta lì, con
la bicicletta appoggiata a un moraro (2), e improvvisamente si sentono le voci
di milioni e milioni di piccole bestie: la tarda primavera pare un luogo, non
più una forma del tempo, e da in mezzo a questo luogo così grande, così folto,
il paese a cui questa caviàgna riconduce sembra lontano e senza importanza, e
per un po’ non si sa più cosa pensare.
La Proa ci separava da questa
landa: come quando si arriva a un confine, e di là è Belgio, Olanda; così dalla
stradella che comincia vicino a casa nostra, raggiunto in un minuto il vasto
greto interrato e sterposo e sassoso, subito di là cominciava la no-man’s land (3) che s’estende verso i
paesi a oriente, la campagna fitta, fuori della geografia e della storia.
Proseguendo per le stradicciole che non si fermano in mezzo ai campi, e che non
pare siano dirette in alcun luogo in particolare (ce n’è), si sentiva crescere
il senso dell’ignoto; nell’estate piena occorreva quasi una forma di coraggio
per avventurarsi avanti e avanti tra i sorghi, aspettando come esploratori che
un argine camuffato tra le acacie ci scoprisse all’improvviso la grande
corrente di sassi della Jólgora, che sega la campagna ed è bianca, immobile,
fatta di ciottoli e pietre smussate.
Il nostro proprio torrente si
chiama il Livargón, ma le tribù vicine lo chiamano anche la Giara, ed è infatti
principalmente giara (4): vien giù dai colli sopra San Vito, e fa un’ansa sotto
il paese, come circondandoci a sud, al piede del Castello. Ha poca acqua ed è
spesso affatto prosciugato d’estate, benché si gonfi assai “nei tempi delle
maggiori sue escrescenze” come avrebbe detto il Maccà. Quando ci scorre
l’acqua, si formano dei piccoli bacini che sono i nostri bóji: il principale
era il Rostón, poi il grazioso Bojetto, poi l’allegro gorgo dei Sojetti del
Castello, poi i piccoli pelaghi bruni di Malo basso, fino al bójo di Cuca.
Le lavandaie inginocchiate sui
lavelli agitavano i panni nell’acqua chiara; i gattini annegando nei bóji
spargevano sopra gli occhietti il velo rosa delle palpebre; le scaglie di sasso
rimbalzavano lietamente sullo specchio dell’acqua; i bambini facevano le roste (5)
tra i sassi; e i nuotatori drappeggiati nei giganteschi panneggi delle mutande
di tela emergevano dalle sottarole (6) a faccia in su per rifarsi la mascagna
(7). Gastone-Fiore passeggiava impaziente sull’argine aspettando la brentana
(8): tutti aspettavamo la brentana, la gialla amica che fa galleggiare gli
scafi, le zattere e le piroghe in progetto sul greto. Ma Gastone-Fiore a cui le
vie dell’aria erano state più volte negate o malamente interrotte, aveva
l’Idrovolante, una pesante macchina di tavole inchiodate, a cui la corrente
avrebbe impresso l’impulso necessario a librarsi in cielo. Quando arrivò la
brentana, una squadra di amici calò la macchina e il pilota sulla cresta delle
onde limacciose, ma il peso dei chiodi la fece affondare a picco, e il pilota
dovette tornare a riva, parte nuotando a spada, parte a guado.
C’erano luoghi inesprimibilmente
ameni lungo il torrente: boschetti di acacie, praticelli come quello in fondo
al Prà, oltre il doppio anello dei platani, un margine d’erba più basso del
prato comunale, quasi al livello del torrente. Il dirupo del Castello lo chiude
scendendo con uno speroncino di roccia aggirato da una traccia di sentiero nel
sasso. Sopra la roccia un aspro recinto di spine rinserra il brolo (9) antico
del prete, aggrappato alla costa che spiove, e da questa parte affatto
inaccessibile. Era uno di quei luoghi perfetti che si trovano nei romanzi di
cavalleria; l’erba, l’acqua, la roccia, l’orto misterioso, aereo, e l’alto
dirupo alle spalle e la prospettiva dei platani. Invece appena al di là del
torrente c’erano i muri e gli orti del paese, le schiene rozze delle case (lì
di fronte è quella dov’è nato mio nonno), le viottole dove non passava nessuno,
tranne un bambino con la capra. Altri luoghi ho riconosciuto poi nei racconti
di cavalleria, a cui davano adito i sentieruoli dietro al Castello, luoghi come
la Fontanella, il Paraìso, con la polla dell’acqua sorgiva, il muschio e
l’ombra pezzata degli alberi.
I dossi dietro al Castello erano
tutta una rete di sentierini-stròsi, e stròso (10) è avventura. Stròso rimonta
contrafforte, scala gobbetta, adduce a pino in cresta; penetra, infrasca
disinfrasca; punge con rùsse (11), consola con primule. Da stròso si rubano
pere pome ùe (12).
Chi ze che ròba la ùa
spinèla (13)?
La ùa-mericàna, la bromba (14) idropica,
l’àmolo (15) acido, il pèrsego (16) che dà nel verdastro e sente di màndola,
l’armellino (17) che allega (18)?
Stròso da còrnole (19), còrnole
garbe (20); stròso da dùdole (21). Nosèlle appena fatte (22), e nello spiàccico
verde le tenere nóse (23) nuove, e le more.
Quale vùto (24),
quele rosse o quelle negre?
Quel che vien vien!
Quel che vien vien!
Per questi viottoli si ruba, si
esplora; viottolo turba, eccita, se ne sbuca correndo a mezzogiorno, si rivede
dall’alto il paese, ridendo, con la faccia tutta impiastricciata di more.
Lo spazio borgato era chiuso da
fermagli di fossi e di ponti: oltre i ponti del Livargón, c’era la piccola Rana
bizzarra a occidente, e quassù la misteriosa Vedezai evaporata tra i campi,
lasciando quasi solo un nome. Ma era nostra anche tutta la costa che scende a
Santomìo lungo la strada che comincia al ponte delle Galline, e qui in cima al
paese la strada che va alle Case e corre lungo la mura del Montécio. Questa è
una piccola altura oblunga e irsuta nel mezzo dei campi cintati del Conte, dai
quali un muro divide l’orto di casa mia. È come una bella nave cogli alberi
scuri scuri, che navighi verso San Vito; ci volta la poppa che è fatta a
gradoni e meno fitta di alberi; è una nave di lusso, fatta in modo da parere un
monticello isolato nella pianura, e come le navi pare piccola quando si guarda
dall’alto dei colli, ma andandoci dentro si vede che è grande, e si può
perdersi.
Le Case e Santomìo sono le nostre
frazioni; ne abbiamo un’altra lontana i mezzo alla pianura; che si chiama la
Molina, dove verso la fine della settimana si passava sotto a uno striscione di
tela bianca teso sopra la strada. C’era scritto in tutte maiuscole QUESTA FESTA
CINE. Alla Molina fu come in esilio per qualche anno, dopo che i casi della
vita ci avevano separati, il mio amico Piareto. I suoi vi facevano i fornari;
mi sono accertato di recente che c’è ancora un fornaro autonomo alla Molina.
Tutto si trasforma ora così in fretta che non si è più sicuri di nulla.
“You mustn’t expect a
romantic paese like Marostica, my
dear.”
(Viaggiatore inglese accompagnando un amico a Malo, verso la metà del
sec. XX)
Il paese non è cambiato come
tanti altri, ma è pur cambiato. Fino a questi ultimi anni era restato quasi
fuori dello sviluppo industriale e commerciale del dopoguerra, ma ora ci è
arrivata una piccola brezza di prosperità. Tra il paese e la nuova strada di
Schio è sorto un quartiere di case nuove, nel vecchio centro le case si sono
rinnovate, molte hanno ora anche il bagno, le osterie e i negozi si sono
rammodernati, ci sono lampioni al posto delle vecchie lampadine col piatto di
ferro appese ai fili.
Il rinnovamento è cominciato
sette o otto anni fa. Prima di allora il solo senso che pareva venire dal paese
(dopo la guerra) era un’immagine di stanchezza e di decadenza. Guardando
dall’inferriata della mia finestra, quando venivo a casa, il palazzotto del
conte Brunoro qua di fronte, mi pareva di vederlo agonizzare. Nell’alto portone
di legno scuro c’era un portellino come una feritoia; le finestre del
pianterreno ingabbiate dalle grate davano su un buio muffito, di cameroni
trasformati in ripostigli. Due fasce di muratura staccano il primo piano:
finestre a largo intervallo, con gli scuri verdi, sempre chiuse, tranne quella
centrale da cui in un barlume nebbioso s’intravedeva l’altra opposta, aperta al
nord, attraverso lo spazio di uno stanzone patriarcale. Dentro, in qualche
parte, lavorava l’altissimo, circospetto, silenzioso signor Nicola falegname,
venuto ad abitarci colla famiglia in tempo di guerra.
Dalla casa del Conte, all’altro
lato della strada, fu aperta una porta senza rumore, poi fu richiusa e sbatté.
Uscivano il Conte e la Contessa, distintissimi, isolati, antichi, aprivano gli
ombrelli sul marciapiede. Un carro col fieno passava il rastrello del Montécio.
Era uno spettacolo funebre:
morivano i prati verdi, la siepe troppo folta, gli alberi sovraccarichi di
foglie. Mi pareva di non poter comunicare con nessuno. Passavano automobiline
col motore imballato, stupidi corvi spennacchiati, e una gracchiò.
Le strade, le persone, gli
edifici: tutto pareva soltanto che invecchiasse, che si preparasse a morire
senza altro senso. Sarà stato nel 1953: era certo un errore di prospettiva
anche allora; ad ogni modo in seguito la modesta ripresa della vita del paese
ha cancellato queste impressioni. Qualche anno fa, tornando dopo un’assenza
d’un paio d’anni, abbiamo sentito dappertutto un’aria di nuovo. In questo paese
che si svecchia e si sgretola, mi dicevo, le cose di prima avranno più senso,
non meno. Il cromo scaccia il legno, i finti marmi la pietra, il neon le
lampadine; i bagni entrano nelle case, le cucinette moderne soppiantano le
vecchie cucine; verranno i termosifoni, i frigoriferi, i tappeti. Non importa:
è perché la gente ha ricominciato o forse ha sempre continuato a vivere. È come
“le campane d’argento sopra il borgo” (25), e poi il resto che non si può
fermare, le antiche travi, i mattoni rossi delle camere, gli intonachi, i
corridoi, i ciottoli della corte, il vecchio cesso nel cortile.
Le case del centro hanno un
portico selciato che dà nel cortile; nel portico si aprono le porte delle
stanze a pianterreno, e le scale. Le stanze sono a travi, i pavimenti a mattoni
o a tavole di legno. La cucina è la stanza più importante; c’è il focolare di
pietra, la cucina economica, la tavola bislunga dove la famiglia si siede a
mangiare due volte al giorno. Qui i bambini fanno i compiti, la mamma cuce. Gli
uomini non si vedono mai seduti in casa, tranne all’ora dei pasti. Una volta
che Gaetano era gravemente malato il papà lo prese in braccio e si mise a
sedere in cucina sulla sedia vicino alla porta: ricordo che aveva il cappello
in testa, calato sugli occhi, e lagrimava.
Le camere sono grandi e nude,
gelide d’inverno; hanno letti di ferro con la rete metallica (figli) o gli
elastici (genitori), il materasso di crine sotto e quello di lana sopra. C’è un
lavandino in camera, con la brocca e la secchia; in questa al mattino si
vuotano anche i vasi da notte.
La casa ha amplissimi granai,
quasi un’altra casa lassù, ventosa e luminosa, cogli alti soffitti sbilenchi.
Queste sfere sopramondane hanno più importanza che non si possa dire: si
dovrebbe trascrivere tutto in chiave neo-platonica. Era come la Sacrestia nuova
di San Lorenzo a Firenze: c’era la zona intermedia delle cose terrene, camere,
cucine, cortili; in basso quella oscura dell’Ade a cui davano adito la scala
della cantina, la casetta della benzina in orto, e le altre aperture da cui
s’udivano gorgogli di cose liquide, sotterranee. Qui in alto c’era la sfera
nitida, spaziosa, aperta e nuda dei granai, il mondo scorporato dove emigrano
le idee dei giocattoli rotti, degli oggetti spenti; il mondo delle essenze che
l’artista ha cercato di riprodurre in pietra serena a San Lorenzo.
Gli sporti del tetto sono ampi, e
danno alla casa un’aria quasi aggrondata. “Gorne” (26), “stellaresse” (27): qui
al riparo si può stare a guardare la piova appoggiati al muro del cortile,
all’asciutto. Spesso le finestre hanno l’inferriata, e il sole entra nella casa
a rombi. C’è un tinello per famiglia: ha i mobili morti, gli scuri accostati.
Se non c’è un battesimo o una visita importante, raramente la famiglia lo usa.
Se ci si porta un visitatore inaspettato, chi lo precede scocca via dalla
tavola una mosca morta, raddrizza le fotografie a sghembo nella cornice.
Nelle case migliori c’è un
rubinetto d’acqua corrente in cucina, o nel retrocucina dove le donne lavano i
piatti. L’acquaio è un’unica grande lastra di pietra viva, sopra di esso sono
appesi ad una grossa mensola i grandi secchi di rame in cui si tiene l’acqua
che si va a prendere alla fontana pubblica più vicina. D’estate anche chi ha il
rubinetto in casa manda a prendere l’acqua fresca alla fontana. Quest’acqua dei
secchi si attinge con una “cassa” di rame, nessuna acqua è buona come quella
che si beve così. Sotto i secchi c’è il catino di rame, dove ci si lava le mani
durante il giorno, e chi non ha il lavandino in camera viene a lavarsi la
faccia alla mattina.
C’è molto rame in casa, secchi,
testi (28), stampi, leccarde (29), paioli appesi sopra il camino. Sospeso alla
catena del focolare c’è il paiolo della polenta.
Tutto ciò che ha attinenza con la
polenta era importante, il ceppo incavato che premevano col ginocchio sul
paiolo per tenerlo fermo, la méscola, le croste che si grattano direttamente
dal paiolo, il vasto panaro (30), il filo di cotone con cui si tagliano le
fette che solo i barbari ignari assassinano con la lama del coltello. La
pellagra non c’era più, ma si ricordava benissimo, collettivamente parlando.
“Pelagroso!” ci dicevano ridendo le zie, come per vezzeggiarci con una minaccia
che non fa più paura. Poi si guardavano attorno, se per caso non ci fosse uno
da Isola che sentiva, e precisavano abbassando la voce: “Pelagroso da Isola”.
Chissà se loro dicono pelagroso da Malo? Secondo i nostri vecchi però, se lo
dicono sbagliano; la pellagra si era seduta lì e tenne duro un pezzo; noi
andavamo soltanto a vederla. Io non mi pronuncio.
La stanza da bagno è sconosciuta;
due o tre famiglie di signori si dice che l’abbiano; la Flora ne ha vista una
nella casa del Cavaliere. Quando si è sporchi ci si lava sotto la fontana del
cortile; in casi eccezionali si fa un bagno nel mastello in lissiara (31).
Dalla lissiara si scende in
cantina; la cantina è abitata da un popolo furtivo di pantegani, visitata
talvolta da ande (32) che scendono dai prati del Montécio e vi lasciano una
pallida spoglia verdazzurra (le consideravo piccole fate trasformate in
serpenti, e come le fate non ero proprio sicuro che ci fossero). C’erano altre
cose tra i poderosi piani incrocicchiati della cantina; cose indefinite,
addormentate tra le muffe e le ombre, forse sepolte a fiore del pavimento di
terra da cui, scendendo con la candela di sera a prendere il vino, pareva che
cominciassero vagamente a esalare. La porta pesante si chiudeva col grosso
catenaccio (ancora storto per la sberla dell’aria, allo scoppio della Pisa),
sulle finestrelle c’erano robuste inferriate: le cose della cantina si serravano
dentro.
C’era nella casa un retro terra
di barchesse (33), legnaie, ripostigli, cameroni di sgombero. Da noi c’era il
favoloso solaio dell’officina, pieno di cadaveri d’ingranaggi, cuscinetti a
sfere, leve, pedali, aste, rondelle, catene; tutti impegolati in grumi secchi
di vecchio sangue verde-nero. Vi si montava per la più alta delle scale a
pioli, attraverso un’apertura circolare, e dall’altra apertura circolare al di
là dell’enorme stanzone in penombra si vedeva il pino dell’orto e la cerchia
delle colline. Si aveva la sensazione di spiare il mondo da lassù, dal buio
verso il chiaro, dal silenzio verso il rumore; era anch’esso un solaio, dunque
parte del sopramondo, una specola.
Le ossa spolpate dei motori si
gettavano poi nel cortiletto della forgia (34), in un mucchio sotto il primo
gelso, e lì arrugginivano alla piova. Nel recinto della forgia c’era la temuta
casetta del gassogeno, tra le dune di calce spenta: scoppiando, avrebbe fatto
saltare il paese, cancellato tutto. Allo scoppio della Pisa, qualche anno prima
che nascessimo noi, era intervenuta la Madonna del Castello a proteggerci:
ondeggiarono i camini delle filande, caddero i calcinacci, scrosciarono i
vetri, ma insomma andò bene. Però la Pisa è a due chilometri, e la villa che
c’era, dopo lo scoppio non c’era più. Ora la casetta del gassogeno, con dentro
il grosso cilindro metallico di colore incarnatino, non era a due chilometri,
ma in forgia; ogni speranza nella Madonna poteva perciò riferirsi soltanto alla
fase precedente allo scoppio, e glielo rammentavamo spesso. In forgia c’erano
anche le case delle galline e del maiale, e l’appartamento dei conigli sopra il
cesso.
Il cesso si apre in fondo alla
corte. Non c’è sedile: davanti alla porta c’è però un cavalletto di legno per
lo zio che ha l’artrite; è suo personale, fatto da lui e bislacco e segaligno
come lui. È un po’ tagliente, una mera lama d’appoggio; come esattamente si usi
nessuno lo sa, solo lo zio se lo porta dentro.
Qualche ospite di eccezionale
riguardo lo portavamo al cesso giù dalla nonna, che era considerato più fine perché
aveva un sedile di mattoni e un coperchio di legno (un disco con un piolo in
mezzo come un manico). Non c’era il normale letamaio dalla nonna, ma una camera
sotterranea, dentro la quale si poteva guardare per una botola quadrangolare
che scoperchiavamo con molti sforzi. Il fetore di questo letamaio segreto era
corrotto e mefitico, non forte e robusto come quello del nostro di casa, che
rispecchiava il cielo. Ma tornando agli ospiti di riguardo: li conducevamo giù
per il Listòn fino alla porta della nonna; si suonava (campanella col filo
metallico), si facevano le presentazioni, si diceva “Faccia come a casa sua”, e
s’avviava l’ospite per il cortile.
Nella maggior parte dei cortili
il cesso è usato da varie famiglie, e se c’è una bottega o un’officina, anche
dai lavoranti. Per orinatoio si usa il letamaio, gli uomini davanti al muretto
di riparo, i bambini sopra: in caso d’urgenza lo usano anche le bambine.
L’urgenza assoluta spinge tutti, anche le donne, in fondo all’orto.
I conigli (di cui la forgia era
la patria e qui venivano uccisi, davanti alla scaletta di casa loro) avevano
una verandina che dava sopra il letamaio, e spesso quando noi eravamo in piedi
sul muretto, specie se pioveva e si doveva tenersi rasente al muro, venivano di
sorpresa a lambirci l’orecchio, provocando sgrìsole (35). Montando sul muretto
si causavano scatti, guizzi e tuffi da parte dei pantegani di letamaio, un
ceppo a sé di pantegani, fulvi e sgarbati. Li conoscevamo abbastanza bene,
benché di solito corressero a nascondersi con tanta petulanza, perché
scendevamo spesso tra loro, non di propria volontà però, ma perché sul muretto
dalla cima bombata era facile perdere l’equilibrio.
Queste visite erano più o meno
rischiose a seconda delle condizioni del letamaio; anch’esso ha le sue
stagioni, i suoi ritmi naturali, il volgere della luna lo gonfia e lo secca
senza posa; a volte è arido e compatto come un campo in tempo di siccità, a
volte quasi un lago pieno di brutte bolle nere. Uno dei miei primi ricordi di
mio fratello è quando ricomparve in cima al cortile dopo un’assenza un po’
lunga in forgia. Gli era accaduta per la prima volta la cosa che solo con una
certa esperienza s’imparava a prendere in
one’s stride (36), ed era un po’ scosso. Era vestito di seta cruda, quei
vestitini con gli sboffi, che s’abbottonavano sotto, ma la seta non si
distingueva più molto, si confondeva con le braccine, con le manine aperte, con
le gambette, con la faccina e coi capelli. Scendeva piano piano a gambe larghe,
facendo suoni che parevano sospiri.
Libera nos amaluàmen (37). Non sono molti anni che il mio amico
Nino s’è reso conto che non si scrive così. Gli pareva una preghiera
fondamentale e incredibilmente appropriata: è raro che una preghiera centri
così un problema.
Liberaci dal luàme (38), dalle perigliose
cadute nei luamàri, così frequenti per i tuoi figliuoli, e così spiacevoli:
liberaci da ciò che il luàme significa, i negri spruzzi della morte, la bocca
del leone, il profondo lago!
Liberaci dalla morte ingrata: del
gatto nel sacco che l’uomo sbatte a due mani sul muro; del cane in Piazzola a
cui la sfera d’acciaio arroventata fuoriesce fumando dal sottopancia; del
maiale svenato che urla in cima al cortile; del coniglio muto, del topo di
chiavica che stride tra il muro e il portone nel feroce trambusto dei
rastrellatori.
Libera Signore i tuoi figli da
questo luàme, dalla sudicia porta dell’Inferno!
Con tutte queste insidie e queste
minacce, la casa apparteneva tuttavia alla vita, ai traffici degli uomini e
delle bestie (le galline della zia Lena condividevano il territorio e quasi il
lavoro degli operai dell’officina, ed erano considerate una nuova mutazione di
galline meccaniche), alle cose di cui è piena la giornata. Era un organismo
assai più complesso delle case di oggi; conteneva ogni maniera di prodotti,
granaglie e patate in granaio, vini in cantina, le stanghe dei salumi, le assi
coll’uva secca; le cataste della legna, i mucchi di fascine. L’ampio brolo le
portava dentro un pezzo cintato di campagna, sulle mure fiorivano il glicine e
il calicanto; nel cortile arrivava su carri e carriole, in sacchi e su stanghe,
la vita del paese. C’era spazio, il mondo domestico era mescolato con quello
del lavoro, anche fuori dell’officina: gli uomini spaccavano la legna, gli
ortolani vangavano, i muratori mescolavano la malta in cortile.
La casa era sommamente bella in
certi giorni d’autunno, verso sera: in ogni parte si lavorava, in officina
sciabordavano le cinghie dei macchinari, stridevano le lime, ronzava il
trapano. Zio Checco martellava sull’incudine, zio Ernesto sotto la tettoia
cambiava una gomma alla SPA (39), il papà ossigenava (40) vicino al pilastro e
lo si vedeva chino sopra il lungo pennacchio della fiamma blu; gli operai preparavano
i torpedoni in cortile.
Nella lissiara stavano facendo il
vino con gli ultimi cesti che le vendemmiatrici avventizie portavano dall’orto.
Nella cucina della zia Lena girava uno spiedo d’uccelli davanti alle vampe del
focolare; la zia Nina in ufficio ripassava i conti di fine mese, i ragazzi
studiavano in cucina, i bambini giocavano nel portico. Mi affacciavo alla
finestra della camera che dà sul cortile, lasciando quello che stavo leggendo,
e mi rallegravo.
Le strade principali erano
selciate con ciottoli tondeggianti nerastri, che la pioggia faceva luccicare;
in centro c’erano marciapiedi ordinari, altrove due liste parallele di pietra
rosa con un orlo di sassi scuri.
Chissà chi ha avuto l’idea,
recentemente, di provare a sbattezzare il nostro Listòn, per chiamarlo via San
Gaetano? (Sono poi arrivati a un compromesso: Listòn San Gaetano). So che anche
don Tarcisio ne era scontento. C’è uno zelo malinteso che vorrebbe appiccare i
nomi dei santi e dei prelati alle vie di cui un’età più cristiana di questa si contentava,
contrà Barbè, contrà Lòza, contrà Porto, contrà Lovara, contrà Muzana,
Cantarane, Capovilla.
Già c’era la via San Bernardino
(la nostra, dove c’è la vecchia chiesa col piccolo, sobrio orinatoio sul
fianco, i Borboni in sagrestia, e un tubo di stufa che esce dalla finestra);
c’era in fondo al paese la via San Giovanni, e c’era contrà Chiesa. Non poteva
bastare? Ora la contrà Lovara non c’è più, l’hanno data al cardinal De Lai
perché passa davanti alla casa dove nacque. Meglio così però, piuttosto della
stradella laterale che si chiama contrà Busìa ed era teatro delle gesta del
Basadonne quando quelle del Cardinale non erano ancora incominciate. Io non
sono contrario alla commemorazione stradale dei nostri compaesani più distinti:
vedrei volentieri anzi un “Viale del Tar” (41), e dovendo manomettere il nome vecchio,
un “Listòn Giacomo Golo” (42).
Tutto è in pericolo.
«Vuol vedere che rovinano la
chiesa di San Bernardino? Guarda quei forati. Stavolta lo chiudono.»
È uno degli orinatoi più esposti
della provincia, proprio sull’angolo tra il fianco e la facciata. Chi lo usa non
volge le spalle ai passanti, ma il fianco indifeso. Cicci vi passava lunghi
periodi spensierati: volgeva la testa, seguiva il passaggio, salutava
cortesemente le signore.
L’altro in Piazzetta, sul muro
tra Valentino e la Scopa, l’hanno levato da tempo. La gente però lo usa ancora,
ne sposta il fantasma sotto le finestre di Valentino. La famiglia seduta a cena
vede apparire sul davanzale la facce degli utenti trasognati, che guardano
dentro.
E la bella palassina che
costruivano dietro al campanile? La mamma di Ampelio tornando da messa si
domandava di chi fosse. Stentarono a convincerla che era solo il pisciatoio
nuovo. Una volta erano inconcepibili così complessi e suntuosi. Austerità dei
nostri antichi costumi, piccoli drammi dell’incomprensione.
Il putèlo sceso per la prima
volta dal monte con la mamma a vedere Malo, aveva veduto tanto, troppo. Tutto
gli pareva possibile, anche l’orrenda cosa che veniva su lentamente per via
Borgo. Era una Sàura (43) carica, un mostro gigantesco che riempiva tutta la
strada. La gente non scappava, si metteva contro i muri.
Il putèlo non aveva più il tempo
per provare a capire. Appoggiato al muro con la mamma (c’era un po’ più spazio
sul marciapiede dall’altra parte, ma era tardi per attraversare) resistette
alle scosse del terrore finché la Sàura ruggente fu a due metri, a un metro;
poi corse in mezzo, sparì nelle fauci deformi.
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(1) strafòglio = trifoglio; anche
la spagna è il trifoglio, ma forse per l’autore è più semplicemente un campo di
erba
(2) moraro = gelso
(3) no-man’s land = terra di
nessuno
(4) giara = ghiaia
(5) roste = dighe di sassi o
terra
(6) sottarole = nuotate
sott’acqua
(7) mascagna = pettinatura maschile
con i capelli all’indietro (come usava il compositore Pietro Mascagni)
(8) brentana = esondazione di un
torrente, un canale e simili
(9) brolo = orto, frutteto
(10) stroso = sentiero
(11) rùsse = cespugli spinati
(12) pere pome ùe = pere mele uve
(13) ùa spinèla = ribes
(14) bromba = prugna
(15) àmolo = susina
(16) pèrsego = pesca
(17) armellino = albicocca
(18) allegare = dare quella
sensazione, tipica dei frutti acerbi, per cui sembra di sentirsi legare i denti
(19) còrnole = frutti del
corniolo
(20) garbe = aspre, asprigne
(21) dùdole = nespole nane
(22) nosèlle appena fatte = nocciole
appena mature
(23) nóse = noci
(24) vùto = vuoi
(25) citazione dalla poesia di Eugenio Montale “Carnevale di Gerti” (Le
Occasioni)
(26) gorne = grondaie
(27) stellaresse = punti della
grondaia dove l’acqua tracima
(28) testi = recipienti di vario
tipo
(29) leccarde = recipienti di
metallo che vengono collocati sotto la carne che cuoce per raccogliere il
grasso che cola
(30) panaro = tagliere
(31) lissiara = lavanderia, o
semplicemente luogo in cui le donne facevano il bucato
(32) ande = serpenti
(33) barchesse = tettoie
(34) forgia = fucina
(35) sgrìsole = qualcosa come
brividi
(36) in one’s stride =
disinvoltamente
(37) liberanosamaluàmen = deformazione
delle ultime parole del Padre Nostro in latino: “libera nos a malo. Amen.”, ossia
“liberaci dal male. Amen.”
(38) luàme = letame, ma con un
senso di particolare ribrezzo
(39) SPA = marca di automobili
prodotte a Torino dal 1905
(40) ossigenava = usava la fiamma
ossidrica
(41) Tar = nome di battaglia di
un capo partigiano famoso nella zona, a cui Meneghello dedica alcune pagine di Libera nos a Malo in un successivo
capitolo
(42) Giacomo Golo = era l’accattone
del paese, che l’autore definisce “il re dei poveretti mendichi”
(43) Sàura = il prototipo dell’autocarro
Diesel, detto di ogni autocarro di grossa mole
Cartina della zona di Malo con in evidenza alcuni dei paesi citati in “Libera
nos a Malo”
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