Nel terzo capitolo del suo
romanzo d’esordio Meneghello racconta fatti e personaggi dell’età dell’asilo: l’incubo
dell’ammissione, i giochi semplici, le canzoncine infantili e quelle di voga in
casa (siamo negli anni Venti del Novecento), le monellerie dei bambini, i
disegni alla lavagna, addirittura le riflessioni bambinesche sul sonno e l’arte.
In alcune note traduco in italiano qualcuna delle espressioni dialettali usate
dall’autore.
C’era stato anche un trauma iniziale
all’asilo, la cerimonia dell’ammissione, quando ciascun bambino, col
grembiulino nuovo a scacchi bianchi e azzurri, veniva ammesso a baciare il
panaro (1) di suor Eulalia nel cortiletto inghiaiato davanti all’ingresso. Di
questi azzardi della vita eravamo già informati: scendendo a Vicenza in
macchina col papà passavamo sempre la cinta daziaria nascosti sotto i sedili
per non dover baciare il panaro alla vecchia nella casetta delle guardie.
Non avevo nulla contro suor
Eulalia (che era anziana e bonaria, e portava gli occhiali a pince-nez), e non
m’importava molto di doverle baciare il panaro come gli altri. Ma quando venne
il mio turno e mi trovai davanti a quel panaro, in una grigia mattina
d’ottobre, rimasi sconcertato. Era grandissimo, color zafferano, tutto
scanalato da rughe verticali, flosce e parallele. Francamente lo trovai
ripugnante, e ci fu un trauma.
Mi risvegliai da questo sogno
sgradevole tutto sudato, la notte prima di essere ammesso all’asilo; ma alla
mattina le notizie che avevo raccolte sulla procedura per l’ammissione
risultarono del tutto infondate.
In superficie era un mondo di
bambole, con le stelle di carta colorata e le candeline. La montagnola
dell’anteparadiso era in fondo al cortile e c’era sopra un’acacia: radunati lì
intorno si pregava Mama-bèla mandate la
piova quand’era secco, e Mama-bèla
mandate il sole quando era già spiovuto. Lì in quei rami sgocciolanti,
figurandoseli carichi di candeline e mezzipanetti di pan d’oro, si vedeva in
controluce com’è fatto il paradiso.
Ignara di confessioni, appena
uscita di mano al creatore, l’anima semplicetta meditava sul suo ritorno lassù,
col dito in bocca. Era nutrita di riso-e-latte nei giorni pari, l’animuccia, e
di farfalline in brodo nei giorni dispari; e risiedeva nel cuoricino.
Il cuoricino va soggetto a due
disturbi, entrambi mortali; può cascare (per desiderio sregolato di un
giocattolo, per esempio, o di mentine), e può scoppiare a causa dei dispiaceri.
La caduta del cuoricino provoca una fine più dolce, imbambolata; lo scoppio è cosa
brusca e fa più male. Comportavano pericolo di scoppio varie cose: la chiusura
nel sottoscala, la partenza della mamma, e – almeno in quell’anno che la mamma
non c’era – certi fioretti che si chiamavano gli occhietti della Madonna,
piccoli e blu, che quando si guardavano da vicino sdraiandosi per terra in
Castello, si sentiva il cuoricino gonfiarsi e gonfiarsi, e si stava ad
aspettare con una certa curiosità se scoppiasse.
Careghete (2), Dòne!
che porta le Madòne
che porta i Andoléti
Schiti! Schiti!
Schiti!
Queste sedioline sono quadrate, e
si fanno intrecciando quattro polsi e quattro pugni. Se ne annuncia l’arrivo a
un ipotetico pubblico di Donne che s’affacciano alle porte asciugandosi le mani
nel grembiule. Ma le sedioline non sono da vendere, sono veicoli d’una piccola
processione, e portano in gloria le madonnine ricciute, gli angeletti sudati.
Sui faccini che l’omaggio da paradiso non meraviglia, si sparge poi un brivido
d’ilarità quando la sediolina si sfascia sotto la tiepida grandine
depositandoli per terra. Le madonnine e gli angeletti bersagliati dalle galline
celesti, scalciano in aria ridendo, e si vede Venezia.
Ma sotto la superficie, al tempo
dell’asilo, c’erano però varie complicazioni.
La suora mi chiamò, chiuse la
porta, e in confidenza mi propose di collaborare alla soluzione di un mistero.
Era scomparso da due giorni il berretto di lana verde della Imelda e non c’era
verso di trovarlo: chissà se io che ero un bambino così bravo non sarei
riuscito?
Non m’impegnai a nulla, anche
perché avevo altro da pensare. In primo luogo dispiaceri d’amore, e si dà il
caso proprio con la Imelda: non un capriccio ma una vera passione, e poco
corrisposta. In secondo luogo avevo delle difficoltà in famiglia e – pare
impossibile – proprio per un berretto verde di lana.
Due giorni prima c’era stata una
gran brutta scena. Io portavo allora un pellicciotto di cuoio nero foderato di
pelo: un capo signorile, colle tasche tagliate di sbieco. A casa quando mi
tolsero il pellicciotto videro il gnocco (3). «Che cos’hai lì?» Tirarono fuori
il berretto verde. «Di chi è questo?» Parevano spaventati; io naturalmente non
parlavo. Dissero che me l’avrebbero fatto dire, e provarono. Prima ero in
piedi, poi per terra accanto alla gamba tornita della tavola di cucina; c’erano
voci alte e strilli, c’erano anche gli stivaletti color rame della mamma
allacciati con tante fibbioline fin sopra la caviglia. Non ero mai stato
veramente battuto, e la cosa oltre a tutto m’incuriosiva.
Non dissi nulla, ma era andata
così: la suora ci aveva illustrato il settimo comandamento con quella rotazione
a ventaglio delle dita dal mignolo all’indice che caratterizza il rubare. Io ero
allora a un punto morto della mia relazione con la Imelda.
In quel tempo mi lasciavano
andare a casa a desinare, dispensa speciale per via del riso-e-latte, e passavo
ogni giorno per lo spogliatoio dov’erano appesi i cappottini e i berretti. Mi fermai
a guardare il berretto verde della Imelda e sentii un empito cieco d’amore,
indistinguibile dal desiderio di rubare: rubare,
non semplicemente portar via.
Tentai a lungo di rubare il
berretto verde appeso al gancio, ruotando le dita. Era impossibile: dovetti
staccarlo con l’altra mano, metterlo per terra e rubarlo di lì.
La suora non ebbe poi bisogno del
mio aiuto, la Imelda dopo un po’ ricomparve col berretto verde; come, non mi
curai di sapere. Mi bastava di non aver detto nulla a nessuno, non sono cose
che si dicono, non avrebbero capito nulla.
E chi era Olmo?
Aveva la testa rapata, a forma di
grossa bietola; era vestito più rozzamente di me, un contadino credo. Sarà forse
emigrato, perché scompare dal paese dopo il tempo dell’asilo, lasciando solo un
nome. Lo vidi appoggiare dopo mangiato, alla mia destra, la testa sul braccio e
il braccio sulla panca col pugno chiuso; e in breve lasciare la presa, e un
elastico rosso cadergli di mano. Avevo anch’io la testa appoggiata sul braccio
con l’ordine di dormire; ma invece sbirciavo. Fu allora che pensai per la prima
volta che strana cosa è il sonno. Olmo non c’era più, era restata lì la rapa
ottenebrata, disabitata, e tra la rapa e i miei occhi, nell’afa estiva, la mano
sfibrata semiaperta.
Il sonno mi sembra ancora
interessante. Ora so che certe aree del cervello dormono sempre: il sonno non è
uno stato nettamente distinto dalla veglia; un po’ si sta sempre dormendo, si
dorme in piedi e si dorme guidando una motocicletta, come sa ogni motociclista,
e in altre circostanze. Ciascuna fetta del cervello, ciascun tassello forse,
dorme a turno; mentre noi vegliamo un trapezio di cellule s’appisola, affonda
nello stupore intenso. Penso che il sonno circoli irregolarmente, saltelli come
lucette che s’accendono e si spengono qua e là. Una parte di noi dorme sempre;
ma tutti non dormiamo forse mai, qualcosa veglia quando si giace addormentati,
e produce la maiala alta come un vitello, lunghissima e magra, una specie di
enorme cagna rosata che mi pareva avessimo comprato, e pensavo, Orca-miseria,
quando sarà ingrassata verrà un pachiderma da dieci quintali, mangerà troppo e
farà schifo.
Dietro le quinte del teatrino
dell’asilo, in attesa del turno per entrare in scena, la Zaira mi mostrò la
broda. Tirò su la cottoletta fin sul ginocchio e poi su ancora e poi, madonna,
ancora; e vidi la broda. Era grande come una palanca, e aveva anche il colore
ramato delle palanche. In paese si diceva brosa (4), ma la Zaira era della
campagna: mi fece toccare la broda col dito e sentii che era ruvidetta e un po’
tiepida. Era una broda interessante, ma mostrata così a tradimento, e così in
su, ero troppo turbato per apprezzarla come meritava.
All’asilo ci facevano cantare
canzoni piene di sentimento; altre ci arrivavano dal mondo esterno.
Ramona
Co na palanca se va
in mona (5).
Mi pareva una bella canzone, un po’
triste, con quel richiamo alla rovina economica che càpita fatalmente a chi non
possiede altro che dieci centesimi: una cosa ovvia in fondo, ma molto ben
detta. Pensavo che sarebbe piaciuta alla mamma, ma invece non le piacque
affatto.
La mamma stessa, e la Jovanka
slava, cantavano a volte un ritornello di cui apprezzavo molto sia l’aria che
le parole. Diceva:
Creola
Dalla bruna rèola.
Seguivano altre belle parole, ma
quelle prime bastavano. Le creole hanno un nastro lilla attorno alla fronte, e
la pelle scura; sono vestite di velo, e sotto s’intravede la rèola bruna bruna.
L’odore di creolina si nota appena.
«Vieni, che t’imparo il canzone
delle capinere,» diceva la Jovanka slava, e attaccava: Son baci di passion… Dovevano essere effettivamente di passion, a
giudicare dall’impegno.
Mi imparò anche a disegnare un
uomo. Prima si fa il profilo, pezzetto per pezzetto dalla fronte alta e
intelligente all’attacco del collo, poi si chiude questo profilo con la calotta
della testa, cercando di farla proporzionata. C’era anche il problema delle
braccia. Io le facevo uno di qua e uno di là, con il solito striscietto che
finiva con quattro o cinque raggiolini. «T’imparo io a fare li bracci,» disse
la Jovanka, e prese a farmi fare addirittura le maniche di una giacca, con
tecnica bidimensionale. Tutto veniva un po’ lungo, sbilenco, ingrato. Lo vedevo
anch’io. Mi pareva però che la durezza di queste figure fosse più che
compensata dalla maturità dell’impianto; e quando la maestra Prospera, una
vigilia di vacanza, disse per far festa: «E ora chi viene a disegnare un Uomo
sulla tavola nera?» guardando me e Faustino sui banchi dei grandi, commisi l’imprudenza
di lasciarmi scegliere.
Cominciai col solito profilo, e
forse l’emozione accentuò ancor più la mia maniera; mi misi a cancellare e a
rifare: macché, sempre peggio. L’intera classe aveva accolto con entusiasmo la
proposta della maestra; e quando ero uscito io, anziché Faustino, mi era parso
che la maggioranza fosse per me. Ma a mano a mano che il mio lavoro procedeva i
bisbigli eccitati tacquero, e sopraggiunse un silenzio imbarazzato. Poi mentre
mi mettevo a lavorare alle complicate circonvoluzioni dell’orecchio, ci furono
le prime voci ostili.
Fu una débâcle completa. Lasciai sulla
lavagna un deficiente immusonito e legnoso, col braccio sinistro gonfio e
arricciolato come una proboscide per non toccare il marciapiede colla mano. Ora
la folla chiamava ad alta voce Faustino; quel Barabba saltellava sul banco,
impaziente di scappar fuori. Venne, e ridendo tracciò un cerchio, ci mise due o
tre puntolini ed ebbe fatta una testina che era un amore. Fece un corpicino
quadrato, ma vivo e vibrante, una traccia di calzoncini corti, e con pochi
altri segni franchi, semplici, lieti, aveva collocato sulla tavola nera un
ometto che sprizzava energia e allegria.
Tutti battevano le mani, e quando
Faustino per soprammercato con due segni ci fece un berretto, e con un ultimo
svolazzo ci mise sopra la tettina, la folla andò in delirio.
La maestra fece un tentativo di
riequilibrare la situazione: «Ecco,» disse, «questo è un monello che ride;
questo invece è un uomo serio che va al lavoro».
Altro che uomo serio! Un pampalugo
(6) era, una baccalà in piedi, presuntuoso, antipatico, brutto come la peste. Tirava
le sberle. Capivo confusamente e pungentemente com’è l’arte: è un ghiribizzo,
ed è semplice; la bravura non serve a nulla. Faustino mi porse la mano e
dovetti anche congratularmi.
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(1) panaro = in senso proprio è
il tagliere della polenta, ma qui, richiamato dalla sua forma, è il “sedere”
(2) careghete = seggioline, sedioline
(3) gnocco = qui, rigonfiamento
provocato dal berretto
(4) brosa = è la crosta che si
forma sopra un ferita
(5) andare in mona, oltre al
significato sessuale, ha anche quello di “andare in rovina”
(6) pampalugo = propriamente
sarebbe il fante di spade, ma in dialetto significa persona goffa, sciocca,
incapace (nel gioco di carte chiamato “a vecia”, chi resta alla fine con il
fante di spade in mano, perde la partita e fa infatti la parte dell’incapace)
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