lunedì 27 novembre 2017

136 Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde – capitolo 10 (di Robert Louis Stevenson)



Il capitolo finale del romanzo di Stevenson spiega, attraverso un resoconto completo del dottor Jekyll, l’intera vicenda: le ragioni degli esperimenti del dottore, i suoi dilemmi morali derivanti dalla scoperta della propria doppia personalità, l’euforia provata nelle sembianze del signor Hyde, la decisione di suicidarsi.
Sul “Times” del 25 gennaio 1886 apparve una recensione anonima del romanzo di Stevenson, che riporto perché è molto interessante (l’ho trovata nell’edizione tradotta da Fruttero e Lucentini e pubblicata da Einaudi):
«L’originalissimo e versatile genio di Stevenson non s’è mai manifestato meglio che in questo breve romanzo da uno scellino […] Ogni intenditore che l’abbia letto una volta, non potrà mancare di rileggerlo una seconda. La prima volta infatti lo leggiamo passando di sorpresa in sorpresa, con una curiosità sempre più inquieta inquantoché, per quanti sforzi facciamo, non riusciamo a immaginare come di tanti misteri possa darsi una spiegazione comunque plausibile o intelligibile. Tuttavia la serietà del tono ci assicura che alla fine questa spiegazione ci sarà, per cui nella nostra impazienza ci affrettiamo verso la conclusione, dove effettivamente ogni cosa si spiega, e si spiega su basi addirittura scientifiche, anche se si una problematica scienza futura. Ed è a questo punto, usciti dalle nostre ansie, che cominciamo a riflettere sul sistematico rigore con cui l’autore ha sviluppato il suo intreccio. Neanche per un istante e neanche nelle situazioni più incredibili, Stevenson ha perso il controllo dei fatti-base del suo intreccio. Ogni particolare in apparenza più inverosimile o più insignificante, è stato subordinato dallo scrittore al proprio scopo. […] Né è il solo intreccio, per straordinario che sia, a intrigarci e affascinarci. Ben noto per la maestria del suo stile, Stevenson, tuttavia, non aveva mai ancora raggiunto risultati così alti. Con ciò non vogliamo dire che il libro sia scritto in un inglese eccellente, il che va da sé, ma che l’autore ha pesato le sue parole e girato le sue frasi in modo tale, da sostenere ed eccitare il senso di mistero e di orrore da un capo all’altro della narrazione.»

RELAZIONE COMPLETA DI HENRY JEKYLL SUL PROPRIO CASO
Sono nato nell'anno 18…, erede di un grosso patrimonio, dotato di ottime capacità, incline per natura alla laboriosità, desideroso del rispetto dei buoni e dei saggi, e perciò, come era facile supporre, con tutte le garanzie possibili di un futuro di onori e di fama. E davvero il mio peggior difetto era una certa impaziente vivacità di temperamento, che può aver fatto la felicità di molti, ma che trovavo difficile conciliare col desiderio irresistibile di andare a testa alta e di tenere un comportamento estremamente austero di fronte alla gente. Di qui ebbe origine l'abitudine a celare i miei piaceri, cosicché, quando raggiunsi l'età della riflessione e cominciai a guardarmi intorno per rendermi conto dei progressi fatti e della mia posizione nel mondo, mi trovai già coinvolto in una radicata doppiezza di vita. Molti si sarebbero persino vantati di quelle intemperanze di cui io mi sentivo colpevole, ma, dati gli alti fini che mi ero proposto, le tenevo celate con un senso di vergogna quasi morboso. Fu quindi la natura esigente delle mie aspirazioni, piuttosto che il carattere abbietto delle mie mancanze, a fare di me quello che divenni e a separare in me, con un solco più profondo di quanto avvenga nella maggioranza delle persone, quelle sfere del bene e del male che compongono e insieme dividono la doppia natura dell'uomo.
Proprio per questo ero indotto a meditare profondamente e ostinatamente su quella dura legge della vita che sta alla base della religione e che costituisce una delle più frequenti sorgenti di dolore. Per quanto doppia fosse la mia natura, non ero assolutamente un ipocrita; i due aspetti della mia personalità erano entrambi in buona fede; e io ero me stesso sia quando abbandonavo ogni ritegno e sprofondavo nella vergogna, sia quando, alla luce del giorno, mi adoperavo per promuovere il sapere o per portare conforto al dolore e alla sofferenza. Accadde che l'orientamento dei miei studi scientifici, interamente rivolti al mistico e al trascendentale, ne fosse coinvolto e finisse per gettare una luce più intensa sulla consapevolezza di una perenne lotta fra le due componenti. Giorno dopo giorno, con l'aiuto delle due entità del mio spirito, quella morale e quella intellettuale, mi andai sempre più avvicinando a quella verità la cui parziale scoperta mi ha condannato a questa rovina totale, e cioè che l'uomo non è unico, ma duplice. Dico duplice perché il livello delle mie conoscenze non va al di là di ciò. Altri seguiranno, altri mi supereranno sulla stessa via; io mi limito a pronosticare che un giorno l'uomo sarà conosciuto come un insieme di multiformi, incongrue e indipendenti componenti. Da parte mia, dato questo tipo di esistenza, ho progredito costantemente in un'unica direzione. Ed è stato nel campo della morale e nella mia stessa persona che ho imparato a riconoscere il dualismo intrinseco e primordiale dell'uomo. Mi sono reso conto che, se potevo legittimamente identificarmi sia con l'uno che con l'altro dei due esseri che lottavano nel campo della mia coscienza, ciò era dovuto al fatto che ero fondamentalmente entrambi. Da molto tempo, prima ancora che il corso delle mie scoperte scientifiche avesse cominciato a farmi intravvedere la possibilità di un tale miracolo, carezzavo l'idea della separazione di questi elementi come un sogno a occhi aperti. Pensavo che se ciascuno di essi avesse potuto essere collocato in un'entità separata, allora la vita si sarebbe alleggerita di tutto ciò che è insopportabile: l'ingiusto avrebbe potuto seguire la propria strada libero dai rimorsi e dalle aspirazioni del suo più virtuoso gemello; e il giusto avrebbe potuto procedere tranquillo e sicuro nel cammino verso il bene, compiendo le buone azioni in cui trovava conforto, senza essere più esposto alle infamie e ai castighi di un compagno malvagio a lui del tutto estraneo. Era la maledizione del genere umano che questi incongrui elementi fossero così strettamente avviluppati... che nel grembo tormentato della coscienza questi gemelli antitetici dovessero perennemente lottare. Che fare, allora, per separarli?
Ero arrivato a questo punto nelle mie riflessioni quando, come ho detto, esperimenti di laboratorio cominciarono a gettare un po' di luce sulla questione. Cominciai a percepire, con una profondità mai raggiunta prima, la tremula immaterialità, l'indistinta transitorietà di questo corpo, all'apparenza così solido, che ci portiamo dietro. Scoprii che alcuni agenti chimici avevano il potere di squassare e sradicare questo involucro di carne, allo stesso modo in cui il vento spazza le tende di un padiglione. Non mi addentrerò nell'aspetto scientifico del mio racconto per due buone ragioni. Innanzi tutto perché ho imparato a mie spese che il destino e il fardello della nostra vita sono destinati a pesare eternamente sulle spalle di ognuno di noi e che, quando cerchiamo di sbarazzarcene, essi ci ripiombano addosso più pesanti e più estranei di prima. Poi perché le mie scoperte erano incomplete, come risulterà evidente, ahimè, da questa mia confessione. Sarà sufficiente dire che non solo arrivai a considerare il mio corpo fisico come mera irradiazione ed emanazione di alcuni dei poteri che formavano il mio spirito, ma che riuscii a produrre una droga capace di togliere a questi poteri la loro egemonia, e di sostituirli con altri a cui si accompagnavano una forma diversa e un nuovo sembiante, per me altrettanto naturali perché erano l'espressione e portavano il segno degli elementi più bassi della mia anima.
Esitai a lungo prima di sottoporre questa teoria alla sperimentazione pratica. Sapevo bene di rischiare la vita, poiché una droga così potente da tenere sotto controllo e al tempo stesso capace di scardinare l'identità personale, avrebbe potuto, per un minimo errore di dosaggio o per una scelta di tempi di somministrazione inopportuna, distruggere quel tabernacolo immateriale che invece avrebbe dovuto trasformare. Ma alla fine la tentazione di fare una scoperta straordinaria e fondamentale ebbe la meglio sugli scrupoli della prudenza. Avevo preparato da tempo il liquido; comprai da una ditta di prodotti farmaceutici un grosso quantitativo di un certo sale che sapevo essere, in base agli esperimenti fatti, l'ultimo ingrediente necessario. E una maledetta sera, a tarda ora, mescolai gli elementi, li osservai ribollire ed emettere fumo nel bicchiere e, quando l'ebollizione ebbe termine, trangugiai la pozione in un impeto di coraggio.
Sopravvennero gli spasimi più atroci: un arrotarsi delle ossa, una nausea mortale, un orrore dello spirito che nemmeno il momento della nascita o della morte può superare. Poi queste sofferenze cominciarono rapidamente a diminuire e ritornai in me, come accade dopo una malattia molto grave. Nelle mie sensazioni c'era qualcosa di strano, qualcosa di indescrivibilmente nuovo, e, proprio perché nuovo, di infinitamente dolce. Mi sentivo più giovane, più leggero e più felice nel corpo; dentro di me avvertivo un'irrequietezza impetuosa, un fluire disordinato di immagini sensuali che mi percorrevano l'immaginazione come la corrente attraverso le ruote di un mulino, un disciogliersi di ogni legamento e costrizione, una libertà dello spirito sconosciuta ma non per questo innocente. Fin dal primo respiro di questa nuova esistenza mi resi conto di essere più malvagio, dieci volte più malvagio, di essere lo schiavo del mio male originario. In quel momento questo pensiero mi inebriò e mi deliziò come una coppa di vino. Stesi le braccia esultando alla novità di queste sensazioni, e nel compiere il gesto mi resi improvvisamente conto che ero diminuito di statura.
All'epoca non c'era uno specchio nel mio studio; quello che ora ho di fronte mentre scrivo fu portato in un periodo successivo e proprio in funzione di queste trasformazioni. Nel frattempo la notte stava lasciando il passo al mattino, un mattino che, per quanto ancora scuro, era quasi maturo per concepire il giorno; gli abitanti della mia casa erano chiusi nelle loro stanze immersi in un sonno profondo, e io decisi, nell'eccitazione del trionfo e della speranza, di avventurarmi fino alla mia camera da letto nel mio nuovo sembiante. Attraversai il cortile, dove le costellazioni, così mi venne di immaginare, guardarono con meraviglia quell'essere appartenente a nuova specie che mai avevano visto nelle loro veglie insonni. Scivolai furtivo lungo i corridoi, estraneo in casa mia, e, arrivato in camera, vidi per la prima volta le sembianze di Edward Hyde.
A questo punto posso parlare solo in linea teorica, e raccontare non quel che so, ma quello che ritengo essere più probabile. Il lato malvagio della mia natura, al quale avevo ora trasferito il potere di dare la propria impronta, era meno sviluppato e meno forte di quello buono che avevo appena lasciato. Inoltre, nel corso della mia esistenza, che tutto sommato era stata per nove decimi una vita di rinunce, di virtù e di autocontrollo, esso era stato meno utilizzato e meno sfruttato. Ecco il motivo per cui, suppongo, Hyde era molto più piccolo, sottile e giovane di Henry Jekyll. E come il bene irradiava dal volto dell'uno, il male era stampato a chiare lettere sulla faccia dell'altro. Il male inoltre (che tuttora considero la parte mortale dell'uomo) aveva lasciato in quel corpo un'impronta di deformità e di decadimento. E tuttavia quando posai lo sguardo su quell'idolo ripugnante riflesso nello specchio, non provai alcuna repulsione ma piuttosto una sensazione di gioia.
Anch'egli era parte di me. Sembrava naturale e umano. Ai miei occhi aveva uno spirito più vivace, appariva più immediato e più determinato di quell'altro essere, imperfetto e diviso, che ero abituato a chiamare me stesso. E fin qui avevo perfettamente ragione. Ho notato che quando assumevo le sembianze di Edward Hyde, nessuno poteva avvicinarmi senza provare un turbamento istintivo ed evidente. Ritengo che ciò fosse dovuto al fatto che tutti gli esseri umani che incontriamo sono una mescolanza di bene e di male: solo Hyde, in tutto il genere umano, era puro male. Indugiai soltanto per un momento allo specchio; dovevo ancora portare a termine la seconda e conclusiva parte dell'esperimento. Rimaneva da verificare se avevo perduto definitivamente la mia personalità e se quindi dovevo fuggire, prima dell'alba, da una casa che non era più mia. Ritornai di corsa nel mio studio dove preparai e bevvi la pozione, provando di nuovo gli spasmi della morte, e quando rinvenni avevo di nuovo la statura, il volto e il carattere di Henry Jekyll.
Quella notte ero arrivato al bivio fatale. Se mi fossi avvicinato a questa scoperta con una propensione d'animo più nobile, se avessi tentato l'esperimento sotto l'influenza di generose e pie aspirazioni, tutto sarebbe stato diverso, e dalle sofferenze della nascita e della morte sarei rinato angelo anziché demonio. La droga non faceva discriminazioni, non era né diabolica né divina; si limitava a scardinare le porte che imprigionavano le mie inclinazioni, e come era accaduto ai prigionieri a Filippi (1), fuggivano solo quelli che vi erano rinchiusi. A quell'epoca la mia virtù sonnecchiava, mentre il male, tenuto desto dall'ambizione, stava all'erta, pronto a cogliere l'occasione favorevole; e ciò che ne emerse fu Edward Hyde. Pertanto ora possedevo due caratteri e due volti: uno era totalmente malvagio, e l'altro era il solito vecchio Henry Jekyll, quell'incongruo miscuglio che ormai non speravo più di modificare e migliorare. La tendenza era perciò verso il peggio da ogni punto di vista.
A quel tempo non ero ancora riuscito a superare la mia avversione totale per un'arida esistenza di studio. Mi sentivo tuttora incline a godermi la vita, e poiché i piaceri a cui mi abbandonavo erano, per non dire di più, sconvenienti, mentre la gente mi teneva in grande rispetto e considerazione, questa incoerenza nel modo di vivere mi divenne sempre più odiosa soprattutto con l'avvicinarsi degli anni della maturità. E fu sotto questo aspetto che il nuovo potere che avevo acquisito mi tentò fino a ridurmi suo schiavo. Bastava che bevessi la pozione per liberarmi del corpo del famoso professore e assumere al suo posto, come un pesante cappotto, quello di Edward Hyde. L'idea mi faceva sorridere e allora mi sembrava quasi spiritosa. Feci i preparativi con la massima attenzione. Acquistai ed arredai la casa di Soho dove sarebbe poi arrivata la polizia alla ricerca di Hyde, e assunsi come governante una donna che sapevo riservata e priva di scrupoli. Al tempo stesso avvisai i miei domestici che un certo signor Hyde (di cui diedi loro la descrizione) avrebbe goduto della massima libertà e autorità nella casa che dava sulla piazza. E, per evitare equivoci, mi feci persino vedere nella mia seconda personalità fino a diventare una figura familiare ai loro occhi. Poi stesi quel testamento a cui tu facesti tante obiezioni, di modo che, se mi fosse accaduto qualcosa sotto le spoglie del dottor Jekyll, avrei potuto assumere quelle di Edward Hyde senza rimetterci economicamente. Prese queste garanzie, cominciai a trarre profitto dalle strane immunità che la mia posizione mi consentiva.
Un tempo si assoldavano sicari per compiere delitti, mentre i mandanti tenevano al riparo la loro persona e la loro reputazione. Io sono stato il primo a fare una cosa analoga esclusivamente per il proprio piacere. Sono stato il primo a potermi mostrare in pubblico nel pieno della mia rispettabilità cordiale e un momento dopo, come uno scolaretto, a strappare di dosso questi prestiti appiccicaticci per tuffarmi a capofitto nel mare della libertà. Solo per me, avvolto nel mio mantello impenetrabile, c'era incolumità totale. Non esistevo neanche!... Era sufficiente che infilassi la porta del laboratorio, mescolassi e trangugiassi in un paio di secondi quel liquido che tenevo sempre pronto, e, qualunque cosa avesse fatto, Edward Hyde si dileguava come la traccia dell'alito su uno specchio. E al suo posto, nella quiete della sua casa, intento a regolare la lampada notturna dello studio, al di sopra di qualsiasi sospetto, ci sarebbe stato Henry Jekyll.
I piaceri che mi affrettai a ricercare nel mio travestimento erano, come ho detto, sconvenienti, ma niente più di questo. Tuttavia, nelle mani di Edward Hyde, essi ben presto cominciarono a divenire mostruosi. Quando tornavo dalle mie scorribande, rimanevo a lungo come stupefatto di fronte alla depravazione dell'altro me stesso. Questo essere familiare che evocavo dal profondo dell'anima e mandavo in giro a soddisfare i suoi desideri era malvagio e crudele per natura; ogni suo atto e pensiero erano incentrati su se stesso; traeva piacere con un'avidità animalesca da ogni forma di sofferenza altrui ed era implacabile come un uomo di marmo. Talvolta Henry Jekyll rimaneva inorridito di fronte alle azioni di Edward Hyde, ma la situazione sfuggiva alle leggi ordinarie consentendo un pericoloso allentamento della coscienza. Dopo tutto, Hyde e solo Hyde era il colpevole. Jekyll non era peggiore di prima; al risveglio ritrovava le sue buone qualità apparentemente immutate, e talvolta, quando era possibile, si affrettava persino a rimediare al male compiuto da Hyde. In tal modo la sua coscienza si assopiva.
Non ho intenzione di elencare dettagliatamente le infamie di cui fui connivente (ancor oggi ho difficoltà ad ammettere di averle commesse). Voglio solo indicare gli avvertimenti e le tappe successive attraverso cui il castigo si andava avvicinando. Un gesto crudele nei confronti di una bambina suscitò l'indignazione di un passante che l'altro giorno riconobbi essere tuo parente; a lui si unirono un dottore e la famiglia della bambina. Ci fu un momento in cui temetti per la mia vita. Alla fine, per sedare il loro giusto sdegno, Edward Hyde dovette portarli fino alla porta del laboratorio e risarcirli con un assegno a firma di Henry Jekyll. Successivamente eliminai questo pericolo aprendo un conto corrente intestato a Edward Hyde presso un'altra banca. Quando poi, inclinando un po' la mia calligrafia, riuscii ad attribuire al mio doppio una firma tutta sua, ritenni di non dover temere più nulla da parte del fato.
Circa due mesi prima dell'assassinio di Sir Danvers, dopo una delle mie solite scorribande, ritornai a casa a tarda ora e il mattino seguente mi risvegliai nel mio letto con delle strane sensazioni. Per quanto mi guardassi intorno e riconoscessi i bei mobili e le alte pareti della camera che dava sulla piazza, per quanto il disegno delle cortine del letto e il profilo dell'intelaiatura di mogano fossero quelli che conoscevo, qualcosa mi diceva insistentemente che non ero là dove credevo di essere, che non mi ero svegliato dove pensavo, bensì nella stanzetta di Soho dove avevo l'abitudine di dormire nella persona di Edward Hyde.
Sorrisi di tali sensazioni, e, pigramente, cominciai, seguendo l'onda dei pensieri, ad analizzare gli elementi che avevano creato quest'illusione, scivolando di tanto in tanto in un piacevole dormiveglia mattutino. Ero ancora così assorto quando, in un momento di maggiore lucidità, lo sguardo mi cadde sulla mano. Ora, la mano di Henry Jekyll (come tu hai spesso avuto modo di notare) aveva un qualcosa di professionale per forma e dimensioni: era grande, ferma, bianca e bella. Ma la mano che vedevo abbandonata e semichiusa sulle coperte, nella luce giallastra di un mattino londinese, era visibilmente scarna, tutta tendini e nocche, pallida e scura, ombreggiata da una bruna peluria. Era la mano di Edward Hyde.
Devo essere rimasto a fissarla per quasi mezzo minuto, completamente sopraffatto da un attonito stupore, prima che mi prendesse un terrore improvviso e sconvolgente come uno scoppio di cimbali. Saltai giù dal letto e mi precipitai allo specchio. Ciò che vi vidi riflesso mi gelò il sangue. Sì, ero andato a letto Henry Jekyll e mi ero svegliato Edward Hyde. Come si poteva spiegare tutto ciò? Questa fu la domanda che mi posi, seguita da un'altra che mi fece balzare il cuore in petto: come potevo porvi rimedio? Era mattino avanzato; i domestici erano alzati; tutti i farmaci erano nel laboratorio... un tragitto molto lungo dal punto in cui ora mi trovavo: giù per due rampe di scale, poi il corridoio sul retro, attraverso il cortile fino all'aula di anatomia. Mi sentivo inorridire al solo pensiero. Avrei potuto forse coprirmi la faccia, ma a che sarebbe valso se non potevo dissimulare il cambiamento di statura? Poi mi venne in mente, con enorme sollievo, che i domestici erano ormai abituati all'andirivieni dell'altro me stesso. Infilai in fretta, come meglio potevo, gli abiti che erano della mia taglia e attraversai la casa dove fui notato da Bradshaw, il quale rimase sbalordito nel vedere il signor Hyde a quell'ora e conciato in quel modo. Dieci minuti più tardi il dottor Jekyll aveva recuperato le sue fattezze e si sedeva a tavola con aria accigliata fingendo di far colazione.
In realtà non avevo affatto appetito. Quell'incidente incomprensibile, quel rovesciamento totale delle mie precedenti esperienze sembravano tracciare le lettere della mia condanna come il biblico dito sulla parete di Babilonia (2). Perciò cominciai a riflettere, più seriamente di quanto in precedenza avessi fatto, sulle possibilità e sulle conseguenze della mia doppia esistenza. Quella parte di me che ero riuscito a materializzare si era esercitata e irrobustita negli ultimi tempi: mi sembrava che il corpo di Hyde fosse aumentato di statura; quando assumevo le sue fattezze il sangue fluiva più generoso nelle vene. Cominciai a intravvedere il pericolo per cui, se la cosa si fosse prolungata, l'equilibrio della mia natura avrebbe potuto saltare, il potere di libera scelta sarebbe andato perduto, e il carattere di Edward Hyde sarebbe diventato definitivamente il mio. L'effetto della droga non era stato sempre costante. Una volta, all'inizio, non aveva dato alcun risultato, e dopo di allora, in più di un'occasione, ero stato costretto a raddoppiare la dose, e in un caso anche a triplicarla, con alto rischio di morte. Queste incertezze, per altro rare, avevano gettato un'ombra sulla mia contentezza. Ora però, alla luce di quanto era accaduto quel mattino, dovevo constatare che, mentre all'inizio la difficoltà principale era stata di liberarsi del corpo di Jekyll, negli ultimi tempi, in modo graduale ma netto, si era andato verificando il fenomeno opposto. Tutto infatti sembrava indicare che stavo lentamente perdendo la mia identità originaria e migliore e mi stavo incorporando gradualmente nella seconda e peggiore natura.
Sentivo che dovevo scegliere. Le mie due nature avevano in comune la memoria, ma tutte le altre facoltà erano ripartite fra di loro in maniera diseguale. Jekyll (che era un misto delle due) concepiva e condivideva i piaceri e le avventure di Hyde ora con ansia timorosa, ora con bramoso entusiasmo; Hyde, invece, era del tutto indifferente nei confronti di Jekyll, o, tutt'al più, si ricordava di lui come il bandito di montagna ricorda la caverna in cui va a nascondersi quando è inseguito. Jekyll aveva la sollecitudine di un padre, Hyde l'indifferenza di un figlio. Scegliere Jekyll significava reprimere quegli appetiti alla cui soddisfazione mi ero segretamente abbandonato e nei quali avevo cominciato a indulgere troppo. Scegliere Hyde voleva dire por fine a innumerevoli interessi e aspirazioni e diventare, all'istante e per sempre, un essere disprezzato e solitario. La scelta poteva apparire semplice, ma occorreva mettere sulla bilancia un'altra considerazione, e cioè che Jekyll avrebbe sofferto cocentemente di questa astinenza imposta, mentre Hyde non si sarebbe neanche reso conto di quanto avrebbe perduto. Per quanto strane fossero le circostanze, i termini della controversia sono antichi quanto la storia dell'uomo. Gli stessi timori e le stesse lusinghe inducono il peccatore, tremante e, insieme, attratto, a giocare la propria sorte; e, come succede alla maggior parte dei miei simili, finii anch'io per scegliere la parte migliore di me, ma non ebbi la forza sufficiente per mantenere questa scelta.
Sì, la mia preferenza andò all'anziano dottore, che coltivava oneste speranze e numerose amicizie, e diedi per sempre un addio alla libertà, alla relativa giovinezza, al passo leggero, agli impulsi improvvisi e ai piaceri segreti di cui avevo goduto sotto le sembianze di Hyde. Forse avevo preso questa decisione con qualche inconscia riserva, poiché né vendetti la casa di Soho né distrussi gli abiti di Hyde che sono ancor oggi appesi nello studio. Per due mesi, comunque, tenni fede al proposito; per due mesi condussi una vita estremamente austera quale mai avevo avuto, e assaporai le soddisfazioni che una coscienza tranquilla può dare. Ma il tempo cominciò ad affievolire i miei timori più vivi, l'approvazione della coscienza divenne cosa scontata, desideri e angosce struggenti presero a tormentarmi come se Hyde stesse lottando per liberarsi, e in un momento di debolezza morale, ancora una volta mescolai e trangugiai la pozione che mi trasformava.
Non credo che quando un ubriacone ragiona con se stesso sul suo vizio sia minimamente impressionato dai rischi cui va incontro per la sua bestiale insensibilità; così anch'io, per quanto esaminassi la situazione, non tenevo in sufficiente conto la totale insensibilità morale e la facilità a commettere crimini che erano i tratti essenziali di Edward Hyde. Eppure fu proprio così che fui punito. Il mio demone, che era stato imprigionato troppo a lungo, balzò fuori mugghiando. Già mentre bevevo la pozione ebbi la consapevolezza di una propensione verso il male più sfrenata e selvaggia. Deve essere stato questo, suppongo, a scatenare nel mio animo l'impazienza violenta con cui ascoltai le parole cortesi della mia infelice vittima. Voglio almeno dichiarare di fronte a Dio che nessun uomo moralmente sano avrebbe potuto commettere un tale delitto dietro una provocazione del tutto inesistente, e che colpii in uno stato d'animo non meno irrazionale di quello di un bimbo malato che rompe un giocattolo. Ma, per mia volontà, mi ero spogliato di tutti quei freni inibitori che consentono anche al peggiore fra noi di procedere con una certa fermezza tra le tentazioni. Nel mio caso, essere tentato significava cadere.
Subito lo spirito demoniaco si risvegliò in me e imperversò. In un impeto di follia straziai quel corpo che non opponeva resistenza, assaporando la gioia di ogni colpo, e solo quando subentrò la stanchezza, improvvisamente, nel parossismo del delirio, il mio cuore fu trafitto da una gelida morsa di terrore. La nebbia si disperse; mi resi conto d'essermi giocato l'esistenza e fuggii da quella scena di infamie, esultando e tremando al tempo stesso, appagato ed eccitato nella bramosia di male, più che mai desideroso di vivere. Corsi alla casa di Soho, e, per maggior sicurezza, distrussi le mie carte; dopo di che mi inoltrai per le strade illuminate immerso nella stessa combattuta estasi, esultando del delitto commesso e immaginandone degli altri, e al tempo stesso andando di gran fretta e con l'orecchio pronto a cogliere il passo vendicatore. Mentre mescolava la pozione Hyde canterellò una canzone e quando la bevve brindò al morto. Gli spasmi della trasformazione non avevano ancora finito di straziarlo, che Henry Jekyll, versando lacrime di rimorso e di gratitudine, cadeva in ginocchio e alzava a Dio le mani giunte.
Il velo dell'indulgenza verso me stesso era strappato da cima a fondo: rividi l'intero corso della mia vita, da quando, bambino, camminavo dando la mano a mio padre, poi attraverso le fatiche e le abnegazioni della mia vita professionale, fino a ritornare, con la stessa sensazione di irrealtà, agli orrori indicibili di quella notte. Mi sarei messo a gridare come un pazzo; cercai di cancellare con preghiere e lacrime l'odiosa folla di immagini e suoni con cui la memoria mi assediava; e tuttavia, in mezzo alle suppliche, il volto orribile della mia iniquità mi trafiggeva l'anima. Man mano che questo cocente rimorso si andò affievolendo, subentrò come un senso di gioia. Il problema della mia condotta futura era risolto. Hyde non poteva più esistere; che lo volessi o meno, ero ormai obbligato alla parte migliore della mia esistenza. Oh, come ne gioii al solo pensiero! Con quale spontanea umiltà abbracciai le limitazioni di una vita secondo le leggi di natura! Con quale sincero spirito di rinuncia sprangai la porta dalla quale ero uscito e rientrato tante volte e ne spezzai la chiave sotto il tacco! Il giorno seguente si diffuse la notizia che il delitto era stato scoperto, che la colpevolezza di Hyde era evidente, e che la vittima era una persona della massima stima. Non era stato solo un crimine, ma un gesto di tragica follia. Credo di essere stato felice nell'apprenderlo e nel constatare che i miei impulsi migliori sarebbero stati in tal modo rafforzati e salvaguardati dal terrore della forca. Jekyll era ora il mio unico rifugio. Se solo Hyde si fosse fatto vedere, le mani di tutti si sarebbero alzate per acciuffarlo e ammazzarlo.
Decisi che la mia condotta futura avrebbe redento il passato, e in tutta onestà posso dire che la mia decisione diede qualche frutto. Tu stesso hai visto con quale impegno, negli ultimi mesi dello scorso anno, mi sono sforzato di alleviare le sofferenze altrui; tu sai quanto ho fatto per gli altri, e che ho trascorso quei giorni nella quiete e quasi in letizia. Né posso dire di essermi stancato di questa vita caritatevole e innocente; credo, al contrario, di averla gustata ogni giorno di più. Ma portavo tuttora in me la maledizione di una doppia personalità; e mentre la forza del mio pentimento cominciava ad attenuarsi, la parte peggiore di me, così a lungo assecondata e così recentemente messa alla catena, prese a ringhiare. Non che io avessi intenzione di resuscitare Hyde; il solo pensiero mi avrebbe fatto impazzire; no, ero io stesso, nella mia stessa persona, che ancora una volta ero tentato di scherzare con la coscienza; e, come accade a coloro che peccano in segreto, alla fine caddi di fronte all'assalto delle tentazioni.
C'è una fine per ogni cosa; la più capace delle misure viene presto o tardi colmata; e questa breve condiscendenza al male finì per distruggere l'equilibrio della mia anima. Eppure non ero spaventato; la caduta mi sembrò naturale, come un ritorno ai vecchi tempi prima della fatale scoperta. Era una bella e limpida giornata di gennaio, con il selciato bagnato là dove il gelo si era disciolto, ma senza nubi in cielo; Regent Park risuonava di cinguettii invernali e odorava di profumi di primavera. Mi ero seduto su una panca al sole; la bestia che era dentro di me covava frammenti di ricordi, mentre la parte spirituale sonnecchiava, ripromettendosi future penitenze ma senza alcuna volontà di darvi inizio. Dopo tutto, riflettevo, ero come tutti gli altri; e mi venne da sorridere paragonando me stesso agli altri uomini, confrontando la mia volontà di fare del bene con la pigra crudeltà della loro indifferenza. Proprio nel momento in cui formulavo questo vanaglorioso pensiero, fui colto da uno spasmo improvviso, da una nausea terribile e da un tremore mortale. Poi tutto passò, lasciandomi in uno stato di totale spossatezza, e quando anch'essa cominciò a dileguarsi, ebbi la consapevolezza che l'indole dei miei pensieri andava mutando in una sfrontatezza più ribalda, nello sprezzo del pericolo, nel ripudio del senso del dovere. Mi guardai: i vestiti pendevano informi sul mio corpo rattrappito, la mano che posava sul ginocchio era pelosa e nocchiuta. Ancora una volta ero diventato Edward Hyde. Un momento prima ero al sicuro, rispettato da tutti, ricco, amato... la tavola pronta nella sala da pranzo, a casa mia; e adesso non ero che una preda di caccia, un essere braccato, senza casa, conosciuto da tutti come un assassino, destinato alla forca. La ragione vacillò, ma non mi abbandonò del tutto. Più di una volta ho notato che in quella seconda natura le mie facoltà sembravano acuirsi e la mente diventare più agile, di modo che, là dove Jekyll avrebbe forse potuto soccombere, Hyde sapeva far fronte alla situazione. Gli ingredienti chimici erano in uno degli armadietti dello studio: come potevo procurarmeli? Con la testa fra le mani tentai di risolvere il problema. La porta del laboratorio l'avevo chiusa a chiave io stesso. Se avessi cercato di entrare dalla porta principale i domestici mi avrebbero sicuramente consegnato al boia. Mi resi conto che dovevo servirmi di una terza persona e mi venne in mente Lanyon. Ma come potevo raggiungerlo? E come persuaderlo? Anche supponendo di non essere catturato per strada, come potevo farmi ricevere? E in che modo avrei potuto convincere, io visitatore sconosciuto e importuno, il famoso medico a rovistare nello studio del suo collega, dottor Jekyll? Mi venne allora in mente che qualcosa mi era rimasto della mia personalità originaria: la calligrafia. E una volta che questa scintilla fu scoccata, mi si illuminò tutto il percorso che avrei dovuto seguire da cima a fondo.
Mi sistemai alla meglio gli abiti, presi una carrozza di passaggio e mi feci portare a un albergo di Portland Street di cui ricordavo il nome. Quando mi vide (dovevo avere un aspetto piuttosto buffo, nonostante il tragico destino che mi portavo addosso) il vetturino non riuscì a trattenere il riso. Gli mostrai i denti in un impeto di furia demoniaca, e immediatamente il sorriso svanì dal suo volto: fortunatamente per lui ma ancor più per me, perché ero pronto a scaraventarlo giù di cassetta. Quando entrai nell'albergo mi guardai intorno con un'aria così truce che gli inservienti si misero a tremare incapaci di scambiarsi un'occhiata; presero i miei ordini con atteggiamento ossequiente, mi accompagnarono in una saletta privata e mi portarono l'occorrente per scrivere. Questo Hyde che si trovava in pericolo di vita mi appariva un essere totalmente nuovo: scosso da una furia insensata, eccitato fino al delitto, bramoso di infliggere sofferenze. Eppure era furbo: riuscì a controllare la collera con grande sforzo di volontà e a stendere le due lettere decisive, una a Lanyon e l'altra a Poole, che poi, per essere sicuro che fossero impostate, ordinò di spedire per raccomandata.
Da quel momento in poi, si mise a sedere accanto al caminetto dove rimase tutto il giorno a rodersi le unghie; qui cenò, in compagnia delle proprie paure, mentre il cameriere tremava visibilmente sotto il suo sguardo, e di qui si allontanò a notte inoltrata raggomitolato nell'angolo di una carrozza chiusa, facendosi trasportare per le vie della città. Parlo in terza persona... non posso fare diversamente. Quel figlio del demonio non aveva nulla di umano, in lui sopravvivevano solo terrore e odio. E quando alla fine, temendo che il conducente cominciasse a insospettirsi, abbandonò la carrozza e si avventurò a piedi fra i passanti notturni, oggetto di curiosità a causa dello strano abbigliamento, queste due basse passioni infuriarono dentro di lui come un uragano. Camminava veloce, perseguitato dalle sue stesse paure, borbottando fra sé e sé, sgattaiolando lungo le vie meno frequentate, contando i minuti che ancora lo separavano dalla mezzanotte. Una donna gli rivolse la parola per offrirgli, credo, una scatola di fiammiferi. Lui la colpì in volto ed ella fuggì.
Quando ritornai in me a casa di Lanyon, l'orrore del mio vecchio amico mi causò un certo turbamento. Non so bene, ma certo non era che una goccia nel mare, a confronto della ripugnanza che provavo ripensando alle ore passate. C'era stato un cambiamento in me: ciò che mi torturava non era più il timore del patibolo, ma il ribrezzo di essere Hyde. Accolsi le parole di condanna di Lanyon come in sogno, e come in un sogno tornai a casa e andai a letto. Dopo la prostrazione di quella giornata caddi in un sonno così profondo e totale che neppure gli incubi che mi torturavano riuscirono a interromperlo. Il mattino dopo mi risvegliai turbato e indebolito ma più fresco. Provavo ancora odio e terrore per la bestia che si annidava in me e non avevo certo dimenticato i tremendi pericoli del giorno precedente; ma ero di nuovo a casa mia con la droga a portata di mano, e la riconoscenza per lo scampato pericolo irradiava dalla mia anima fin quasi a eguagliare la luce della speranza.
Stavo tranquillamente passeggiando in cortile poco dopo colazione, assaporando la fresca aria del mattino, quando fui colto di nuovo da quelle indescrivibili sensazioni che preannunciavano la metamorfosi. Feci appena in tempo a rifugiarmi nello studio che fui di nuovo straziato e agghiacciato dai deliri di Hyde. Ci volle una dose doppia questa volta per ritornare me stesso, e, ahimè, sei ore dopo, mentre me ne stavo tristemente seduto a guardare il fuoco, gli spasimi insorsero di nuovo e dovetti riprendere la pozione. In poche parole, da quel giorno in poi riuscii a mantenere le sembianze di Jekyll solo attraverso un grande sforzo fisico e la continua somministrazione della droga. In qualunque momento del giorno o della notte mi poteva accadere di essere colto dal brivido premonitore, e soprattutto se mi addormentavo o sonnecchiavo anche per poco in poltrona, ero sicuro di risvegliarmi con le fattezze di Hyde. Sotto la tensione che mi causava questa maledizione incombente e in conseguenza della veglia continua a cui mi costringevo, ben al di là di quanto credevo possibile a creatura umana, mi ridussi a un povero essere consumato e svuotato dalla febbre, debole e infiacchito nel corpo e nella mente, ossessionato da un unico pensiero: l'orrore dell'altro me stesso. Ma quando dormivo o quando l'effetto della droga si esauriva, senza quasi accorgermi (poiché gli spasimi della metamorfosi divenivano giorno dopo giorno meno acuti), cadevo preda di una fantasia gremita di immagini terrificanti, di un animo ribollente di odi immotivati, di un corpo incapace di contenere le impetuose energie vitali. La forza di Hyde sembrava accrescersi con l'indebolimento progressivo di Jekyll. E senza dubbio l'odio che ormai li separava era sentito da entrambi in uguale misura. Per Jekyll si trattava di istinto di conservazione. Ormai conosceva la mostruosità dell'essere con cui condivideva alcuni fenomeni della vita cosciente e di cui sarebbe stato compagno nella morte; e al di là di questi comuni legami, che di per sé stessi costituivano l'aspetto più orribile della sua disperazione, concepiva Hyde, nonostante tutta la sua energia vitale, come un fenomeno inorganico oltre che come una creatura demoniaca. Ed era proprio questa la cosa più sconvolgente: che la melma della fogna potesse gridare e parlare, che l'amorfa polvere fosse in grado di gesticolare e commettere peccati, che ciò che era morte e non possedeva forma potesse usurpare le funzioni della vita. E ancora: che quell'essere orrendo e ribelle gli fosse avvinto più di una moglie, parte di sé quanto un occhio, imprigionato nella sua stessa carne dove lo sentiva brontolare e agitarsi nel tentativo di venire alla luce; che in ogni momento di debolezza e nell'abbandono del sonno potesse prevalere su di lui e sottrargli la vita. Di diverso genere era l'odio che Hyde provava per Jekyll. Il terrore del patibolo lo spingeva continuamente a commettere temporanei suicidi e a ritornare al suo ruolo subordinato anziché assumere quello di attore principale. Ma detestava questa condizione imposta, detestava la prostrazione in cui Jekyll era caduto, e male sopportava l'antipatia con cui veniva trattato. Mi faceva degli scherzi atroci, degni di una scimmia, scarabocchiando frasi blasfeme sui miei libri in una calligrafia molto simile alla mia, bruciando le mie lettere e fracassando il ritratto di mio padre. Se non fosse stato per il timore della morte, avrebbe finito per distruggersi pur di coinvolgermi nella rovina. Ma il suo amore per la vita è eccezionale; dirò di più: io stesso, che sento solo disgusto e gelido odio nei suoi confronti, quando penso al suo attaccamento infame e appassionato e al terrore che gli provoca il solo pensiero che io possa sopprimerlo con il suicidio, provo quasi pietà in fondo al mio cuore.
Mi sembra inutile, e me ne manca il tempo, prolungare oltre questa relazione. Posso solo dire che nessuno ha provato simili tormenti; e pur tuttavia anche in questa tortura l'abitudine ha arrecato... no, non sollievo.., ma una certa assuefazione dell'anima, una certa acquiescenza alla disperazione. E se non fosse per l'ultima sventura che mi è toccata e che mi ha separato per sempre dal mio volto e dalla mia natura, il castigo avrebbe potuto protrarsi per anni. La mia provvista di sali, che non era mai stata rinnovata dal giorno del primo esperimento, cominciò progressivamente a ridursi. Mandai a prenderne dell'altro e mescolai la pozione: seguì l'ebollizione e il primo mutamento di colore, ma non il secondo. La bevvi e non diede alcun effetto. Saprai da Poole come abbia invano fatto rovistare tutta Londra. Ora sono convinto che la mia prima provvista era impura e che è stata quella impurità sconosciuta a dare efficacia alla pozione.
È passata ormai una settimana e sto terminando questa dichiarazione sotto l'effetto di quel poco che è rimasto della vecchia polvere. A meno di un miracolo, quindi, questa è l'ultima volta in cui Henry Jekyll può formulare i propri pensieri o vedere la propria faccia (ahimè quanto mutata!) nello specchio. Non posso indugiare troppo nel portare a termine la relazione, perché, se finora è scampata alla distruzione, è stato solo grazie a una grande prudenza e alla fortuna. Se gli spasimi della metamorfosi dovessero cogliermi mentre scrivo, Hyde la farebbe a pezzi. Se invece passerà un certo lasso di tempo dopo che l'avrò riposta, il suo straordinario egoismo e la sua attenzione esclusiva per l'attimo fuggente forse salveranno il mio racconto dai suoi scherzi scimmieschi. In realtà la maledizione che sta per chiudersi su di noi lo ha già distrutto e mutato. Fra mezz'ora, quando avrò riassunto per l'ultima e definitiva volta la sua odiosa identità, so già che me ne starò seduto sulla sedia a piagnucolare e battere i denti, o continuerò, in un parossismo di terrore e di tensione, a camminare avanti e indietro per questa stanza (il mio ultimo rifugio terreno) tendendo l'orecchio a ogni suono minaccioso. Hyde morirà sul patibolo? O troverà il coraggio di por fine alla sua vita all'ultimo momento? Lo sa solo Dio. La cosa non mi interessa. Il vero momento della mia morte è questo; quello che succederà dopo non riguarda me, ma un altro. E così, nel momento stesso in cui depongo la penna e mi accingo a sigillare la mia confessione, metto fine alla vita dell'infelice Henry Jekyll.

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(1) Il riferimento non è chiaro. Plutarco e Svetonio raccontano diverse storie di prigionieri a Filippi, e Shakespeare riprende quella dei soldati che credono di aver fatto prigioniero Bruto, mentre questo è fuggito e al suo posto s’è lasciato catturare Lucilio. Ma nessuna di queste storie sembra adattarsi al caso [nota di Fruttero e Lucentini nell’edizione già citata].
(2) Allusione all’episodio biblico (Daniele, 5) in cui Baldassarre re dei Caldei, mentre è a banchetto, vede una mano (più precisamente: «un pezzo di mano») tracciare sul muro le parole Mane Thecel Phares che presagiscono la sua fine. L’episodio, col «pezzo di mano» che esce da una specie di nebbia e il dito che traccia le lettere, è raffigurato in un grande quadro di Rembrandt ora alla National Gallery di Londra [come sopra].

Spencer Tracy come dottor Jekyll (a sinistra) e come signor Hyde nel film di Victor Fleming del 1941

Il dipinto di Rembrandt “Festino di Baldassarre” che narra un episodio biblico a cui Stevenson fa riferimento in questo capitolo del suo romanzo



venerdì 24 novembre 2017

135 Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde – capitolo 9 (di Robert Louis Stevenson)



Il lettore che legge per la prima volta questo romanzo scopre in questo penultimo capitolo la verità sullo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. Lascio perciò che ad essa si avvicini passo dopo passo, come ho fatto lo scrittore inglese.

IL RACCONTO DEL DOTTOR LANYON
Quattro giorni fa, il nove di gennaio, ricevetti con la posta della sera una lettera raccomandata. Riconobbi la calligrafia dell'indirizzo come quella del mio collega e vecchio compagno di scuola Henry Jekyll. La cosa mi sorprese molto, poiché non avevamo l'abitudine dì comunicare per iscritto; l'avevo visto la sera prima e avevo persino cenato con lui, e non riuscivo a trovare qualcosa nei nostri rapporti che potesse giustificare un tale formalismo. Il contenuto accrebbe la mia sorpresa. Ecco quanto vi era scritto:

9 gennaio 18…
Caro Lanyon,
tu sei uno dei miei più vecchi amici, e per quanto possiamo talvolta aver avuto opinioni diverse su questioni scientifiche, non ricordo che il nostro affetto sia mai venuto meno, almeno da parte mia. Non c'è stato giorno in cui, se tu mi avessi detto: «Jekyll, la mia vita, il mio onore, la mia ragione dipendono da te», non avrei sacrificato la mia fortuna e la mano sinistra per aiutarti. Lanyon, la mia vita, il mio onore, la mia ragione sono alla tua mercé. Se questa notte non mi vieni in aiuto, io sono finito. Dopo un tale esordio, potresti pensare che stia per chiederti qualcosa di disonorevole. Giudica tu stesso.
Voglio che questa notte tu rinvii tutti i tuoi impegni; sì, anche se ti dovessero chiamare al capezzale di un imperatore. Voglio che tu prenda una carrozza, a meno che la tua sia già pronta al portone, e che tu venga immediatamente a casa mia con questa lettera di istruzioni. Ho già dato disposizioni a Poole, il mio maggiordomo, che troverai ad attenderti insieme con un fabbro. Dovete forzare la porta del mio studio in cui devi entrare da solo e aprire la vetrina sulla sinistra contrassegnata dalla lettera E, rompendo la serratura se fosse chiusa. Prenderai il quarto cassetto dall'alto con tutto il suo contenuto così come si trova, oppure il terzo dal basso, il che è la stessa cosa. Nello stato d'animo in cui mi trovo ho il folle terrore di darti istruzioni sbagliate, ma anche se dovessi sbagliare, potrai riconoscere il cassetto da ciò che contiene: alcune polveri, una fiala, un libretto d'appunti. Ti prego di riportare con te, a Cavendish Square, questo cassetto esattamente come lo troverai.
Questa è la prima parte del servigio che ti chiedo; e ora la seconda. Se ti metti in moto non appena riceverai questa lettera, dovresti essere di ritorno molto prima di mezzanotte; ti lascio un tale margine di tempo non solo per il timore di quei contrattempi che non si possono né evitare né prevedere, ma perché, per ciò che rimane da fare, è preferibile scegliere un'ora in cui i domestici siano già a letto. Allora devo chiederti di farti trovare solo a mezzanotte nel tuo ambulatorio, di ricevere un uomo che si presenterà a mio nome e di consegnargli il cassetto che avrai portato con te dal mio studio. Avrai compiuto, così, un'azione di cui ti sarò eternamente grato. Se tu dovessi insistere per avere spiegazioni, cinque minuti dopo ti renderai conto che questi dettagli sono di importanza vitale e che se ne trascurassi anche uno solo, per quanto bizzarri possano apparire, potresti ritrovarti sulla coscienza la colpa della mia morte o il naufragio della mia mente.
Il solo pensiero di una simile possibilità mi fa mancare il cuore e tremare i polsi, anche se ho fiducia che non prenderai alla leggera questo mio appello. Ti chiedo di pensare a me in quest'ora difficile, oppresso da una cupa angoscia che nessuna immaginazione potrebbe esagerare, solo in luoghi sconosciuti, eppure sicuro che, se solo mi verrai in aiuto, tutte queste pene svaniranno come il racconto di una fiaba. Aiutami, mio caro Lanyon, e salva
il tuo amico H.J.
P.S. Avevo già chiuso la lettera quando un nuovo timore mi ha fatto gelare il sangue. Può darsi che la posta non m'assista e che questa mia non ti arrivi prima di domani mattina. In tal caso, caro Lanyon, fa' ciò che ti ho chiesto nel corso della giornata, quando ti è più comodo, e aspetta il mio messaggero per mezzanotte. Potrebbe allora essere troppo tardi, e se la notte passerà senza che accada nulla, saprai di aver visto per l'ultima volta Henry Jekyll.

Leggendo questa lettera mi convinsi che il mio collega era impazzito; ma, sinché non fosse provato al di là di ogni possibile dubbio, mi sentivo in obbligo di fare quanto mi veniva chiesto. E quanto meno capivo di questo guazzabuglio, tanto meno ero in grado di valutarne l'importanza. Certo non potevo trascurare un appello di tal fatta senza assumermi una grave responsabilità. Di conseguenza mi alzai da tavola, presi una carrozza e mi recai immediatamente a casa di Jekyll. Il maggiordomo mi stava aspettando; anche lui aveva ricevuto con lo stesso giro di posta una lettera raccomandata con relative istruzioni e aveva subito mandato a chiamare un fabbro e un falegname. I due arrivarono mentre stavamo ancora parlando, e tutti insieme ci recammo nella sala chirurgica del vecchio dottor Denman, da cui si accede, come sicuramente sai, direttamente allo studio privato di Jekyll. La porta era robusta e la serratura delle migliori: il falegname disse che per forzarla sarebbe occorso molto lavoro e avrebbe causato non pochi danni; anche il fabbro aveva dei problemi, ma sapeva il fatto suo, e nel giro di due ore l'uscio venne abbattuto. La vetrina contrassegnata con la lettera E era aperta: ne estrassi il cassetto, lo coprii con della paglia, lo avvolsi in un foglio e lo portai a casa mia in Cavendish Square.
Qui ne esaminai il contenuto. Le polveri erano incartate con cura, ma non con quella precisione che è propria del farmacista, dal che dedussi che erano state preparate da Jekyll; quando aprii una delle bustine vi trovai quel che mi sembrò un sale cristallino di colore bianco del tipo comune. Passai poi alla fiala che era piena per circa metà di un liquido color rosso sangue, dall'odore molto acre, che doveva contenere fosforo e un etere volatile. Non fui in grado di identificare gli altri componenti.
In quanto al libretto di appunti, era uno dei soliti: tra il poco che vi era annotato, conteneva una serie di date. Coprivano un arco di tempo di diversi anni, ma notai che le registrazioni si interrompevano bruscamente circa un anno fa. Qua e là, accanto a una data, c'era una breve osservazione, non più di una parola in genere: «doppio» compariva sei volte su un totale di parecchie centinaia di registrazioni, e una volta, proprio all'inizio, e seguita da molti punti esclamativi, v'era l'espressione «fiasco totale!!!». Tutto ciò aumentava la mia curiosità ma non mi dava niente di preciso. Avevo di fronte a me una fiala contenente una qualche tintura, una bustina di sali e la registrazione di una serie di esperimenti che (come spesso capitava a Jekyll) non avevano portato a nessun risultato concreto. In qual modo l'onore, la sanità mentale, la vita del mio incostante amico potevano dipendere dalla presenza di questi oggetti in casa mia? E perché il suo messo poteva recarsi senza problemi in un luogo e non in un altro? E anche ammettendo che ci fosse qualche impedimento, perché doveva essere ricevuto nel massimo segreto? Più ci riflettevo sopra e più mi convincevo di avere a che fare con un caso di malattia mentale; e dopo aver congedato i domestici per la notte, caricai la mia vecchia pistola in modo da potermi difendere se ce ne fosse stato bisogno.
Mezzanotte era appena risuonata nel cielo di Londra quando udii bussare sommessamente alla porta. Andai io stesso ad aprire e vidi un uomo piuttosto piccolo acquattato dietro una colonna del portico.
«Viene da parte del dottor Jekyll?», chiesi.
Rispose di sì con un fare impacciato e quando lo invitai ad entrare mi obbedì gettando uno sguardo indagatore dietro di sé verso la piazza buia. Non lontano c'era un poliziotto che veniva verso di noi con la lanterna in mano; mi sembrò che a quella vista il mio visitatore sussultasse e si affrettasse ad entrare.
Devo ammettere che questi particolari mi colpirono sfavorevolmente e mentre lo accompagnavo verso il mio ambulatorio ben illuminato tenni la mano sulla pistola. Qui ebbi modo di osservarlo bene. Non l'avevo mai visto prima; di questo ero certo. Come ho già detto, era piuttosto piccolo; ma ciò che mi colpì fu l'espressione sconvolgente del suo volto, che rivelava un grande vigore muscolare e insieme un'evidente debolezza di costituzione, e da ultimo, ma non meno importante, lo strano senso di disagio che la sua vicinanza provocava in me. Era come se i miei muscoli si andassero irrigidendo, e a ciò si accompagnava un rallentamento del battito cardiaco. Al momento l'attribuii a una mia idiosincrasia personale, a un'antipatia istintiva, e mi meravigliai solo dell'acutezza dei sintomi; ma ora ho motivo di credere che la causa giacca negli strati più profondi della natura umana e che si basi su principi più nobili che quello dell'odio.
Quest'uomo (che fin dal primo momento aveva suscitato in me ciò che posso solo definire come un misto di curiosità e di disgusto) era vestito in un modo che avrebbe reso ridicola qualunque altra persona: i suoi abiti, per quanto fossero di un tessuto costoso ed elegante, erano assolutamente troppo grandi per lui ... i pantaloni gli penzolavano sulle gambe ed erano arrotolati perché non toccassero terra, la vita della giacca gli arrivava all'altezza dei fianchi e il colletto gli copriva quasi le spalle. Ma, strano a dirsi, questo abbigliamento assurdo era ben lungi dal farmi ridere. Anzi, poiché nell'essenza stessa di quell'individuo che avevo di fronte c'era qualcosa di anormale e di mostruoso, qualcosa che mi colpiva, mi catturava e mi disgustava insieme, quest'altra incongruenza sembrava accordarsi perfettamente con quelle sensazioni e renderle più forti. E così al mio interesse circa la natura e il carattere di quell'uomo si aggiunse la curiosità di saperne qualcosa sulle origini, sulla vita, sulle sostanze e sulla posizione sociale. Queste mie osservazioni, che sulla carta hanno richiesto tanto spazio, non durarono che pochi secondi. Il mio visitatore era in uno stato di cupa agitazione.
«Ce l'ha?», gridò. «Ce l'ha?». La sua impazienza era tale che mi pose una mano sul braccio e fece per scuotermi.
Lo allontanai avvertendo una fitta gelida corrermi per le vene al contatto della mano. «La prego, signore», dissi. «Lei dimentica che non ho ancora avuto il piacere di fare la sua conoscenza. Si accomodi, per favore». Gli diedi l'esempio e mi misi a sedere nella mia solita poltrona cercando di comportarmi come abitualmente faccio con i miei pazienti, per quanto me lo consentivano l'ora tarda, la natura delle mie preoccupazioni e l'orrore che l'ospite mi ispirava.
«La prego di scusarmi, dottor Lanyon», rispose con tono abbastanza educato. «Lei ha perfettamente ragione; l'impazienza mi ha fatto dimenticare le buone maniere. Sono venuto qui su richiesta del suo collega, il dottor Jekyll, per una faccenda di una certa importanza; e mi è sembrato di capire...». S'interruppe portandosi una mano alla gola, e mi resi conto che, nonostante cercasse di controllarsi, era sull'orlo di un attacco isterico. «Mi è sembrato di capire, un cassetto...».
A questo punto ebbi pietà della sua angoscia e anche, forse, della mia crescente curiosità.
«Eccolo là, signore», dissi, indicandogli il cassetto che si trovava sul pavimento, dietro il tavolo, ancora avvolto nel foglio di carta.
Si precipitò verso di esso, poi si fermò e si portò una mano al cuore: lo sentii digrignare i denti sotto l'azione convulsa delle mascelle, mentre il suo volto impallidiva a tal punto che temetti per la sua vita e per il suo senno.
«Si calmi», dissi.
Si volse verso di me con un sorriso agghiacciante, e come mosso dalla disperazione strappò via il foglio. Alla vista del contenuto emise un unico sonoro singhiozzo di immenso sollievo che mi lasciò sbalordito. Un attimo dopo, con una voce che era ormai sotto controllo, mi chiese: «Ha una provetta graduata?».
Con un certo sforzo mi alzai dalla poltrona e gli diedi quello che mi aveva chiesto.
Mi ringraziò sorridendo con un cenno del capo; poi misurò alcune gocce della tintura rossa e vi aggiunse la polvere di una delle cartine. La miscela, che inizialmente era di una tonalità rossastra, cominciò ad assumere un colore più brillante man mano che i cristalli si scioglievano, a diventare effervescente e a emettere piccole esalazioni di vapore. Improvvisamente l'ebollizione cessò e nello stesso istante il composto divenne color porpora per poi mutarsi ancora una volta, più lentamente, in un verde acqua. Il mio visitatore che aveva seguito tutti questi mutamenti con occhio attento, sorrise, posò la provetta sul tavolo, si voltò e mi guardò con aria indagatrice.
«E ora», disse, «veniamo al resto. Vuol essere saggio? Vuole lasciarsi guidare? Lascerà che io prenda questa provetta e mi allontani da questa casa senza ulteriori spiegazioni? Oppure la sua curiosità è troppo forte per potervisi opporre? Ci pensi bene prima di rispondere, perché si farà come lei vorrà. Se così decide, lei rimarrà quello che era prima, né più ricco né più saggio, a meno che si voglia considerare una sorta di ricchezza dell'animo la consapevolezza di aver aiutato un uomo in pericolo mortale. Oppure, se deciderà nell'altro senso, dinanzi a lei si spalancheranno nuovi campi del sapere e nuove prospettive di gloria e di potere; qui, in questa stanza, adesso. Un prodigio in grado di far vacillare l'incredulità di Satana trafiggerà il suo sguardo».
«Signore», dissi, ostentando un sangue freddo che non avevo affatto, «lei parla per enigmi e forse non si stupirà se le dico che l'ascolto senza prestare grande fiducia alle sue parole. Ma ormai sono andato troppo avanti rendendole questi servigi incomprensibili e non posso certo fermarmi prima di vederne la conclusione».
«D'accordo», rispose il visitatore. «Ma ricordi il giuramento, Lanyon: ciò che avverrà è coperto dal segreto professionale. Ed ora, lei che così a lungo è rimasto attaccato a regole anguste e materiali, lei che ha negato le virtù della medicina trascendentale, lei che ha deriso chi le era superiore... guardi!».
Si portò il bicchiere alle labbra e ne bevve il contenuto tutto d'un fiato. Ci fu un grido: barcollò, vacillò, s'afferrò al tavolo a cui rimase aggrappato, sbarrando gli occhi iniettati di sangue e rantolando con la bocca spalancata; e mentre lo guardavo, sopravvenne, mi parve, un mutamento... sembrò gonfiarsi... il volto si fece improvvisamente scuro, i lineamenti parvero dissolversi e mutare... Un attimo dopo balzavo in piedi addossandomi alla parete, le braccia alzate per ripararmi da quel prodigio, la mente sopraffatta dal terrore.
«Oh Dio!», urlai, e ancora «oh Dio, oh Dio!»: là, di fronte a me, pallido e tremante, quasi svenuto, con le mani che annaspavano nel vuoto come chi riemerga dalla morte... c'era Henry Jekyll!
Mi è impossibile mettere per iscritto ciò che mi raccontò nell'ora che seguì; vidi quel che vidi, udii quel che udii, e la mia anima se ne ammalò. E ancor oggi che quella vista è svanita dai miei occhi, continuo a domandarmi se debbo crederci e non so dare una risposta. La mia vita è rimasta scossa alle radici; il sonno mi ha abbandonato; un terrore mortale mi accompagna ogni ora del giorno e della notte. Sento che i miei giorni sono contati e che la morte è vicina, eppure morirò nel dubbio. Quanto alla depravazione morale che quell'uomo mi rivelò, pur tra lacrime di rimorso, la sola memoria provoca in me un moto di orrore. Dirò un'unica cosa, Utterson (se potrai crederla) e sarà più che sufficiente. Per ammissione dello stesso Jekyll, la creatura che si introdusse nella mia casa quella notte era conosciuta con il nome di Hyde ed era ricercata in ogni angolo del paese come l'assassino di Carew.
HASTIE LANYON

Illustrazione dell’epoca della prima edizione del romanzo


mercoledì 22 novembre 2017

134 Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde - capitolo 8 (di Robert Louis Stevenson)



I protagonisti dell’ottavo capitolo sono l’avvocato Utterson e Poole, il domestico del dottor Jekyll: tra sospetti, cadaveri, nuovi testamenti e buste sigillate, ci avviamo alla soluzione del mistero, ma c’è ancora molta strada da fare. E comunque non è bene dire che cosa succede nell’ultima notte; bisogna piuttosto leggere e accostarsi da sé alla verità.

L'ULTIMA NOTTE
Una sera, dopo cena, il signor Utterson se ne stava seduto accanto al caminetto quando ebbe la sorpresa di ricevere la visita di Poole.
«Dio mio, Poole, come mai sei qui?», esclamò; e poi, guardandolo meglio: «Cos'è che ti preoccupa?», aggiunse; «il dottore sta male?».
«Signor Utterson», disse l'uomo, «c'è qualcosa che non va».
«Siediti e bevi un bicchiere di vino», disse l'avvocato. «E ora, con calma, dimmi perché sei venuto».
«Lei conosce le abitudini del dottore, signore, e come ami rinchiudersi nel suo studio. Ebbene, si è di nuovo barricato là dentro, e questo non mi piace, signore – possa venirmi un accidente se mi piace. Signor Utterson, io ho paura».
«Su, mio buon Poole», disse l'avvocato, «cerca di essere più chiaro. Di cosa hai paura?».
«È da una settimana che ho paura», rispose Poole ostinatamente, non facendo caso alla domanda dell'altro, «e non ce la faccio più».
L'aspetto del domestico confermava ampiamente il discorso; il suo modo di fare era cambiato in peggio, e all'infuori del momento in cui era uscito con i suoi timori, non aveva guardato in faccia l'avvocato una sola volta. E anche adesso se ne stava seduto col bicchiere di vino sul ginocchio, senza averlo toccato, e con lo sguardo fisso su un angolo del pavimento.
«Non ce la faccio più», continuava a ripetere.
«Su», disse l'avvocato, «mi rendo conto che ti spingono gravi motivi, Poole, e che c'è qualcosa di storto. Prova a raccontarmelo».
«Credo che sia stato commesso un delitto», disse Poole con voce rauca.
«Un delitto!», gridò l'avvocato piuttosto spaventato e perciò incline a perdere la pazienza. «Quale delitto? Che cosa intendi dire?».
«Non oso parlarne, signore», rispose Poole. «Ma perché non viene con me a vedere di persona?».
Per tutta risposta il signor Utterson si alzò e prese cappello e cappotto; ma osservò con meraviglia che un'espressione di immenso sollievo era apparsa sul viso del maggiordomo e, forse con non minor meraviglia, che il bicchiere deposto per seguirlo non era stato toccato.
Era una tipica notte di marzo, burrascosa e fredda, con una luna pallida appoggiata sul dorso come se il vento l'avesse fatta rovesciare, e delle nubi sfilacciate che correvano nel cielo.
Il vento, che arrossava le guance, rendeva quasi impossibile ogni conversazione. Inoltre sembrava che avesse spazzato le strade, insolitamente deserte, sicché il signor Utterson pensò che non aveva mai visto quella parte di Londra così disabitata. Avrebbe desiderato il contrario: mai nella sua vita aveva provato un desiderio così intenso di vedere e toccare i suoi simili. Gli si era fatto innanzi nella mente, e non valeva opporsi, un terribile presentimento di disgrazia. Quando arrivarono alla piazza, vi trovarono solo vento e polvere, e gli esili alberi che battevano i rami contro la cancellata. Poole, che per tutta la strada aveva preceduto l'avvocato di uno o due passi, si fermò nel bel mezzo del marciapiede e, nonostante il freddo tagliente, si tolse il cappello e si asciugò la fronte con un fazzoletto rosso. Ma, per quanto avesse camminato in fretta, quello che si andava asciugando non era il sudore derivante da uno sforzo fisico, ma ciò che un'angoscia schiacciante può provocare: il suo volto era bianco e la voce, quando parlò, rotta e gutturale.
«Ecco, signore», disse, «siamo arrivati, e voglia Dio che non ci sia nulla di tragico».
«Amen, Poole», disse l'avvocato.
Il domestico bussò alla porta con fare guardingo; l'uscio venne aperto, ma la catena rimase tirata, e una voce dall'interno chiese: «Sei tu, Poole?». «Va tutto bene», disse Poole. «Aprite la porta». Quando entrarono, la sala d'ingresso era illuminata; un grosso fuoco ardeva nel caminetto, attorno al quale era raccolta tutta la servitù, uomini e donne, stretti gli uni agli altri come un gregge di pecore. Alla vista del signor Utterson la cameriera scoppiò in un pianto isterico, mentre la cuoca gli corse incontro come se volesse abbracciarlo, gridando: «Grazie a Dio, è il signor Utterson!».
«Che c'è? Che c'è? Siete tutti qui?», disse l'avvocato con tono stizzoso. «Non è regolare, non è decoroso; il vostro padrone non ne sarebbe affatto contento».
«Hanno tutti paura», disse Poole.
Seguì un profondo silenzio; nessuno protestò, solo la cameriera si mise a piangere più rumorosamente.
«Sta' zitta!», le disse Poole, con un tono feroce che dimostrava la sua tensione nervosa. In effetti, quando la ragazza aveva ripreso a lamentarsi più rumorosamente, tutti erano trasaliti e si erano voltati verso la porta che dava sull'interno con un'espressione di attesa sbigottita sui volti. «E ora», proseguì il maggiordomo rivolgendosi allo sguattero, «prendimi una candela, e diamoci da fare immediatamente». Chiese quindi al signor Utterson di seguirlo e gli fece strada verso il giardino posteriore.
«Ora, signore», disse, «venga avanti più piano che può. Voglio che lei senta, ma che non si faccia sentire. E attento, signore, se per caso la invita ad entrare, non entri».
A questa conclusione inattesa i nervi del signor Utterson ebbero una contrazione che quasi gli fece perdere l'equilibrio; ma ben presto ritrovò il coraggio e seguì il maggiordomo nel laboratorio, attraverso l'aula di anatomia, ingombra di casse e di ampolle, fino ai piedi della scala. Qui Poole gli fece segno di accostarsi al muro e ascoltare, mentre lui stesso, posata la candela e facendo appello a tutta la sua forza di volontà, salì gli scalini e bussò con mano esitante alla porta ricoperta di panno rosso.
«Signore, c'è l'avvocato Utterson che desidera vederla», disse a voce alta, e mentre parlava faceva segno all'avvocato di prestare orecchio.
Dall'interno rispose una voce lamentosa: «Digli che non posso vedere nessuno».
«Grazie, signore», disse Poole, con tono quasi di trionfo nella voce; quindi raccolse la candela e ricondusse il signor Utterson, attraverso il cortile, alla grande cucina dove il fuoco era spento e gli scarafaggi correvano per terra.
«Secondo lei, signore, quella era la voce del mio padrone?», disse guardando negli occhi il signor Utterson.
«Sembra molto cambiata», rispose l'avvocato, pallidissimo e senza abbassare lo sguardo.
«Cambiata? Be', sì, penso di sì», disse il maggiordomo. «Dopo vent'anni che sono in questa casa, potrei forse sbagliarmi sulla voce del mio padrone? No, signore; l'hanno fatto fuori; l'hanno fatto fuori otto giorni fa, quando l'abbiamo sentito invocare il nome di Dio, e chi ci sia là dentro al suo posto, e perché, è una cosa che grida vendetta al cielo, signor Utterson!».
«Questa storia è molto strana, Poole, per non dire pazzesca», disse il signor Utterson mordicchiandosi un dito. «Supponiamo che sia come tu dici, che il dottor Jekyll sia stato... ammazzato; che cosa potrebbe mai spingere l'assassino a rimanere sul luogo del delitto? Non ha senso; non c'è logica».
«Bene, signor Utterson, lei è un uomo difficile da convincere, ma io ci riuscirò», disse Poole. «Deve sapere che durante tutta la settimana, lui, o quello, o chiunque sia quell'essere che sta nello studio, ha urlato notte e giorno invocando una certa medicina che non riesce a ricordare esattamente. Era sua abitudine - del padrone, intendo - scrivere le ordinazioni su un pezzo di carta che gettava poi sulla scala. Questa settimana non abbiamo avuto altro: nient'altro che bigliettini e una porta sempre chiusa; e anche il cibo che lasciavamo fuori dello studio veniva ritirato di nascosto quando nessuno vedeva. Ebbene, signore, ogni giorno, sì e anche due e tre volte nello stesso giorno, ci ha fatto avere ordini e reclami, ed io ho dovuto correre da tutti i grossisti di prodotti chimici della città. E ogni volta che riportavo a casa qualcosa, trovavo un altro biglietto che mi ingiungeva di restituirla perché non era pura, insieme con un altro ordinativo per una ditta diversa. Ha un dannato bisogno di quella roba, signore, qualunque ne sia lo scopo».
«Hai ancora uno di questi biglietti?», chiese il signor Utterson.
Poole frugò nella tasca e ne tirò fuori un pezzo di carta spiegazzato, che l'avvocato esaminò con attenzione alla luce della candela. Questo ne era il contenuto: «Il dottor Jekyll presenta i propri omaggi ai Sigg. Maw. Li assicura che il loro ultimo campione non è puro e quindi del tutto inutilizzabile per lo scopo previsto. Nell'anno 18…, il dottor Jekyll ne comprò una certa quantità dalla loro ditta. Li prega di appurare con la massima cura se ne sia avanzato un po' della medesima qualità e di fargliela avere immediatamente. Il prezzo non costituisce un problema. La cosa è della massima importanza per il dottor Jekyll». E fin qui la lettera era abbastanza pacata, ma a questo punto, insieme a uno spruzzo di inchiostro, lo scrivente dava sfogo a tutta la sua angoscia: «Per amor di Dio», aveva aggiunto, «trovatemene un po' di quella vecchia».
«È un biglietto molto strano», disse il signor Utterson; e poi in tono brusco: «Come mai l'hai aperto?».
«Il commesso della ditta Maw era infuriato, signore, e me l'ha tirato dietro come se fosse spazzatura», rispose Poole.
«Questa è sicuramente la calligrafia del dottore; te ne rendi conto?», riprese l'avvocato.
«Mi sembra che le assomigli», disse il domestico con fare scontroso; e poi, con voce ben diversa: «Ma che importanza ha la calligrafia?», disse. «Io l'ho visto!».
«L'hai visto?», fece eco il signor Utterson. «E allora?».
«Ecco», disse Poole, «è andata così. Stavo rientrando dal giardino nell'aula di anatomia, e lui non mi aspettava. Probabilmente era uscito per cercare quella droga, o qualunque cosa essa sia, perché la porta dello studio era aperta e lui era là all'estremità della sala che frugava nelle casse. Quando entrai, alzò lo sguardo, diede una specie di grido e si precipitò su per le scale e poi dentro nello studio. Lo vidi solo per un istante, ma fu sufficiente a farmi rizzare i capelli come gli aculei di un porcospino. Signore, se quello era il mio padrone, perché portava una maschera sulla faccia? Se era il mio padrone, perché si è messo a strillare come un topo ed è fuggito via quando mi ha visto? Sono al suo servizio da molto tempo. E inoltre ...», l'uomo si interruppe e si passò una mano sul volto.
«Sono tutte circostanze molto strane», disse il signor Utterson, «ma credo di cominciare a vederci chiaro. Il tuo padrone, Poole, è chiaramente affetto da una di quelle malattie che torturano e insieme deformano il malato; di qui, per quanto ne so, il cambiamento di voce, il fatto che porti una maschera ed eviti gli amici, che cerchi disperatamente quella droga in cui il poveretto ripone ancora qualche speranza di guarigione.., e Dio voglia che non si illuda! Ecco la mia spiegazione della faccenda, Poole, ed è abbastanza triste e tremenda, se ci si pensa, ma è semplice e naturale, ha una sua logica e ci libera da allarmi ingiustificati».
«Signore», disse il maggiordomo, mentre la sua faccia pallida si chiazzava di rosso, «quella cosa non era il mio padrone, e questa è la verità. Il mio padrone», e qui prese a bisbigliare e a guardarsi attorno, «il mio padrone è un bell'uomo alto, mentre quello era una specie di nano».
Utterson tentò di protestare.
«Ma, signore», gridò Poole, «lei crede che io non conosca il mio padrone dopo venti anni di servizio? che io non sappia a che altezza arriva la sua testa rispetto alla porta dello studio, in cui l'ho visto entrare ogni giorno della mia vita? No, signore, quella cosa con la maschera non era il dottor Jekyll - Dio solo sa cos'era, ma certo non il dottor Jekyll -; e io sono profondamente convinto che è stato commesso un delitto».
«Poole», rispose l'avvocato, «se tu dici così, è mio dovere accertarmene. Per quanto io desideri rispettare i sentimenti del tuo padrone, e per quanto questo biglietto sembri dimostrare che è ancora vivo, considero mio dovere sfondare quella porta».
«Ah, signor Utterson, questo sì che è parlare!», gridò il maggiordomo.
«Ed ora il secondo punto», proseguì Utterson, «chi lo fa?».
«Lei ed io, signore», fu l'intrepida risposta di Poole.
«Ben detto», rispose l'avvocato; «e comunque vada a finire, farò in modo che tu non abbia a rimetterci».
«C'è un'ascia nell'aula di anatomia», proseguì Poole, «e lei può prendere l'attizzatoio in cucina». L'avvocato prese quell'arnese rozzo e pesante e lo soppesò tra le mani. «Te ne rendi conto, Poole», disse alzando gli occhi, «che stiamo per metterci in una situazione piuttosto pericolosa?».
«Può ben dirlo, signore», rispose il maggiordomo.
«Allora è bene che siamo franchi fino in fondo. Noi due non ci siamo detti tutto quello che abbiamo in mente; parliamoci chiaro: quella figura con la maschera che hai visto, l'hai riconosciuta?».
«Ebbene, signore, quell'essere è passato così in fretta ed era così piegato su se stesso che non potrei giurarlo», fu la risposta. «Ma se la domanda è: era il signor Hyde?- beh, sì, credo che fosse proprio lui! Aveva più o meno la stessa corporatura e si muoveva con lo stesso passo leggero e veloce; e poi, chi altro avrebbe potuto entrare dalla porta del laboratorio? Lei non avrà dimenticato, signore, che all'epoca del delitto aveva ancora la chiave. Ma non è tutto. Non so se lei abbia mai incontrato il signor Hyde...
«Sì», disse l'avvocato, «una volta ebbi occasione di parlargli».
«Allora avrà notato, come noi tutti, che c'era qualcosa di strano in quell'uomo, qualcosa che ti colpiva - non so come dire altrimenti - fin dentro le ossa, qualcosa di freddo e penetrante».
«Devo dire che anch'io ho avuto una sensazione simile», disse il signor Utterson.
«Proprio così, signore», riprese Poole. «Be', quando quell'essere con la maschera è saltato fuori come una scimmia in mezzo alle apparecchiature chimiche e si è infilato nello studio, ho sentito un brivido di gelo nella schiena. Oh, so che non è una prova, signor Utterson, lo so bene; ma ciascuno di noi ha una sua sensibilità, e io potrei giurare sulla Bibbia che quello era il signor Hyde!».
«Sì, sì», disse l'avvocato. «Temo anch'io che sia così. Male, null'altro che male poteva nascere da quel legame. Sì, veramente, ti credo; sono convinto che il povero Harry sia stato ucciso e che il suo assassino (Dio solo sa per quale motivo) sia ancora nascosto nello studio della sua vittima. Bene, il nostro motto sarà: vendetta. Chiama Bradshaw».
Il valletto arrivò pallidissimo e nervoso.
«Fatti forza, Bradshaw», disse l'avvocato. «Lo so che questa attesa è logorante, ma ora abbiamo intenzione di porvi fine. Poole ed io forzeremo la porta dello studio. Se tutto è a posto, ho le spalle abbastanza larghe per prendermene la colpa. Ma se qualcosa andasse storto, per impedire che l'eventuale malfattore cerchi di scappare dalla porta posteriore, tu e lo sguattero dovete andare sull'altro lato della casa e mettervi di guardia alla porta del laboratorio con un paio di grossi bastoni. Vi diamo dieci minuti per raggiungere i vostri posti».
Quando Bradshaw se ne fu andato, l'avvocato guardò l'orologio.
«E ora, Poole, andiamo anche noi», disse; e con l'attizzatoio sotto il braccio gli fece strada nel cortile. Le nuvole si erano addensate fino a coprire la luna ed era molto buio. Il vento, che penetrava a folate in quella sorta di pozzo fra le case, faceva vacillare la luce della candela; alla fine arrivarono al riparo nella sala di anatomia e si sedettero silenziosi ad aspettare. Si udiva tutt'intorno il brontolio solenne di Londra, ma, più vicino, il silenzio era rotto dal suono di un passo che andava avanti e indietro sul pavimento dello studio.
«Cammina così tutto il giorno, signore», bisbigliò Poole, «e gran parte della notte. Soltanto quando arriva un nuovo campione di quella sostanza chimica ha un po' di tregua. È la sua cattiva coscienza che gli impedisce di riposare! Ah, signore, per ogni passo che fa, del sangue è stato versato. Ma ascolti bene, un po' più da vicino… ascolti col cuore, signor Utterson, e mi dica se quello è il passo del mio padrone!».
Per quanto lenti, i passi risuonavano leggeri, con una certa cadenza strana, molto diversi dalla camminata pesante e cigolante di Henry Jekyll. Utterson emise un sospiro. «Hai mai sentito qualcos'altro?», domandò.
Poole fece segno di sì. «Una volta», disse, «una volta l'ho sentito piangere».
«Piangere? Come?», disse l'avvocato, e un brivido d'orrore gli raggelò il cuore.
«Piangeva come una donna o come un anima perduta», disse il maggiordomo. «Mi allontanai con un peso sul cuore, tanto che avrei potuto piangere anch'io».
Ormai i dieci minuti erano passati. Poole tirò fuori l'ascia da sotto un mucchio di paglia da imballaggio, misero la candela sul tavolo più vicino perché facesse luce durante l'attacco e si avvicinarono, trattenendo il respiro, là dove quel passo regolare ancora si muoveva avanti e indietro, avanti e indietro nel silenzio della notte.
«Jekyll», gridò Utterson, «chiedo di vederti». Fece una breve pausa ma non gli giunse alcuna risposta. «Voglio essere leale con te: abbiamo dei sospetti e io devo vederti e ti vedrò», proseguì, «con le buone o con le cattive, col tuo consenso o ricorrendo alla forza!».
«Utterson», disse la voce, «in nome di Dio, abbi pietà!».
«Ah, questa non è la voce di Jekyll, è quella di Hyde!», gridò Utterson. «Abbattiamo la porta, Poole!».
Poole roteò l'ascia sopra la spalla; il colpo fece tremare l'edificio, e la porta di panno rosso sussultò sui cardini e contro la serratura. Un grido spaventoso, come di un animale braccato, provenne dallo studio. L'ascia si abbatté un'altra volta, e di nuovo i pannelli della porta si schiantarono e l'intelaiatura sobbalzò. Seguirono altre quattro mazzate, ma il legno era duro e le cerniere robuste, e fu solo al quinto colpo che la serratura cedette andando in mille pezzi e ciò che restava della porta ricadde all'interno sul tappeto.
Atterriti dal loro stesso baccano e dal silenzio che ne era seguito, gli assedianti indietreggiarono un poco cercando di scrutare dentro la stanza. Ai loro occhi apparve lo studio illuminato dalla luce tranquilla di una lampada: un fuoco ardeva scoppiettando nel caminetto, la teiera emetteva il suo sibilo sottile, uno o due cassetti erano aperti, alcune carte ben ordinate erano posate sulla scrivania, e, vicino al fuoco, era pronto l'occorrente per il tè. Si sarebbe detta la camera più tranquilla di Londra, e, se non fosse stato per le vetrine piene di prodotti chimici, anche la più comune.
Proprio in mezzo allo studio giaceva il corpo d'un uomo orrendamente contorto e ancora scosso dagli spasmi. Si avvicinarono in punta di piedi, lo rigirarono sulla schiena e videro la faccia di Edward Hyde. Portava dei vestiti troppo grandi per lui, vestiti della misura del dottore; i muscoli del volto si muovevano ancora in un apparenza di vita, ma la vita se n'era ormai andata. Dalla fiala rotta che teneva in mano e dal forte odore di mandorle che stagnava nell'aria, Utterson comprese di avere di fronte il corpo di un suicida.
«Siamo arrivati troppo tardi», disse con tono severo, «sia per salvare che per punire. Hyde è andato a render conto delle sue azioni; a noi resta solo di trovare il corpo del tuo padrone».
La maggior parte dell'edificio era occupata dalla sala di anatomia, che prendeva quasi tutto il piano terra e riceveva la luce dall'alto, e dallo studio, il quale formava una specie di soppalco e dava sul cortile. Un corridoio portava dalla sala di anatomia alla porta sulla strada secondaria, a cui si poteva arrivare anche dallo studio attraverso una seconda rampa di scale. C'erano inoltre degli stanzini ciechi e una cantina spaziosa. Esaminarono accuratamente tutti questi locali. Per gli stanzini fu sufficiente un'occhiata perché erano completamente vuoti, e dalla polvere che si alzò dalle porte fu facile capire che non venivano aperti da tempo. La cantina, invece, era piena di incredibili cianfrusaglie, la maggior parte delle quali doveva risalire ai tempi del chirurgo che aveva abitato la casa prima di Jekyll; ma, quando ne aprirono la porta, la caduta di un groviglio di ragnatele che da anni ne sigillava l'entrata fece loro comprendere l'inutilità di ogni ulteriore ricerca. Da nessuna parte c'era traccia di Henry Jekyll, vivo o morto che fosse.
Poole si mise a battere i piedi sulle mattonelle del corridoio.
«Deve essere sepolto qui sotto», disse tendendo l'orecchio al suono che ne proveniva.
«Oppure è fuggito», disse Utterson, e si volse a esaminare la porta che dava sulla stradina. Era chiusa, e sul pavimento trovarono la chiave già intaccata dalla ruggine.
«Non sembra che sia stata usata», osservò l'avvocato.
«Usata?», gli fece eco Poole. «Ma non vede che è rotta, signore? Come se qualcuno l'avesse spezzata».
«Ah», continuò Utterson, «anche i due tronconi sono arrugginiti».
I due uomini si scambiarono uno sguardo sgomento. «Questo è troppo per me, Poole», disse l'avvocato. «Torniamo nello studio».
Salirono in silenzio la scala, e quindi, dando una fuggevole occhiata di sgomento al cadavere, procedettero a un esame più accurato di quanto si trovava nello studio. Su un tavolo v'erano tracce di un procedimento chimico: vari mucchietti dosati di un sale bianco erano contenuti in piattini di vetro, come per un esperimento che quell'essere infelice non aveva potuto terminare.
«Questa è la droga che continuavo a portargli», disse Poole; e proprio mentre parlava l'acqua della teiera traboccò provocando un rumore che li fece trasalire.
Si avvicinarono al caminetto a cui era accostata una comoda poltrona, con tutto l'occorrente per il tè a portata di mano di chi vi si fosse seduto, tra cui la tazza già zuccherata. C'erano parecchi libri su uno scaffale ed uno era aperto vicino al vassoio del tè. Utterson rimase sbalordito nel riconoscere in esso la copia di un libro di devozioni per il quale Jekyll aveva più volte espresso grande ammirazione, ma che ora recava annotate con la calligrafia del dottore spaventose bestemmie.
Poi, nel corso della ricognizione della stanza, arrivarono allo specchio su cavalletto, nelle cui profondità guardarono con istintivo orrore. Ma era inclinato in modo tale da riflettere soltanto il bagliore rossastro che danzava sul soffitto, le fiamme che si moltiplicavano all'infinito sui vetri degli armadi, e i loro stessi volti, pallidi e spaventati, che si chinavano a guardare.
«Questo specchio ha visto strane cose, signore», bisbigliò Poole.
«Ma nessuna è più strana della sua presenza qui», gli fece eco l'avvocato nello stesso tono. «Perché mai Jekyll...», s'interruppe con un sussulto a quel nome, ma poi, vincendo quell'istante di debolezza, continuò: «Per quale motivo Jekyll poteva volere uno specchio qui?».
«Me lo chiedo anch'io!», disse Poole.
Poi passarono alla scrivania: sul ripiano, accanto a un'ordinata fila di carte, c'era una grossa busta che recava il nome del signor Utterson di pugno del dottore. L'avvocato ne tolse i sigilli, e parecchi fogli caddero per terra. Il primo era un testamento, redatto negli stessi termini stravaganti di quello che aveva restituito sei mesi prima, il quale doveva attestare le ultime volontà del dottore in caso di morte e servire come atto di donazione in caso di sua scomparsa; ma al posto del nome di Edward Hyde, l'avvocato lesse, con enorme stupore, quello di Gabriel John Utterson. Guardò Poole, poi di nuovo il documento, e infine quel morto scellerato disteso sul tappeto.
«Non mi ci raccapezzo», disse. «L'ha avuto tra le mani per tutti questi giorni; io di certo non gli vado a genio e deve essere andato su tutte le furie nel vedersi soppiantato; eppure non ha distrutto il testamento».
Prese quindi un'altra carta: era un breve biglietto, scritto dal dottore e con la data in cima al foglio. «Oh, Poole!», gridò il legale, «ancor oggi era qui ed era vivo. Non possono averlo fatto sparire in un tempo così breve; dev'essere vivo, dev'essere fuggito! E poi perché è fuggito? E come? E in questo caso, possiamo rischiare di denunciarlo come suicidio? Dobbiamo andar cauti. Temo che potremmo coinvolgere il tuo padrone in qualche terribile sciagura».
«Perché non lo legge, signore?», chiese Poole.
«Perché ho timore di leggerlo», rispose l'avvocato in tono grave. «Dio voglia che non ce ne sia motivo!», E così dicendo avvicinò il foglio e lesse quanto segue:
Mio caro Utterson,
Quando questo foglio ti perverrà, sarò già scomparso: non sono in grado di prevedere in quali circostanze ciò avverrà, ma l'istinto e la situazione innominabile in cui mi trovo mi dicono che la fine è vicina e certa. Vai, dunque, e leggi per primo il memoriale che Lanyon mi disse d'avere affidato alle tue mani; se desidererai saperne di più, leggi le confessioni del tuo indegno e infelice amico,
Henry Jekyll
«C'era un terzo allegato?», chiese Utterson.
«Eccolo, signore», disse Poole, e gli consegnò un plico piuttosto voluminoso e sigillato in parecchi punti.
L'avvocato se lo mise in tasca. «Vorrei che non facessimo parola di questo documento. Se il tuo padrone è fuggito o è morto, potremo almeno salvare la sua reputazione. Sono le dieci. Devo andare a casa a leggere queste carte con calma, ma sarò di ritorno prima di mezzanotte e allora chiameremo la polizia».
Uscirono chiudendo a chiave la porta della sala di anatomia. Lasciando ancora una volta la servitù raccolta intorno al caminetto nel salone d'ingresso, Utterson rientrò stancamente nel suo studio per leggere i due memoriali che gli dovevano svelare il mistero.