Nella sua opera d’esordio Luigi
Meneghello racconta con tratti ironici ma affettuosi gli anni della sua
infanzia e giovinezza a Malo, la città natale, il cui nome viene usato nel
titolo come un gioco di parole con l’espressione latina “liberaci dal male”. Nel
capitolo 2 qui riprodotto l’autore racconta in particolare gli anni dell’infanzia
(quindi gli anni Venti), tra ricordi di scuola, rapporti con l’altro sesso,
scoperta delle parole della lingua italiana; una delle caratteristiche del
romanzo è infatti l’uso di termini dialettali vicentini, che, pur comprensibili
nel contesto, traduco in parte in italiano per chi non abbia voglia di fare uno
sforzo di comprensione.
Giornata in solaio dove c’è, in
tre o quattro casse e sparsa per terra, la storia della nostra famiglia, specie
di noi figli, un caos di quaderni, conti, lettere, libri scompaginati. Le
rilegature dei libri di scuola e le copertine colorate dei quaderni tornano a
galla, sorprendenti e familiari come visi dal mondo dei sogni. Ci sono le
cartoline illustrate che la mamma mandava al papà quando erano morosi; i
quadretti della prima comunione; le riviste degli anni venti che erano già antiche
quando vi cercavamo le donne con le còttole (1) sopra il ginocchio; diari,
disegni, composizioni di ginnasio, di liceo, d’università; lettere di amici e
di ragazze.
Nulla di tutto questo ha la forza
di un quadernetto che una mano incerta ha intitolato di “Righe”, coi Pensierini
interposti tra Problemi e Dettati, e il balbettio dialettale, l’ortografia
paesana del bambino che fui quand’ero in “Seconda Classe”.
“La mia maestra si chiama
Prospera Moretti. La mia scuola è posta in via Borgo ed è bella e spaziosa.”
Non me la sento di ritornare ora
in questa bella e spaziosa scuola, una vecchia casa in mezzo al paese, dove
oggi abita gente che non conosco. C’erano tre classi in una stessa aula, di
sopra. Era una scuola “privata”, curioso residuo di un altro mondo; serviva
alle famiglie più benestanti per mandare a scuola i bambini prima dei sei anni.
Poi dopo la terza si faceva un esame – il primo della nostra vita – per entrare
alle “Cumunali”.
“Io non ho mai preso a calci la
mia maestra come Bruno Erminietto.”
L’antefatto mi è ignoto. Quando
comincia il breve dramma la maestra Prospera ha già perso la pazienza; è a
fianco della fila esterna dei banchi, ha afferrato Bruno Erminietto per un
braccio e tira. Lui è aggrappato a un banco, la maestra grida rimproveri,
piovono colpi confusi. Ora il colpevole è staccato dal banco, alla mercé
dell’antagonista adulta.
Viluppo di sottane, strilli.
Bruno Erminietto morsica e scalcia, tirando agli stinchi introvabili tra le
sottane; ecco, ha trovato gli stinchi e sferra ora pedate efficaci, arcando il
corpo.
Fu sopraffatto e trascinato via
strisciando coi piedi sull’ammattonato.
Alla mattina ci si metteva in
fila nel corridoio, aspettando di salire in classe. Faustino faceva l’estroverso,
mostrava l’unghia del mignolo lasciata crescere ad arte, dava spettacolo. Cercai
di fermarlo.
«Quell’unghia lì, s’incarna se
non la tagli,» dissi; «diventa un’Unghia Incarnata.»
«E che cos’è un’Unghia Incarnata?»
Glielo dissi: mi era stato
spiegato accuratamente.
«È un’unghia che diventa lunga
così, mezzo metro, anche più; e ricurva in cima.»
«Benissimo,» disse Faustino. «Così
potrò graffiarti anche da lontano.»
C’erano prima seconda e terza
incastrate a intaglio: la prima in strati paralleli come una costa di mare
davanti alla maestra; le dune e le roccette della seconda sotto le finestre, si
articolavano all’interno in una plica di banchi centrali; in fondo i
contrafforti della terza. Ai piedi della lavagna c’era la strisciolina sabbiosa
della primetta, dove soggiornavano i piccoli non ancora maturi per la prima,
gli “osservatori” che osservavano con aria spaventata.
Mio fratello Bruno, ammesso a
questa spiaggetta sui quattro anni, osservò la prima lezione della maestra
Prospera con inquietudine crescente. La maestra spiegava come s’impugna la
Penna, protendendo Pollice Indice e Medio nell’aria, proprio davanti al naso di
Bruno: l’Indice e il Medio devono essere paralleli, e sotto c’è il Pollice che
quando poi s’introduce la Penna la spinge in su e la ferma. È il modo antico di
impugnare la Penna, l’unico veramente adatto a fare le aste e i filetti come si
deve. Credo che noi allievi della maestra Prospera siamo gli ultimi in paese
che l’hanno imparato.
Le tre dita della maestra
scendendo dall’alto, grosse, tese, forcute, parvero a Bruno una trappola
spaventosa; capì che c’era in aria il progetto di far fare anche a lui la
stessa cosa, col Pollice l’Indice e il Medio, ed ebbe la certezza che non ci
sarebbe mai riuscito. Le tre dita in discesa gli parevano gigantesche, deformi,
e sempre più vicine al suo naso. Si sentì in pericolo immediato e si mise a
gridare: dovettero allontanare tutte le Penne, e dargli delle Mentine.
La maestra Prospera non era una
donna, per noi, ma un fatto della natura, come il campanile, l’Arciprete, la
piazza. Avvertivamo tuttavia, dalla foggia antica dei capelli, dalla pronuncia
forse, che c’era in lei qualche cosa di arcaico. Era infatti una donna all’antica,
che premiava con le mentine di zucchero colorato e puniva con piccoli colpi di
bacchetta sulle nocche delle mani. Qualche volta ci metteva in ginocchio dietro
la “tavola nera” sui chicchi di sorgo; spesso ci mandava in castigo, al
pianterreno. Viveva ritirata, e quando si lasciava la sua scuola la si perdeva quasi
completamente di vista.
Morì dopo la guerra, quando io
ero ancora in paese, e la portammo a seppellire proprio noi alunni della mia
generazione, io Mino Faustino e Guido. Eravamo disorientati e rattristati, e ci
ripetevamo le frasi che scoprimmo di saper tutti a memoria.
“Questa mattina ho aperto le
imposte e ho visto il sole. Poi mi sono lavato la faccia, le orecchie e il
colo. Mi sono vestito e petinato. Dopo aver mangiato il caffelatte io sono
andato a scuola. La mia scuola è posta in via Borgo ed è bella e spaziosa. La mia
maestra si chiama Prospera Moretti.”
«Ma c’è un ma…» Certo che c’era, un ma,
ma non a quello pensava la maestra Prospera quando concludeva il rapportino
alle mamme o ai papà, sempre con la stessa frase. «Sarebbe proprio bravino,
come dico… Ma c’è un ma.» Per lei era
solo un rito: un’allusione al fatto che il bambino – ciascun bambino – era “vivo”.
Il suo ma era impersonale, un
attributo generico dell’infanzia; e i suoi accenni avevano un’aria civettuola
di finta severità.
Invece c’era davvero, un ma, c’era da un pezzo: il ma dell’orto, il ma dell’asilo. Qui a scuola s’era incarnato principalmente in quel
piccolo feticcio che la maestra stessa aveva proposto presentandocelo di
chiamare La Bambolina, e poi nella bionda cugina di Mino, che lui aveva
facoltà, e io no, di uscire dal banco a vezzeggiare quando la maestra era
occupata altrove. C’era il ma; ma
bisogna stare un po’ attenti quando sentono gli adulti che queste cose o non le
capiscono o fanno finta di non capirle.
“Nella mia scuola, che è posta in
via Borgo, chi fa il cattivo viene messo in castigo al pianterreno nel cesso.”
Nascevano complicazioni perché a
volte il castigato, fatto uscire urgentemente, s’impadroniva della chiave e
chiudeva dentro il compagno o la compagna o l’assistente che si chiamava Elsa;
o la stessa maestra Prospera. Questo cesso era anch’esso spazioso, una specie
di sala a mattoni, con un finestrino senza imposta che dava su un cortiletto. Per
me diventava una fonte di sogni tutte le volte che otteneva il permesso di
andarci l’Antonia.
L’Antonia era una florida donna
coi capelli rossi, in età di otto anni. Le mie mire su di lei si concentravano
su immagini suggerite da una parola in uso fra le “grande” di terza, di cui l’Antonia
era la più cospicua. La parola era cesto, ed era la franca, fiorita, donnesca
metafora del sedere.
L’ammattonato del cesso, il
finestrino, l’Antonia, facevano una dolce corona d’immagini, e in mezzo il
cesto dell’Antonia luceva come un ostensorio. Lo sognavo vividamente, ma senza
spasimo, anzi con un sentimento molto vicino al piacere disinteressato che
attribuiscono alla contemplazione estetica. Il cesto pallido e molle dell’Antonia,
che cosa volevo farne? Contemplarlo, forse dal finestrino, soppesarlo benché
sembrasse fluttuare: giocare insomma.
Tutt’altra cosa furono i miei
rapporti con la Giulietta. Era una bambina di passaggio, nipote di uno dei
dottori, venuta a Malo per qualche mese, bruna, moderna, piccante. Era stata
messa con quelli di seconda nel banco davanti al mio; e io, curvandomi e
storcendomi dietro una matita lasciata cadere, cercai di andarle a vedere le
gambe. Vidi una coscia e rimasi come fulminato. Era pallida sopra l’elastico
che fermava la calza nera, aveva riflessi azzurri, carne scompiglia-visceri.
Andavo e tornavo da scuola con
mia cugina Este che era una delle grande, non importante come la Pozzàn, ma
poco meno. La Pozzàan si fermò davanti al caffè Nazionale, e le grande attorno.
Ci mettemmo in cerchio sul marciapiede.
«Allora stiamo arrabbiate con la
Mantiero,» disse la Pozzàan.
«Con la Mantiero,» dicevano le
grande. «Arrabbiate con la Mantiero.» Poi andammo tutti a casa a mangiare. Siccome
io solo tra le grande ero piccolo e maschio, non avevo niente da dire e niente
di speciale da fare, soltanto stare arrabbiato con la Mantiero. Ci misi il
massimo impegno, benché nessuno mi controllasse.
Le grande erano in nove, otto
arrabbiate con la Mantiero, e la Mantiero. In verità non si occupavano molto di
me; io ridevo quando ridevano loro, e quando facevano la faccia seria la facevo
anch’io, anzi un po’ troppo qualche volta. «Che cos’ha quello lì? Gli viene
male?» dicevano a mia cugina Este: non parlavano mai direttamente a me, ma solo
per procura alla Este. Io spianavo in fretta la faccia e loro tornavano a
confabulare. Quando poi avevano qualcosa di veramente segreto, dicevano alla
Este di mandarmi via, e parlottavano tra loro mentre io aspettavo in disparte.
Stetti arrabbiato con la Mantiero
per molti giorni e quando passava da sola sull’altro marciapiede, con la
scialletto nero stretto attorno alle spalle e un’espressione rattristata e
dignitosa sul viso, io in mezzo alle grande sentivo un gradevole senso di
complicità e cercavo l’occhio della Este o della Pozzàn per rassicurarle della
mia intransigenza. Quelle non davano segno di nulla. Un giorno la Mantiero uscì
in mezzo alle altre, e ci avviammo tutti insieme. Provavo un vivo senso di
tensione, tanto più spiccato perché le formidabili grande sapevano nascondere
bene i loro veri sentimenti. Parlavano del più e del meno, e la Mantiero
partecipava alla conversazione e agli scherzi. “Ora la sbranano,” pensavo:
invece in piazza si salutarono e tutte andarono via per conto loro. Appena possibile
chiesi alla Este:
«Este, noi siamo arrabbiati con
la Mantiero, eh?».
La Este mi disse: «Taci, sprotóne
(2), cosa vuoi sapere tu?».
Mi resi conto che ero rimasto io solo
a stare arrabbiato con la Mantiero: le grande avevano tradito la loro stessa
causa con una frivolezza quasi incredibile. E non fu nemmeno l’ultima che mi
fecero le grande. Scendevamo verso la piazza io la Flora e la Este: davanti a
noi sul marciapiede uscì la signora Ramira, rossa di capelli, snella e
presuntuosa. Mie cugine spettegolavano criticando la figuretta che ci precedeva
ancheggiando. «La trà ‘l culo, (3)» bisbigliavano.
Io camminavo in mezzo e volevo
partecipare anch’io alla conversazione, dare un contributo. Ci pensai su e
dissi: «La trà la frìtola (4)». Questo contributo non era basato su un’osservazione
empirica, ma lo stesso mi pareva abbastanza pregevole; invece le mie cugine si
mostrarono scandalizzate e minacciarono di denunziarmi alla zia Nina. Ecco dunque:
si possono fare i pettegolezzi sul culo, ma sulla frìtola no.
Dalla maestra Prospera imparavamo
l’alfabeto e i numeri, e l’uso di certe parole come “spaziosa”, “chicchi”, “imposte”,
e altre finezze della lingua scritta. Una volta trovammo anche “dirupi” che la
maestra fece cercare alla Elsa in un libro molto grosso, nero, in cui disse che
c’erano tutte le parole che ci sono.
Si arrabbiò però quando io, in
seconda, scrissi in un tema a casa che la Pasqua e “una delle maggiori
solennità ecclesiastiche”. Mi disse che io non potevo sapere cosa vuol dire
ecclesiastiche, ma io cercai di bleffare e dissi che lo sapevo.
«E che cosa vuol dire?» domandò
la maestra. Dovetti improvvisare: «Vuol dire le solennità dell’ano (5)». Era una
spiegazione abbastanza ingegnosa, ma fu respinta.
L’effetto delle parole scritte,
quelle della lingua, su di noi che parlavamo dialetto, era assai strano. Mia madre
ebbe un alunno press’a poco della mia età, che si chiamava Mansueto ed era
allegro. Spilungone, asimmetrico e simpatico. Andando a casa dopo una lezione
su non so che fiore “odoroso”, Mansueto s’era fermato sotto il capitello di
contrà Muzana e lanciava in aria una palla di gomma recitando come in una
lauda:
La palla odo
rosa! la palla
odorosa! odo rosa!
Una parola credo di averla
introdotta io a Malo, un pomeriggio. Eravamo in molti nel cortile della nonna,
c’era un mucchio di sabbia e stavamo facendo certe invenzioni capricciose di
castelli e torri, con grande eccitazione e trambusto. A un tratto vidi che la
costruzione accennava a incrinarsi e dissi: «Crolla!». La parola magica sentita
da me chissà dove, sconosciuta a tutti gli altri ma immediatamente capita, si
sparse come una vampata. Tutti borbottavano «crolla, crolla,» affaccendandosi,
mentre la nostra opera si accasciava. La parola nuova era l’evento stesso.
Avevo avuto delle avventure con
le parole fin dal tempo dell’asilo (o come si diceva scola-l’esìlo), dove il mio arrivo era stato amareggiato da un’inattesa
esperienza linguistica e insieme sociale. Fu quando espressi ingenuamente il proposito
di fare pissìn, la sola espressione che conoscevo in materia, e fui deriso a
lungo come una specie di signorina da quei sodi popolari tra i due e i cinque
anni che dicevano soltanto pissare.
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(1) còttole = gonne
(2) sprotóne = “colui [come
scrive Meneghello nelle note] che spròta per usanza. Sprotare è ogni parlare soverchio non gradito all’utente del verbo”.
In altre parole sprotóne si potrebbe tradurre con altezzoso, uno con la puzza
sotto il naso
(3) la trà ‘l culo = getta il
culo di qua e di là, ossia ancheggia
(4) frìtola = letteralmente “frittella”,
ma qui e in Veneto col significato di organo sessuale femminile
(5) ano = forma dialettale per
anno, senza alcun riferimento alla parte del corpo umano quale in lingua
italiana
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