Nel settimo capitolo l’autore si
dedica al ricordo dei primi innamoramenti infantili: innamoramenti sentimentali
che vivevano di sogni ingenui e che solo il ricordo dell’età adulta riesce a
spiegare per ciò che realmente erano, compreso il contesto in cui sbocciavano:
la visita sul sofà di casa, un gioco sul greto del torrente, o la pomposità
delle feste fasciste.
Le bambine a scuola e le donne in
genere le chiamavamo: “le cavre”. In fondo non era un insulto, ma un soprannome
quasi affettuoso, un rustico complimento.
Due di queste capre, in quinta
classe, mi corteggiarono apertamente. Venivano a passeggio davanti a casa,
avvolte negli scialletti, e passando sbirciavano in cortile dove noi giocavamo
al pallone. Per una di loro, bruna e petite,
provai un sentimento nuovo. Avevo visto nel giornale la fotografia d’uno “studente”
che portava in braccio “una bella compagna di studio” durante una festa. Volevo
fare anch’io così con la mia ammiratrice, portarmi via in braccio la capretta
lasciva, e poi vedere un po’.
Il nostro atteggiamento verso le
donne mutava, cominciavamo ad avere piccoli innamoramenti sentimentali: le
còttole della Norma ricadevano compostamente sotto il ginocchio; nascevano nel
bel sereno gli occhi della Marcella.
L’ora della Marcella è il primo
pomeriggio, la sua stagione l’estate colma, e la luce a cui appartiene è quella
abbacinata che vibra sopra i sassi bianchi del torrente: giocavamo sul greto a
fare le roste, io ero l’animatore dei grandi lavori d’ingegneria idraulica con
cui una frotta di maestranze rifaceva la struttura del torrente.
La Marcella cantava “Màila, primo
sogno d’amore”, ed io per caso lavorando a spostar pietre mi trovai vicino a
lei e rialzandomi la guardai negli occhi. Ah, madonna! Questi occhi erano a due
spanne dai miei, e ridevano: erano grandi, damascati, assolutamente
incredibili; tiravano la luce, ridendo, e la luce vi si raccoglieva come in
specchi preziosi. Tiravano anche me, come oggetti magnetici nel cui campo ci si
trovi a trascorrere con la sensazione di perdere vagamente l’equilibrio. (Ho
rivisto poi questa lucentezza inverosimile e sentito lo stesso effetto
calamitato guardando l’immagine dei pianeti più splendidi che con gli specchi
del telescopio si tirano giù dal cielo nelle notti serene.)
La Marcella aveva smesso di
cantare e ci guardammo. Io avevo una grossa pietra tra le mani, lei aveva una
margherita e seguitava lentamente a sfogliarla. Poi si allontanò sorridendo e
riprese a cantare; io misi giù la pietra al suo posto, per fare la diga.
Quando Bruno Erminietto amava l’Adriana,
l’amata veniva qualche volta in visita a casa sua coi genitori. La mettevano a
sedere sul sofà, bionda e vaporosa come una bambola; e Bruno Erminietto montava
al suo fianco sul sofà e faceva peraro.
Si fa peraro mettendosi con la
testa in giù e le gambe per aria; così capovolto e tutto rosso in viso Bruno
Erminietto corteggiava il suo amore in figura dell’albero delle pere.
L’Adriana, come la Marcella, l’amavamo
tutti, chi in segreto, chi con furiosi rossori e selvatiche dimostrazioni
esterne di ostilità. Ma nessuna donna credo fu mai tanto amata in paese, e da
tanti, e così fulmineamente come la pallida Sidonia.
Io avevo allora una squadretta di
calcio di cui ero padrone e capitano perché il pallone era mio. Il sabato
arrivò in paese la Sidonia, la domenica tornando da messa ultima mio zio Dino
mi domandò con chi giocavamo quel giorno. Dissi che avevo sospeso la partita perché
avevo mezza squadra innamorata. «E della stessa donna», aggiunsi gravemente.
«Eh, ostia,» disse Dino. «E chi
sarebbe questa vampira?»
Glielo dissi, che era una da
Vicenza, arrivata appena, e Dino capì ed ebbe la finezza di non domandarmi
altro.
Amai la Sidonia com’era giusto
amarla: subito e senza condizioni, come cosa venuta da Vicenza a Malo a
mostrare com’è un miracolo. Altri la corteggiavano più volgarmente. Savaio rubava
il posto al suo fianco camminando sul marciapiede e canterellava:
Sidonia
Voglio andare con te
in Patagonia.
Questi insoffribili estroversi:
in Patagonia! Savaio una ne cantava e una ne pensava. Eccolo che riattacca:
L’italiano non ci
stette a pensar su
se la prese per la
mano
la condusse via
lontano
sotto un albero
laggiù.
E poi cosa farebbe l’italiano? Io
dico che dovrebbe mettersi a sedere su una pietra (ce ne devono essere laggiù) perché
le gambe non lo tengono in piedi, e cercar di sopportare il fluido luminoso che
esce dal viso di questa donna, restando seduto.
La Sidonia era venuta a stare un
po’ in paese da sua zia, e partecipò con noi ad alcune cerimonie vestita da
Piccola Italiana. Stava bene, in divisa; pareva ancora più raffinata, con quei
capelli castani e lisci, raccolti nella calzetta di seta nera che le piccole
italiane s’infilavano in testa.
Eravamo nella sala dell’Albergo
Roma, noi balilla per così, e le piccole italiane per così, ad angolo retto. La
Sidonia era in seconda fila. Doveva essere al principio di gennaio, perché ci
facevano provare in coro un inno alla Befana Fascista: i primi giorni dell’anno,
tempo eminentemente poetico e amoroso, nell’aria irreale delle feste, e nel
curioso nitore che dànno ai sentimenti il freddo e il sole d’inverno e le molte
confessioni e comunioni.
La Befana Fascista nel sole
ha una luce di fede e d’amor.
Devo dire che questa Befana in
uniforme di Donna fascista, col visaccio alzato al cielo, cercando di sorridere
e trasfigurarsi, mi procurava un leggero senso di nausea; ma anche questo
favoriva il mio vago sdilinquimento d’amore. Le parole attive ricacciavano indietro
il resto: vinceva il sole, il sole
astratto di gennaio, e la luce, le lampadine
dell’Albergo Roma soverchiate dal viso splendente.
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