Nel quarto capitolo di “Libera
nos a malo” risultano più chiari i motivi per cui Meneghello ha scritto questo
romanzo: non semplicemente per ricordare il passato, ma per investirlo di un
significato adulto, tale da far emergere le contraddizioni tra ciò che è e ciò
che appare. Le intenzioni dell’autore investono contemporaneamente le relazioni
tra mondo infantile e mondo adulto, e tra dialetto e lingua italiana, con esiti
esilaranti, come quel Perbenito Mosulini (tale appariva ai bambini l’invito a
inneggiare “per Benito Mussolini”), o la storia di Giuliano che arrotava con l’organo
genitale.
Al Solario si era “tutti compagni”
(1) ancor più che altrove. Lo sentii dire anche a una delle donne che alla sera
rivestivano i più piccoli: «Vedi? appena li vesti alla sera tornano signori e
povaretti, ma di giorno sono tutti compagni».
Bisognava arrangiarsi, al
Solario; era una piccola giungla verde popolata di energumeni come quello
soprannominato Pessàta; questa era la nominaglia di casa sua, e non bisognava
assolutamente usarla in sua presenza. Durante una partita lo accusai di
mentire; dissi “busiàro” (2) e lui mi afferrò con la sinistra e a piccole
fragnòccole di destra mi fece ritrattare. Dovetti dichiarare formalmente che
non diceva bugie; mi allontanai alquanto e aggiunsi con ingannevole soavità: «Però
dici pessàte». Le pessate sono pesciolini piccoli nel torrente; ma qui al
Solario suonavano come bugie molto grosse. Avevo sufficiente vantaggio per
riparare tra le Assistenti prima che mi prendesse, altrimenti non sarei qui a
raccontarla.
C’era al Solario un signore che
non vedemmo mai di persona, ma la sua presenza riempiva l’aria ogni pomeriggio;
era nobile e milanese, e aveva abitudini scandalose.
Ci si metteva in fila indiana
dopo la merenda, s’impugnavano gli orli delle mutandine tirandoli su per la
coscia, per di dietro, fino a scoprire il più possibile del culetto, e si
partiva in processione recitando:
El Conte da Milàn
co le braghe in man
col capèl de paja
Conte canàja!
A questo punto dopo un silenzio
carico di furbizia la colonna si metteva a scandire con forza, come denunziando
e sbeffeggiando:
Prete mas’cio! –
Prete mas’cio!
Forse un parente del Conte? Forse
il Conte stesso travestito da Prete, o il Prete truccato invano da Conte, per
ricoprire di eleganza fittizia il desiderio di mostrare il sedere? Chi lo sa;
quel che è sicuro è che anche tra la nobiltà e nel clero ci sono le canaglie,
ed è un piacere smascherarle.
Le cose andavano così: c’era il
mondo della lingua, delle convenzioni, degli Arditi, delle Creole, di Perbenito
Mosulini, dei Vibralani; e c’era il mondo del dialetto, quello della realtà
pratica, dei bisogni fisiologici, delle cose grossolane. Nel primo sventolavano
le bandiere, e la Ramona brillava come il sole d’or: era una specie di pageant (3), creduta e non creduta. L’altro
mondo era certo, e bastava contrapporli questi due mondi, perché scoppiasse il
riso. Ridevamo recitando con le donne di servizio:
Bianco rosso e verde
color delle tre merde
color dei panezèi (4)
la caca dei putèi.
Questa però non era sentita come
critica alla Bandiera della Patria: che c’entra? La bandiera si esponeva sul poggiuolo
della zia Lena, e si descriveva nei Pensierini a scuola; le tre merde erano
allineate in orto sotto la mura del Conte, lucide come di vernice, sorvolate
dai mosconi; sopraggiungeva la Colomba e ci stendeva sopra il pannolino umido
che soffocava i colori in una tabe giallastra.
Bianco rosso e verde era soltanto
una frase in lingua; il resto era il suo counterpart
(5) in dialetto. C’era però un contenuto polemico in tutto questo: si sentiva
che il dialetto dà accesso immediato e quasi automatico a una sfera della
realtà che per qualche motivo gli adulti volevano mettere in parentesi. Si sentiva
anche che in questo gli adulti facevano la commedia, e si ammirava il modello
(purtroppo inimitabile) del piccolo anonimo popolano che aveva radicalizzato la
protesta fino a investire i rapporti fondamentali dell’uomo, Famiglia e
Religione.
Aveva subìto fremendo certe
imposizioni dei genitori: poi l’intervento gratuito dell’autorità ecclesiastica
lo esasperava del tutto. Di questa esperienza ci ha lasciato lui stesso un
conciso documento.
Me pare me mare
me manda cagare
el prete me vede
mi taco scoréde. (6)
Era evidentemente molto
arrabbiato: ma è impensabile che a questo precorritore della gioventù bruciata,
nell’atto di manifestare il suo sentimento, non venisse anche un po’ da ridere.
Si avvertiva che c’erano rapporti
equivoci, oscuramente disonorevoli, tra gli adulti, le convenzioni della vita
per bene, e la lingua. Questa loro commedia faceva perdere la pazienza.
Se il crocchio dei parenti ci
prende in mezzo, e vuole a patti e modi che si dica qualcosa (qualcosa di
bello, in italiano) alla Signora Lea, una dama di molto riguardo incontrata per
strada: supposto che non si abbia voglia di dire nulla alla Signora Lea, e quei
noiosi insistano, come si deve comportarsi per non perdere quel po’ di rispetto
di sé?
«Cacapétolescorése,» disse
rapidamente Bruno Erminietto alla Signora Lea, e fuggì a schinche (7).
In generale i difetti degli
adulti si sentivano nell’aria. Ridevamo tra noi, avendo saputo che Giuliano era
stato messo in prigione perché guzzava (8). C’era tuttavia un margine di dubbio
dato che Giuliano faceva l’arrotino, che guzzare è il suo mestiere, e allora
come mai l’avevano messo in prigione?
M’ingegnai con altre informazioni
frammentarie di comporre una teoria che alla prima occasione esposi.
«Io lo so perché è in prigione
Giuliano, è in prigione perché guzzava,» dissi a un gruppo di adulti. Osservai i
segni del loro imbarazzo, poi aggiunsi casualmente: «Guzzava col ciccio».
Il risultato fu spettacoloso. Credevano
di fare i furbi, di farmi passare per stupido, di nascondere a me che uno della
lega, un ridicolo adulto per bene, aveva commesso la comica stramberia,
palesemente illegale, di arrotare sulla sua mola non i coltelli e le forbici,
ma il ciccio!
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(1) compagni = uguali
(2) busiàro = bugiardo
(3) pageant = spettacolo,
messinscena
(4) panezèi = i pannolini dei
neonati
(5) counterpart = controparte
(6) Mio padre mia madre / mi
mandano a cacare / il prete mi vede / io inizio a scoreggiare
(7) schinche = rapidi spostamenti
zigzaganti
(8) guzzava = arrotava
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