mercoledì 19 luglio 2017

86 Libera nos a malo: capitolo 2 (di Luigi Meneghello)



Nella sua opera d’esordio Luigi Meneghello racconta con tratti ironici ma affettuosi gli anni della sua infanzia e giovinezza a Malo, la città natale, il cui nome viene usato nel titolo come un gioco di parole con l’espressione latina “liberaci dal male”. Nel capitolo 2 qui riprodotto l’autore racconta in particolare gli anni dell’infanzia (quindi gli anni Venti), tra ricordi di scuola, rapporti con l’altro sesso, scoperta delle parole della lingua italiana; una delle caratteristiche del romanzo è infatti l’uso di termini dialettali vicentini, che, pur comprensibili nel contesto, traduco in parte in italiano per chi non abbia voglia di fare uno sforzo di comprensione.

Giornata in solaio dove c’è, in tre o quattro casse e sparsa per terra, la storia della nostra famiglia, specie di noi figli, un caos di quaderni, conti, lettere, libri scompaginati. Le rilegature dei libri di scuola e le copertine colorate dei quaderni tornano a galla, sorprendenti e familiari come visi dal mondo dei sogni. Ci sono le cartoline illustrate che la mamma mandava al papà quando erano morosi; i quadretti della prima comunione; le riviste degli anni venti che erano già antiche quando vi cercavamo le donne con le còttole (1) sopra il ginocchio; diari, disegni, composizioni di ginnasio, di liceo, d’università; lettere di amici e di ragazze.
Nulla di tutto questo ha la forza di un quadernetto che una mano incerta ha intitolato di “Righe”, coi Pensierini interposti tra Problemi e Dettati, e il balbettio dialettale, l’ortografia paesana del bambino che fui quand’ero in “Seconda Classe”.
“La mia maestra si chiama Prospera Moretti. La mia scuola è posta in via Borgo ed è bella e spaziosa.”
Non me la sento di ritornare ora in questa bella e spaziosa scuola, una vecchia casa in mezzo al paese, dove oggi abita gente che non conosco. C’erano tre classi in una stessa aula, di sopra. Era una scuola “privata”, curioso residuo di un altro mondo; serviva alle famiglie più benestanti per mandare a scuola i bambini prima dei sei anni. Poi dopo la terza si faceva un esame – il primo della nostra vita – per entrare alle “Cumunali”.

“Io non ho mai preso a calci la mia maestra come Bruno Erminietto.”
L’antefatto mi è ignoto. Quando comincia il breve dramma la maestra Prospera ha già perso la pazienza; è a fianco della fila esterna dei banchi, ha afferrato Bruno Erminietto per un braccio e tira. Lui è aggrappato a un banco, la maestra grida rimproveri, piovono colpi confusi. Ora il colpevole è staccato dal banco, alla mercé dell’antagonista adulta.
Viluppo di sottane, strilli. Bruno Erminietto morsica e scalcia, tirando agli stinchi introvabili tra le sottane; ecco, ha trovato gli stinchi e sferra ora pedate efficaci, arcando il corpo.
Fu sopraffatto e trascinato via strisciando coi piedi sull’ammattonato.
Alla mattina ci si metteva in fila nel corridoio, aspettando di salire in classe. Faustino faceva l’estroverso, mostrava l’unghia del mignolo lasciata crescere ad arte, dava spettacolo. Cercai di fermarlo.
«Quell’unghia lì, s’incarna se non la tagli,» dissi; «diventa un’Unghia Incarnata.»
«E che cos’è un’Unghia Incarnata?»
Glielo dissi: mi era stato spiegato accuratamente.
«È un’unghia che diventa lunga così, mezzo metro, anche più; e ricurva in cima.»
«Benissimo,» disse Faustino. «Così potrò graffiarti anche da lontano.»
C’erano prima seconda e terza incastrate a intaglio: la prima in strati paralleli come una costa di mare davanti alla maestra; le dune e le roccette della seconda sotto le finestre, si articolavano all’interno in una plica di banchi centrali; in fondo i contrafforti della terza. Ai piedi della lavagna c’era la strisciolina sabbiosa della primetta, dove soggiornavano i piccoli non ancora maturi per la prima, gli “osservatori” che osservavano con aria spaventata.
Mio fratello Bruno, ammesso a questa spiaggetta sui quattro anni, osservò la prima lezione della maestra Prospera con inquietudine crescente. La maestra spiegava come s’impugna la Penna, protendendo Pollice Indice e Medio nell’aria, proprio davanti al naso di Bruno: l’Indice e il Medio devono essere paralleli, e sotto c’è il Pollice che quando poi s’introduce la Penna la spinge in su e la ferma. È il modo antico di impugnare la Penna, l’unico veramente adatto a fare le aste e i filetti come si deve. Credo che noi allievi della maestra Prospera siamo gli ultimi in paese che l’hanno imparato.
Le tre dita della maestra scendendo dall’alto, grosse, tese, forcute, parvero a Bruno una trappola spaventosa; capì che c’era in aria il progetto di far fare anche a lui la stessa cosa, col Pollice l’Indice e il Medio, ed ebbe la certezza che non ci sarebbe mai riuscito. Le tre dita in discesa gli parevano gigantesche, deformi, e sempre più vicine al suo naso. Si sentì in pericolo immediato e si mise a gridare: dovettero allontanare tutte le Penne, e dargli delle Mentine.
La maestra Prospera non era una donna, per noi, ma un fatto della natura, come il campanile, l’Arciprete, la piazza. Avvertivamo tuttavia, dalla foggia antica dei capelli, dalla pronuncia forse, che c’era in lei qualche cosa di arcaico. Era infatti una donna all’antica, che premiava con le mentine di zucchero colorato e puniva con piccoli colpi di bacchetta sulle nocche delle mani. Qualche volta ci metteva in ginocchio dietro la “tavola nera” sui chicchi di sorgo; spesso ci mandava in castigo, al pianterreno. Viveva ritirata, e quando si lasciava la sua scuola la si perdeva quasi completamente di vista.
Morì dopo la guerra, quando io ero ancora in paese, e la portammo a seppellire proprio noi alunni della mia generazione, io Mino Faustino e Guido. Eravamo disorientati e rattristati, e ci ripetevamo le frasi che scoprimmo di saper tutti a memoria.
“Questa mattina ho aperto le imposte e ho visto il sole. Poi mi sono lavato la faccia, le orecchie e il colo. Mi sono vestito e petinato. Dopo aver mangiato il caffelatte io sono andato a scuola. La mia scuola è posta in via Borgo ed è bella e spaziosa. La mia maestra si chiama Prospera Moretti.”

«Ma c’è un ma…» Certo che c’era, un ma, ma non a quello pensava la maestra Prospera quando concludeva il rapportino alle mamme o ai papà, sempre con la stessa frase. «Sarebbe proprio bravino, come dico… Ma c’è un ma.» Per lei era solo un rito: un’allusione al fatto che il bambino – ciascun bambino – era “vivo”. Il suo ma era impersonale, un attributo generico dell’infanzia; e i suoi accenni avevano un’aria civettuola di finta severità.
Invece c’era davvero, un ma, c’era da un pezzo: il ma dell’orto, il ma dell’asilo. Qui a scuola s’era incarnato principalmente in quel piccolo feticcio che la maestra stessa aveva proposto presentandocelo di chiamare La Bambolina, e poi nella bionda cugina di Mino, che lui aveva facoltà, e io no, di uscire dal banco a vezzeggiare quando la maestra era occupata altrove. C’era il ma; ma bisogna stare un po’ attenti quando sentono gli adulti che queste cose o non le capiscono o fanno finta di non capirle.
“Nella mia scuola, che è posta in via Borgo, chi fa il cattivo viene messo in castigo al pianterreno nel cesso.”
Nascevano complicazioni perché a volte il castigato, fatto uscire urgentemente, s’impadroniva della chiave e chiudeva dentro il compagno o la compagna o l’assistente che si chiamava Elsa; o la stessa maestra Prospera. Questo cesso era anch’esso spazioso, una specie di sala a mattoni, con un finestrino senza imposta che dava su un cortiletto. Per me diventava una fonte di sogni tutte le volte che otteneva il permesso di andarci l’Antonia.
L’Antonia era una florida donna coi capelli rossi, in età di otto anni. Le mie mire su di lei si concentravano su immagini suggerite da una parola in uso fra le “grande” di terza, di cui l’Antonia era la più cospicua. La parola era cesto, ed era la franca, fiorita, donnesca metafora del sedere.
L’ammattonato del cesso, il finestrino, l’Antonia, facevano una dolce corona d’immagini, e in mezzo il cesto dell’Antonia luceva come un ostensorio. Lo sognavo vividamente, ma senza spasimo, anzi con un sentimento molto vicino al piacere disinteressato che attribuiscono alla contemplazione estetica. Il cesto pallido e molle dell’Antonia, che cosa volevo farne? Contemplarlo, forse dal finestrino, soppesarlo benché sembrasse fluttuare: giocare insomma.
Tutt’altra cosa furono i miei rapporti con la Giulietta. Era una bambina di passaggio, nipote di uno dei dottori, venuta a Malo per qualche mese, bruna, moderna, piccante. Era stata messa con quelli di seconda nel banco davanti al mio; e io, curvandomi e storcendomi dietro una matita lasciata cadere, cercai di andarle a vedere le gambe. Vidi una coscia e rimasi come fulminato. Era pallida sopra l’elastico che fermava la calza nera, aveva riflessi azzurri, carne scompiglia-visceri.

Andavo e tornavo da scuola con mia cugina Este che era una delle grande, non importante come la Pozzàn, ma poco meno. La Pozzàan si fermò davanti al caffè Nazionale, e le grande attorno. Ci mettemmo in cerchio sul marciapiede.
«Allora stiamo arrabbiate con la Mantiero,» disse la Pozzàan.
«Con la Mantiero,» dicevano le grande. «Arrabbiate con la Mantiero.» Poi andammo tutti a casa a mangiare. Siccome io solo tra le grande ero piccolo e maschio, non avevo niente da dire e niente di speciale da fare, soltanto stare arrabbiato con la Mantiero. Ci misi il massimo impegno, benché nessuno mi controllasse.
Le grande erano in nove, otto arrabbiate con la Mantiero, e la Mantiero. In verità non si occupavano molto di me; io ridevo quando ridevano loro, e quando facevano la faccia seria la facevo anch’io, anzi un po’ troppo qualche volta. «Che cos’ha quello lì? Gli viene male?» dicevano a mia cugina Este: non parlavano mai direttamente a me, ma solo per procura alla Este. Io spianavo in fretta la faccia e loro tornavano a confabulare. Quando poi avevano qualcosa di veramente segreto, dicevano alla Este di mandarmi via, e parlottavano tra loro mentre io aspettavo in disparte.
Stetti arrabbiato con la Mantiero per molti giorni e quando passava da sola sull’altro marciapiede, con la scialletto nero stretto attorno alle spalle e un’espressione rattristata e dignitosa sul viso, io in mezzo alle grande sentivo un gradevole senso di complicità e cercavo l’occhio della Este o della Pozzàn per rassicurarle della mia intransigenza. Quelle non davano segno di nulla. Un giorno la Mantiero uscì in mezzo alle altre, e ci avviammo tutti insieme. Provavo un vivo senso di tensione, tanto più spiccato perché le formidabili grande sapevano nascondere bene i loro veri sentimenti. Parlavano del più e del meno, e la Mantiero partecipava alla conversazione e agli scherzi. “Ora la sbranano,” pensavo: invece in piazza si salutarono e tutte andarono via per conto loro. Appena possibile chiesi alla Este:
«Este, noi siamo arrabbiati con la Mantiero, eh?».
La Este mi disse: «Taci, sprotóne (2), cosa vuoi sapere tu?».
Mi resi conto che ero rimasto io solo a stare arrabbiato con la Mantiero: le grande avevano tradito la loro stessa causa con una frivolezza quasi incredibile. E non fu nemmeno l’ultima che mi fecero le grande. Scendevamo verso la piazza io la Flora e la Este: davanti a noi sul marciapiede uscì la signora Ramira, rossa di capelli, snella e presuntuosa. Mie cugine spettegolavano criticando la figuretta che ci precedeva ancheggiando. «La trà ‘l culo, (3)» bisbigliavano.
Io camminavo in mezzo e volevo partecipare anch’io alla conversazione, dare un contributo. Ci pensai su e dissi: «La trà la frìtola (4)». Questo contributo non era basato su un’osservazione empirica, ma lo stesso mi pareva abbastanza pregevole; invece le mie cugine si mostrarono scandalizzate e minacciarono di denunziarmi alla zia Nina. Ecco dunque: si possono fare i pettegolezzi sul culo, ma sulla frìtola no.

Dalla maestra Prospera imparavamo l’alfabeto e i numeri, e l’uso di certe parole come “spaziosa”, “chicchi”, “imposte”, e altre finezze della lingua scritta. Una volta trovammo anche “dirupi” che la maestra fece cercare alla Elsa in un libro molto grosso, nero, in cui disse che c’erano tutte le parole che ci sono.
Si arrabbiò però quando io, in seconda, scrissi in un tema a casa che la Pasqua e “una delle maggiori solennità ecclesiastiche”. Mi disse che io non potevo sapere cosa vuol dire ecclesiastiche, ma io cercai di bleffare e dissi che lo sapevo.
«E che cosa vuol dire?» domandò la maestra. Dovetti improvvisare: «Vuol dire le solennità dell’ano (5)». Era una spiegazione abbastanza ingegnosa, ma fu respinta.
L’effetto delle parole scritte, quelle della lingua, su di noi che parlavamo dialetto, era assai strano. Mia madre ebbe un alunno press’a poco della mia età, che si chiamava Mansueto ed era allegro. Spilungone, asimmetrico e simpatico. Andando a casa dopo una lezione su non so che fiore “odoroso”, Mansueto s’era fermato sotto il capitello di contrà Muzana e lanciava in aria una palla di gomma recitando come in una lauda:

La palla odo
rosa! la palla
odorosa! odo rosa!

Una parola credo di averla introdotta io a Malo, un pomeriggio. Eravamo in molti nel cortile della nonna, c’era un mucchio di sabbia e stavamo facendo certe invenzioni capricciose di castelli e torri, con grande eccitazione e trambusto. A un tratto vidi che la costruzione accennava a incrinarsi e dissi: «Crolla!». La parola magica sentita da me chissà dove, sconosciuta a tutti gli altri ma immediatamente capita, si sparse come una vampata. Tutti borbottavano «crolla, crolla,» affaccendandosi, mentre la nostra opera si accasciava. La parola nuova era l’evento stesso.

Avevo avuto delle avventure con le parole fin dal tempo dell’asilo (o come si diceva scola-l’esìlo), dove il mio arrivo era stato amareggiato da un’inattesa esperienza linguistica e insieme sociale. Fu quando espressi ingenuamente il proposito di fare pissìn, la sola espressione che conoscevo in materia, e fui deriso a lungo come una specie di signorina da quei sodi popolari tra i due e i cinque anni che dicevano soltanto pissare.

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(1) còttole = gonne
(2) sprotóne = “colui [come scrive Meneghello nelle note] che spròta per usanza. Sprotare è ogni parlare soverchio non gradito all’utente del verbo”. In altre parole sprotóne si potrebbe tradurre con altezzoso, uno con la puzza sotto il naso
(3) la trà ‘l culo = getta il culo di qua e di là, ossia ancheggia
(4) frìtola = letteralmente “frittella”, ma qui e in Veneto col significato di organo sessuale femminile
(5) ano = forma dialettale per anno, senza alcun riferimento alla parte del corpo umano quale in lingua italiana












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