Il capitolo
finale del romanzo di Stevenson spiega, attraverso un resoconto completo del
dottor Jekyll, l’intera vicenda: le ragioni degli esperimenti del dottore, i
suoi dilemmi morali derivanti dalla scoperta della propria doppia personalità,
l’euforia provata nelle sembianze del signor Hyde, la decisione di suicidarsi.
Sul “Times”
del 25 gennaio 1886 apparve una recensione anonima del romanzo di Stevenson,
che riporto perché è molto interessante (l’ho trovata nell’edizione tradotta da
Fruttero e Lucentini e pubblicata da Einaudi):
«L’originalissimo
e versatile genio di Stevenson non s’è mai manifestato meglio che in questo
breve romanzo da uno scellino […] Ogni intenditore che l’abbia letto una volta,
non potrà mancare di rileggerlo una seconda. La prima volta infatti lo leggiamo
passando di sorpresa in sorpresa, con una curiosità sempre più inquieta
inquantoché, per quanti sforzi facciamo, non riusciamo a immaginare come di
tanti misteri possa darsi una spiegazione comunque plausibile o intelligibile. Tuttavia
la serietà del tono ci assicura che alla fine questa spiegazione ci sarà, per
cui nella nostra impazienza ci affrettiamo verso la conclusione, dove
effettivamente ogni cosa si spiega, e si spiega su basi addirittura
scientifiche, anche se si una problematica scienza futura. Ed è a questo punto,
usciti dalle nostre ansie, che cominciamo a riflettere sul sistematico rigore
con cui l’autore ha sviluppato il suo intreccio. Neanche per un istante e
neanche nelle situazioni più incredibili, Stevenson ha perso il controllo dei
fatti-base del suo intreccio. Ogni particolare in apparenza più inverosimile o
più insignificante, è stato subordinato dallo scrittore al proprio scopo. […] Né
è il solo intreccio, per straordinario che sia, a intrigarci e affascinarci.
Ben noto per la maestria del suo stile, Stevenson, tuttavia, non aveva mai
ancora raggiunto risultati così alti. Con ciò non vogliamo dire che il libro
sia scritto in un inglese eccellente, il che va da sé, ma che l’autore ha
pesato le sue parole e girato le sue frasi in modo tale, da sostenere ed
eccitare il senso di mistero e di orrore da un capo all’altro della narrazione.»
RELAZIONE COMPLETA DI HENRY
JEKYLL SUL PROPRIO CASO
Sono nato nell'anno 18…, erede di
un grosso patrimonio, dotato di ottime capacità, incline per natura alla
laboriosità, desideroso del rispetto dei buoni e dei saggi, e perciò, come era
facile supporre, con tutte le garanzie possibili di un futuro di onori e di
fama. E davvero il mio peggior difetto era una certa impaziente vivacità di
temperamento, che può aver fatto la felicità di molti, ma che trovavo difficile
conciliare col desiderio irresistibile di andare a testa alta e di tenere un
comportamento estremamente austero di fronte alla gente. Di qui ebbe origine
l'abitudine a celare i miei piaceri, cosicché, quando raggiunsi l'età della
riflessione e cominciai a guardarmi intorno per rendermi conto dei progressi fatti
e della mia posizione nel mondo, mi trovai già coinvolto in una radicata
doppiezza di vita. Molti si sarebbero persino vantati di quelle intemperanze di
cui io mi sentivo colpevole, ma, dati gli alti fini che mi ero proposto, le
tenevo celate con un senso di vergogna quasi morboso. Fu quindi la natura
esigente delle mie aspirazioni, piuttosto che il carattere abbietto delle mie
mancanze, a fare di me quello che divenni e a separare in me, con un solco più
profondo di quanto avvenga nella maggioranza delle persone, quelle sfere del
bene e del male che compongono e insieme dividono la doppia natura dell'uomo.
Proprio per questo ero indotto a
meditare profondamente e ostinatamente su quella dura legge della vita che sta
alla base della religione e che costituisce una delle più frequenti sorgenti di
dolore. Per quanto doppia fosse la mia natura, non ero assolutamente un
ipocrita; i due aspetti della mia personalità erano entrambi in buona fede; e
io ero me stesso sia quando abbandonavo ogni ritegno e sprofondavo nella
vergogna, sia quando, alla luce del giorno, mi adoperavo per promuovere il
sapere o per portare conforto al dolore e alla sofferenza. Accadde che
l'orientamento dei miei studi scientifici, interamente rivolti al mistico e al
trascendentale, ne fosse coinvolto e finisse per gettare una luce più intensa
sulla consapevolezza di una perenne lotta fra le due componenti. Giorno dopo giorno,
con l'aiuto delle due entità del mio spirito, quella morale e quella
intellettuale, mi andai sempre più avvicinando a quella verità la cui parziale
scoperta mi ha condannato a questa rovina totale, e cioè che l'uomo non è
unico, ma duplice. Dico duplice perché il livello delle mie conoscenze non va
al di là di ciò. Altri seguiranno, altri mi supereranno sulla stessa via; io mi
limito a pronosticare che un giorno l'uomo sarà conosciuto come un insieme di
multiformi, incongrue e indipendenti componenti. Da parte mia, dato questo tipo
di esistenza, ho progredito costantemente in un'unica direzione. Ed è stato nel
campo della morale e nella mia stessa persona che ho imparato a riconoscere il
dualismo intrinseco e primordiale dell'uomo. Mi sono reso conto che, se potevo
legittimamente identificarmi sia con l'uno che con l'altro dei due esseri che
lottavano nel campo della mia coscienza, ciò era dovuto al fatto che ero
fondamentalmente entrambi. Da molto tempo, prima ancora che il corso delle mie
scoperte scientifiche avesse cominciato a farmi intravvedere la possibilità di
un tale miracolo, carezzavo l'idea della separazione di questi elementi come un
sogno a occhi aperti. Pensavo che se ciascuno di essi avesse potuto essere
collocato in un'entità separata, allora la vita si sarebbe alleggerita di tutto
ciò che è insopportabile: l'ingiusto avrebbe potuto seguire la propria strada
libero dai rimorsi e dalle aspirazioni del suo più virtuoso gemello; e il
giusto avrebbe potuto procedere tranquillo e sicuro nel cammino verso il bene,
compiendo le buone azioni in cui trovava conforto, senza essere più esposto
alle infamie e ai castighi di un compagno malvagio a lui del tutto estraneo.
Era la maledizione del genere umano che questi incongrui elementi fossero così
strettamente avviluppati... che nel grembo tormentato della coscienza questi gemelli
antitetici dovessero perennemente lottare. Che fare, allora, per separarli?
Ero arrivato a questo punto nelle
mie riflessioni quando, come ho detto, esperimenti di laboratorio cominciarono
a gettare un po' di luce sulla questione. Cominciai a percepire, con una
profondità mai raggiunta prima, la tremula immaterialità, l'indistinta
transitorietà di questo corpo, all'apparenza così solido, che ci portiamo
dietro. Scoprii che alcuni agenti chimici avevano il potere di squassare e
sradicare questo involucro di carne, allo stesso modo in cui il vento spazza le
tende di un padiglione. Non mi addentrerò nell'aspetto scientifico del mio
racconto per due buone ragioni. Innanzi tutto perché ho imparato a mie spese
che il destino e il fardello della nostra vita sono destinati a pesare
eternamente sulle spalle di ognuno di noi e che, quando cerchiamo di
sbarazzarcene, essi ci ripiombano addosso più pesanti e più estranei di prima.
Poi perché le mie scoperte erano incomplete, come risulterà evidente, ahimè, da
questa mia confessione. Sarà sufficiente dire che non solo arrivai a
considerare il mio corpo fisico come mera irradiazione ed emanazione di alcuni
dei poteri che formavano il mio spirito, ma che riuscii a produrre una droga
capace di togliere a questi poteri la loro egemonia, e di sostituirli con altri
a cui si accompagnavano una forma diversa e un nuovo sembiante, per me
altrettanto naturali perché erano l'espressione e portavano il segno degli
elementi più bassi della mia anima.
Esitai a lungo prima di
sottoporre questa teoria alla sperimentazione pratica. Sapevo bene di rischiare
la vita, poiché una droga così potente da tenere sotto controllo e al tempo
stesso capace di scardinare l'identità personale, avrebbe potuto, per un minimo
errore di dosaggio o per una scelta di tempi di somministrazione inopportuna,
distruggere quel tabernacolo immateriale che invece avrebbe dovuto trasformare.
Ma alla fine la tentazione di fare una scoperta straordinaria e fondamentale
ebbe la meglio sugli scrupoli della prudenza. Avevo preparato da tempo il
liquido; comprai da una ditta di prodotti farmaceutici un grosso quantitativo
di un certo sale che sapevo essere, in base agli esperimenti fatti, l'ultimo
ingrediente necessario. E una maledetta sera, a tarda ora, mescolai gli
elementi, li osservai ribollire ed emettere fumo nel bicchiere e, quando l'ebollizione
ebbe termine, trangugiai la pozione in un impeto di coraggio.
Sopravvennero gli spasimi più
atroci: un arrotarsi delle ossa, una nausea mortale, un orrore dello spirito
che nemmeno il momento della nascita o della morte può superare. Poi queste
sofferenze cominciarono rapidamente a diminuire e ritornai in me, come accade dopo
una malattia molto grave. Nelle mie sensazioni c'era qualcosa di strano,
qualcosa di indescrivibilmente nuovo, e, proprio perché nuovo, di infinitamente
dolce. Mi sentivo più giovane, più leggero e più felice nel corpo; dentro di me
avvertivo un'irrequietezza impetuosa, un fluire disordinato di immagini
sensuali che mi percorrevano l'immaginazione come la corrente attraverso le
ruote di un mulino, un disciogliersi di ogni legamento e costrizione, una
libertà dello spirito sconosciuta ma non per questo innocente. Fin dal primo
respiro di questa nuova esistenza mi resi conto di essere più malvagio, dieci volte
più malvagio, di essere lo schiavo del mio male originario. In quel momento
questo pensiero mi inebriò e mi deliziò come una coppa di vino. Stesi le
braccia esultando alla novità di queste sensazioni, e nel compiere il gesto mi
resi improvvisamente conto che ero diminuito di statura.
All'epoca non c'era uno specchio
nel mio studio; quello che ora ho di fronte mentre scrivo fu portato in un
periodo successivo e proprio in funzione di queste trasformazioni. Nel
frattempo la notte stava lasciando il passo al mattino, un mattino che, per
quanto ancora scuro, era quasi maturo per concepire il giorno; gli abitanti
della mia casa erano chiusi nelle loro stanze immersi in un sonno profondo, e
io decisi, nell'eccitazione del trionfo e della speranza, di avventurarmi fino
alla mia camera da letto nel mio nuovo sembiante. Attraversai il cortile, dove
le costellazioni, così mi venne di immaginare, guardarono con meraviglia
quell'essere appartenente a nuova specie che mai avevano visto nelle loro
veglie insonni. Scivolai furtivo lungo i corridoi, estraneo in casa mia, e, arrivato
in camera, vidi per la prima volta le sembianze di Edward Hyde.
A questo punto posso parlare solo
in linea teorica, e raccontare non quel che so, ma quello che ritengo essere
più probabile. Il lato malvagio della mia natura, al quale avevo ora trasferito
il potere di dare la propria impronta, era meno sviluppato e meno forte di quello
buono che avevo appena lasciato. Inoltre, nel corso della mia esistenza, che
tutto sommato era stata per nove decimi una vita di rinunce, di virtù e di
autocontrollo, esso era stato meno utilizzato e meno sfruttato. Ecco il motivo
per cui, suppongo, Hyde era molto più piccolo, sottile e giovane di Henry
Jekyll. E come il bene irradiava dal volto dell'uno, il male era stampato a
chiare lettere sulla faccia dell'altro. Il male inoltre (che tuttora considero
la parte mortale dell'uomo) aveva lasciato in quel corpo un'impronta di deformità
e di decadimento. E tuttavia quando posai lo sguardo su quell'idolo ripugnante riflesso
nello specchio, non provai alcuna repulsione ma piuttosto una sensazione di
gioia.
Anch'egli era parte di me.
Sembrava naturale e umano. Ai miei occhi aveva uno spirito più vivace, appariva
più immediato e più determinato di quell'altro essere, imperfetto e diviso, che
ero abituato a chiamare me stesso. E fin qui avevo perfettamente ragione. Ho
notato che quando assumevo le sembianze di Edward Hyde, nessuno poteva avvicinarmi
senza provare un turbamento istintivo ed evidente. Ritengo che ciò fosse dovuto
al fatto che tutti gli esseri umani che incontriamo sono una mescolanza di bene
e di male: solo Hyde, in tutto il genere umano, era puro male. Indugiai
soltanto per un momento allo specchio; dovevo ancora portare a termine la
seconda e conclusiva parte dell'esperimento. Rimaneva da verificare se avevo perduto
definitivamente la mia personalità e se quindi dovevo fuggire, prima dell'alba,
da una casa che non era più mia. Ritornai di corsa nel mio studio dove preparai
e bevvi la pozione, provando di nuovo gli spasmi della morte, e quando rinvenni
avevo di nuovo la statura, il volto e il carattere di Henry Jekyll.
Quella notte ero arrivato al
bivio fatale. Se mi fossi avvicinato a questa scoperta con una propensione
d'animo più nobile, se avessi tentato l'esperimento sotto l'influenza di generose
e pie aspirazioni, tutto sarebbe stato diverso, e dalle sofferenze della
nascita e della morte sarei rinato angelo anziché demonio. La droga non faceva
discriminazioni, non era né diabolica né divina; si limitava a scardinare le porte
che imprigionavano le mie inclinazioni, e come era accaduto ai prigionieri a
Filippi (1), fuggivano solo quelli che vi erano rinchiusi. A quell'epoca la mia
virtù sonnecchiava, mentre il male, tenuto desto dall'ambizione, stava
all'erta, pronto a cogliere l'occasione favorevole; e ciò che ne emerse fu
Edward Hyde. Pertanto ora possedevo due caratteri e due volti: uno era
totalmente malvagio, e l'altro era il solito vecchio Henry Jekyll, quell'incongruo
miscuglio che ormai non speravo più di modificare e migliorare. La tendenza era
perciò verso il peggio da ogni punto di vista.
A quel tempo non ero ancora
riuscito a superare la mia avversione totale per un'arida esistenza di studio.
Mi sentivo tuttora incline a godermi la vita, e poiché i piaceri a cui mi
abbandonavo erano, per non dire di più, sconvenienti, mentre la gente mi teneva
in grande rispetto e considerazione, questa incoerenza nel modo di vivere mi
divenne sempre più odiosa soprattutto con l'avvicinarsi degli anni della
maturità. E fu sotto questo aspetto che il nuovo potere che avevo acquisito mi
tentò fino a ridurmi suo schiavo. Bastava che bevessi la pozione per liberarmi
del corpo del famoso professore e assumere al suo posto, come un pesante
cappotto, quello di Edward Hyde. L'idea mi faceva sorridere e allora mi
sembrava quasi spiritosa. Feci i preparativi con la massima attenzione.
Acquistai ed arredai la casa di Soho dove sarebbe poi arrivata la polizia alla
ricerca di Hyde, e assunsi come governante una donna che sapevo riservata e
priva di scrupoli. Al tempo stesso avvisai i miei domestici che un certo signor
Hyde (di cui diedi loro la descrizione) avrebbe goduto della massima libertà e
autorità nella casa che dava sulla piazza. E, per evitare equivoci, mi feci
persino vedere nella mia seconda personalità fino a diventare una figura
familiare ai loro occhi. Poi stesi quel testamento a cui tu facesti tante
obiezioni, di modo che, se mi fosse accaduto qualcosa sotto le spoglie del
dottor Jekyll, avrei potuto assumere quelle di Edward Hyde senza rimetterci
economicamente. Prese queste garanzie, cominciai a trarre profitto dalle strane
immunità che la mia posizione mi consentiva.
Un tempo si assoldavano sicari
per compiere delitti, mentre i mandanti tenevano al riparo la loro persona e la
loro reputazione. Io sono stato il primo a fare una cosa analoga esclusivamente
per il proprio piacere. Sono stato il primo a potermi mostrare in pubblico nel
pieno della mia rispettabilità cordiale e un momento dopo, come uno scolaretto,
a strappare di dosso questi prestiti appiccicaticci per tuffarmi a capofitto
nel mare della libertà. Solo per me, avvolto nel mio mantello impenetrabile,
c'era incolumità totale. Non esistevo neanche!... Era sufficiente che infilassi
la porta del laboratorio, mescolassi e trangugiassi in un paio di secondi quel
liquido che tenevo sempre pronto, e, qualunque cosa avesse fatto, Edward Hyde
si dileguava come la traccia dell'alito su uno specchio. E al suo posto, nella
quiete della sua casa, intento a regolare la lampada notturna dello studio, al
di sopra di qualsiasi sospetto, ci sarebbe stato Henry Jekyll.
I piaceri che mi affrettai a
ricercare nel mio travestimento erano, come ho detto, sconvenienti, ma niente
più di questo. Tuttavia, nelle mani di Edward Hyde, essi ben presto
cominciarono a divenire mostruosi. Quando tornavo dalle mie scorribande, rimanevo
a lungo come stupefatto di fronte alla depravazione dell'altro me stesso.
Questo essere familiare che evocavo dal profondo dell'anima e mandavo in giro a
soddisfare i suoi desideri era malvagio e crudele per natura; ogni suo atto e
pensiero erano incentrati su se stesso; traeva piacere con un'avidità
animalesca da ogni forma di sofferenza altrui ed era implacabile come un uomo
di marmo. Talvolta Henry Jekyll rimaneva inorridito di fronte alle azioni di
Edward Hyde, ma la situazione sfuggiva alle leggi ordinarie consentendo un pericoloso
allentamento della coscienza. Dopo tutto, Hyde e solo Hyde era il colpevole. Jekyll
non era peggiore di prima; al risveglio ritrovava le sue buone qualità apparentemente
immutate, e talvolta, quando era possibile, si affrettava persino a rimediare
al male compiuto da Hyde. In tal modo la sua coscienza si assopiva.
Non ho intenzione di elencare
dettagliatamente le infamie di cui fui connivente (ancor oggi ho difficoltà ad
ammettere di averle commesse). Voglio solo indicare gli avvertimenti e le tappe
successive attraverso cui il castigo si andava avvicinando. Un gesto crudele
nei confronti di una bambina suscitò l'indignazione di un passante che l'altro giorno
riconobbi essere tuo parente; a lui si unirono un dottore e la famiglia della bambina.
Ci fu un momento in cui temetti per la mia vita. Alla fine, per sedare il loro giusto
sdegno, Edward Hyde dovette portarli fino alla porta del laboratorio e
risarcirli con un assegno a firma di Henry Jekyll. Successivamente eliminai
questo pericolo aprendo un conto corrente intestato a Edward Hyde presso
un'altra banca. Quando poi, inclinando un po' la mia calligrafia, riuscii ad
attribuire al mio doppio una firma tutta sua, ritenni di non dover temere più
nulla da parte del fato.
Circa due mesi prima
dell'assassinio di Sir Danvers, dopo una delle mie solite scorribande, ritornai
a casa a tarda ora e il mattino seguente mi risvegliai nel mio letto con delle
strane sensazioni. Per quanto mi guardassi intorno e riconoscessi i bei mobili
e le alte pareti della camera che dava sulla piazza, per quanto il disegno
delle cortine del letto e il profilo dell'intelaiatura di mogano fossero quelli
che conoscevo, qualcosa mi diceva insistentemente che non ero là dove credevo
di essere, che non mi ero svegliato dove pensavo, bensì nella stanzetta di Soho
dove avevo l'abitudine di dormire nella persona di Edward Hyde.
Sorrisi di tali sensazioni, e,
pigramente, cominciai, seguendo l'onda dei pensieri, ad analizzare gli elementi
che avevano creato quest'illusione, scivolando di tanto in tanto in un
piacevole dormiveglia mattutino. Ero ancora così assorto quando, in un momento
di maggiore lucidità, lo sguardo mi cadde sulla mano. Ora, la mano di Henry
Jekyll (come tu hai spesso avuto modo di notare) aveva un qualcosa di
professionale per forma e dimensioni: era grande, ferma, bianca e bella. Ma la
mano che vedevo abbandonata e semichiusa sulle coperte, nella luce giallastra
di un mattino londinese, era visibilmente scarna, tutta tendini e nocche,
pallida e scura, ombreggiata da una bruna peluria. Era la mano di Edward Hyde.
Devo essere rimasto a fissarla
per quasi mezzo minuto, completamente sopraffatto da un attonito stupore, prima
che mi prendesse un terrore improvviso e sconvolgente come uno scoppio di cimbali.
Saltai giù dal letto e mi precipitai allo specchio. Ciò che vi vidi riflesso mi
gelò il sangue. Sì, ero andato a letto Henry Jekyll e mi ero svegliato Edward
Hyde. Come si poteva spiegare tutto ciò? Questa fu la domanda che mi posi, seguita
da un'altra che mi fece balzare il cuore in petto: come potevo porvi rimedio?
Era mattino avanzato; i domestici erano alzati; tutti i farmaci erano nel
laboratorio... un tragitto molto lungo dal punto in cui ora mi trovavo: giù per
due rampe di scale, poi il corridoio sul retro, attraverso il cortile fino
all'aula di anatomia. Mi sentivo inorridire al solo pensiero. Avrei potuto
forse coprirmi la faccia, ma a che sarebbe valso se non potevo dissimulare il
cambiamento di statura? Poi mi venne in mente, con enorme sollievo, che i domestici
erano ormai abituati all'andirivieni dell'altro me stesso. Infilai in fretta,
come meglio potevo, gli abiti che erano della mia taglia e attraversai la casa
dove fui notato da Bradshaw, il quale rimase sbalordito nel vedere il signor Hyde
a quell'ora e conciato in quel modo. Dieci minuti più tardi il dottor Jekyll
aveva recuperato le sue fattezze e si sedeva a tavola con aria accigliata
fingendo di far colazione.
In realtà non avevo affatto
appetito. Quell'incidente incomprensibile, quel rovesciamento totale delle mie
precedenti esperienze sembravano tracciare le lettere della mia condanna come
il biblico dito sulla parete di Babilonia (2). Perciò cominciai a riflettere, più
seriamente di quanto in precedenza avessi fatto, sulle possibilità e sulle
conseguenze della mia doppia esistenza. Quella parte di me che ero riuscito a
materializzare si era esercitata e irrobustita negli ultimi tempi: mi sembrava
che il corpo di Hyde fosse aumentato di statura; quando assumevo le sue
fattezze il sangue fluiva più generoso nelle vene. Cominciai a intravvedere il
pericolo per cui, se la cosa si fosse prolungata, l'equilibrio della mia natura
avrebbe potuto saltare, il potere di libera scelta sarebbe andato perduto, e il
carattere di Edward Hyde sarebbe diventato definitivamente il mio. L'effetto
della droga non era stato sempre costante. Una volta, all'inizio, non aveva
dato alcun risultato, e dopo di allora, in più di un'occasione, ero stato
costretto a raddoppiare la dose, e in un caso anche a triplicarla, con alto
rischio di morte. Queste incertezze, per altro rare, avevano gettato un'ombra
sulla mia contentezza. Ora però, alla luce di quanto era accaduto quel mattino,
dovevo constatare che, mentre all'inizio la difficoltà principale era stata di
liberarsi del corpo di Jekyll, negli ultimi tempi, in modo graduale ma netto,
si era andato verificando il fenomeno opposto. Tutto infatti sembrava indicare
che stavo lentamente perdendo la mia identità originaria e migliore e mi stavo
incorporando gradualmente nella seconda e peggiore natura.
Sentivo che dovevo scegliere. Le
mie due nature avevano in comune la memoria, ma tutte le altre facoltà erano
ripartite fra di loro in maniera diseguale. Jekyll (che era un misto delle due)
concepiva e condivideva i piaceri e le avventure di Hyde ora con ansia timorosa,
ora con bramoso entusiasmo; Hyde, invece, era del tutto indifferente nei confronti
di Jekyll, o, tutt'al più, si ricordava di lui come il bandito di montagna
ricorda la caverna in cui va a nascondersi quando è inseguito. Jekyll aveva la
sollecitudine di un padre, Hyde l'indifferenza di un figlio. Scegliere Jekyll
significava reprimere quegli appetiti alla cui soddisfazione mi ero
segretamente abbandonato e nei quali avevo cominciato a indulgere troppo.
Scegliere Hyde voleva dire por fine a innumerevoli interessi e aspirazioni e
diventare, all'istante e per sempre, un essere disprezzato e solitario. La
scelta poteva apparire semplice, ma occorreva mettere sulla bilancia un'altra considerazione,
e cioè che Jekyll avrebbe sofferto cocentemente di questa astinenza imposta,
mentre Hyde non si sarebbe neanche reso conto di quanto avrebbe perduto. Per quanto
strane fossero le circostanze, i termini della controversia sono antichi quanto
la storia dell'uomo. Gli stessi timori e le stesse lusinghe inducono il
peccatore, tremante e, insieme, attratto, a giocare la propria sorte; e, come
succede alla maggior parte dei miei simili, finii anch'io per scegliere la
parte migliore di me, ma non ebbi la forza sufficiente per mantenere questa
scelta.
Sì, la mia preferenza andò
all'anziano dottore, che coltivava oneste speranze e numerose amicizie, e diedi
per sempre un addio alla libertà, alla relativa giovinezza, al passo leggero,
agli impulsi improvvisi e ai piaceri segreti di cui avevo goduto sotto le sembianze
di Hyde. Forse avevo preso questa decisione con qualche inconscia riserva, poiché
né vendetti la casa di Soho né distrussi gli abiti di Hyde che sono ancor oggi
appesi nello studio. Per due mesi, comunque, tenni fede al proposito; per due
mesi condussi una vita estremamente austera quale mai avevo avuto, e assaporai
le soddisfazioni che una coscienza tranquilla può dare. Ma il tempo cominciò ad
affievolire i miei timori più vivi, l'approvazione della coscienza divenne cosa
scontata, desideri e angosce struggenti presero a tormentarmi come se Hyde
stesse lottando per liberarsi, e in un momento di debolezza morale, ancora una
volta mescolai e trangugiai la pozione che mi trasformava.
Non credo che quando un ubriacone
ragiona con se stesso sul suo vizio sia minimamente impressionato dai rischi
cui va incontro per la sua bestiale insensibilità; così anch'io, per quanto
esaminassi la situazione, non tenevo in sufficiente conto la totale insensibilità
morale e la facilità a commettere crimini che erano i tratti essenziali di Edward
Hyde. Eppure fu proprio così che fui punito. Il mio demone, che era stato imprigionato
troppo a lungo, balzò fuori mugghiando. Già mentre bevevo la pozione ebbi la
consapevolezza di una propensione verso il male più sfrenata e selvaggia. Deve
essere stato questo, suppongo, a scatenare nel mio animo l'impazienza violenta
con cui ascoltai le parole cortesi della mia infelice vittima. Voglio almeno
dichiarare di fronte a Dio che nessun uomo moralmente sano avrebbe potuto
commettere un tale delitto dietro una provocazione del tutto inesistente, e che
colpii in uno stato d'animo non meno irrazionale di quello di un bimbo malato
che rompe un giocattolo. Ma, per mia volontà, mi ero spogliato di tutti quei
freni inibitori che consentono anche al peggiore fra noi di procedere con una
certa fermezza tra le tentazioni. Nel mio caso, essere tentato significava
cadere.
Subito lo spirito demoniaco si
risvegliò in me e imperversò. In un impeto di follia straziai quel corpo che
non opponeva resistenza, assaporando la gioia di ogni colpo, e solo quando
subentrò la stanchezza, improvvisamente, nel parossismo del delirio, il mio
cuore fu trafitto da una gelida morsa di terrore. La nebbia si disperse; mi
resi conto d'essermi giocato l'esistenza e fuggii da quella scena di infamie,
esultando e tremando al tempo stesso, appagato ed eccitato nella bramosia di
male, più che mai desideroso di vivere. Corsi alla casa di Soho, e, per maggior
sicurezza, distrussi le mie carte; dopo di che mi inoltrai per le strade
illuminate immerso nella stessa combattuta estasi, esultando del delitto
commesso e immaginandone degli altri, e al tempo stesso andando di gran fretta
e con l'orecchio pronto a cogliere il passo vendicatore. Mentre mescolava la
pozione Hyde canterellò una canzone e quando la bevve brindò al morto. Gli
spasmi della trasformazione non avevano ancora finito di straziarlo, che Henry
Jekyll, versando lacrime di rimorso e di gratitudine, cadeva in ginocchio e
alzava a Dio le mani giunte.
Il velo dell'indulgenza verso me
stesso era strappato da cima a fondo: rividi l'intero corso della mia vita, da
quando, bambino, camminavo dando la mano a mio padre, poi attraverso le fatiche
e le abnegazioni della mia vita professionale, fino a ritornare, con la stessa
sensazione di irrealtà, agli orrori indicibili di quella notte. Mi sarei messo
a gridare come un pazzo; cercai di cancellare con preghiere e lacrime l'odiosa
folla di immagini e suoni con cui la memoria mi assediava; e tuttavia, in mezzo
alle suppliche, il volto orribile della mia iniquità mi trafiggeva l'anima. Man
mano che questo cocente rimorso si andò affievolendo, subentrò come un senso di
gioia. Il problema della mia condotta futura era risolto. Hyde non poteva più
esistere; che lo volessi o meno, ero ormai obbligato alla parte migliore della
mia esistenza. Oh, come ne gioii al solo pensiero! Con quale spontanea umiltà
abbracciai le limitazioni di una vita secondo le leggi di natura! Con quale
sincero spirito di rinuncia sprangai la porta dalla quale ero uscito e
rientrato tante volte e ne spezzai la chiave sotto il tacco! Il giorno seguente
si diffuse la notizia che il delitto era stato scoperto, che la colpevolezza di
Hyde era evidente, e che la vittima era una persona della massima stima. Non
era stato solo un crimine, ma un gesto di tragica follia. Credo di essere stato
felice nell'apprenderlo e nel constatare che i miei impulsi migliori sarebbero stati
in tal modo rafforzati e salvaguardati dal terrore della forca. Jekyll era ora
il mio unico rifugio. Se solo Hyde si fosse fatto vedere, le mani di tutti si
sarebbero alzate per acciuffarlo e ammazzarlo.
Decisi che la mia condotta futura
avrebbe redento il passato, e in tutta onestà posso dire che la mia decisione
diede qualche frutto. Tu stesso hai visto con quale impegno, negli ultimi mesi
dello scorso anno, mi sono sforzato di alleviare le sofferenze altrui; tu sai quanto
ho fatto per gli altri, e che ho trascorso quei giorni nella quiete e quasi in
letizia. Né posso dire di essermi stancato di questa vita caritatevole e
innocente; credo, al contrario, di averla gustata ogni giorno di più. Ma
portavo tuttora in me la maledizione di una doppia personalità; e mentre la
forza del mio pentimento cominciava ad attenuarsi, la parte peggiore di me,
così a lungo assecondata e così recentemente messa alla catena, prese a ringhiare.
Non che io avessi intenzione di resuscitare Hyde; il solo pensiero mi avrebbe fatto
impazzire; no, ero io stesso, nella mia stessa persona, che ancora una volta
ero tentato di scherzare con la coscienza; e, come accade a coloro che peccano
in segreto, alla fine caddi di fronte all'assalto delle tentazioni.
C'è una fine per ogni cosa; la
più capace delle misure viene presto o tardi colmata; e questa breve
condiscendenza al male finì per distruggere l'equilibrio della mia anima.
Eppure non ero spaventato; la caduta mi sembrò naturale, come un ritorno ai
vecchi tempi prima della fatale scoperta. Era una bella e limpida giornata di
gennaio, con il selciato bagnato là dove il gelo si era disciolto, ma senza
nubi in cielo; Regent Park risuonava di cinguettii invernali e odorava di
profumi di primavera. Mi ero seduto su una panca al sole; la bestia che era
dentro di me covava frammenti di ricordi, mentre la parte spirituale sonnecchiava,
ripromettendosi future penitenze ma senza alcuna volontà di darvi inizio. Dopo
tutto, riflettevo, ero come tutti gli altri; e mi venne da sorridere
paragonando me stesso agli altri uomini, confrontando la mia volontà di fare
del bene con la pigra crudeltà della loro indifferenza. Proprio nel momento in
cui formulavo questo vanaglorioso pensiero, fui colto da uno spasmo improvviso,
da una nausea terribile e da un tremore mortale. Poi tutto passò, lasciandomi
in uno stato di totale spossatezza, e quando anch'essa cominciò a dileguarsi,
ebbi la consapevolezza che l'indole dei miei pensieri andava mutando in una
sfrontatezza più ribalda, nello sprezzo del pericolo, nel ripudio del senso del
dovere. Mi guardai: i vestiti pendevano informi sul mio corpo rattrappito, la mano
che posava sul ginocchio era pelosa e nocchiuta. Ancora una volta ero diventato
Edward Hyde. Un momento prima ero al sicuro, rispettato da tutti, ricco,
amato... la tavola pronta nella sala da pranzo, a casa mia; e adesso non ero
che una preda di caccia, un essere braccato, senza casa, conosciuto da tutti
come un assassino, destinato alla forca. La ragione vacillò, ma non mi
abbandonò del tutto. Più di una volta ho notato che in quella seconda natura le
mie facoltà sembravano acuirsi e la mente diventare più agile, di modo che, là dove
Jekyll avrebbe forse potuto soccombere, Hyde sapeva far fronte alla situazione.
Gli ingredienti chimici erano in uno degli armadietti dello studio: come potevo
procurarmeli? Con la testa fra le mani tentai di risolvere il problema. La
porta del laboratorio l'avevo chiusa a chiave io stesso. Se avessi cercato di
entrare dalla porta principale i domestici mi avrebbero sicuramente consegnato
al boia. Mi resi conto che dovevo servirmi di una terza persona e mi venne in
mente Lanyon. Ma come potevo raggiungerlo? E come persuaderlo? Anche supponendo
di non essere catturato per strada, come potevo farmi ricevere? E in che modo
avrei potuto convincere, io visitatore sconosciuto e importuno, il famoso
medico a rovistare nello studio del suo collega, dottor Jekyll? Mi venne allora
in mente che qualcosa mi era rimasto della mia personalità originaria: la
calligrafia. E una volta che questa scintilla fu scoccata, mi si illuminò tutto
il percorso che avrei dovuto seguire da cima a fondo.
Mi sistemai alla meglio gli
abiti, presi una carrozza di passaggio e mi feci portare a un albergo di
Portland Street di cui ricordavo il nome. Quando mi vide (dovevo avere un aspetto
piuttosto buffo, nonostante il tragico destino che mi portavo addosso) il
vetturino non riuscì a trattenere il riso. Gli mostrai i denti in un impeto di
furia demoniaca, e immediatamente il sorriso svanì dal suo volto:
fortunatamente per lui ma ancor più per me, perché ero pronto a scaraventarlo
giù di cassetta. Quando entrai nell'albergo mi guardai intorno con un'aria così
truce che gli inservienti si misero a tremare incapaci di scambiarsi
un'occhiata; presero i miei ordini con atteggiamento ossequiente, mi accompagnarono
in una saletta privata e mi portarono l'occorrente per scrivere. Questo Hyde
che si trovava in pericolo di vita mi appariva un essere totalmente nuovo:
scosso da una furia insensata, eccitato fino al delitto, bramoso di infliggere
sofferenze. Eppure era furbo: riuscì a controllare la collera con grande sforzo
di volontà e a stendere le due lettere decisive, una a Lanyon e l'altra a
Poole, che poi, per essere sicuro che fossero impostate, ordinò di spedire per
raccomandata.
Da quel momento in poi, si mise a
sedere accanto al caminetto dove rimase tutto il giorno a rodersi le unghie;
qui cenò, in compagnia delle proprie paure, mentre il cameriere tremava
visibilmente sotto il suo sguardo, e di qui si allontanò a notte inoltrata raggomitolato
nell'angolo di una carrozza chiusa, facendosi trasportare per le vie della città.
Parlo in terza persona... non posso fare diversamente. Quel figlio del demonio
non aveva nulla di umano, in lui sopravvivevano solo terrore e odio. E quando
alla fine, temendo che il conducente cominciasse a insospettirsi, abbandonò la
carrozza e si avventurò a piedi fra i passanti notturni, oggetto di curiosità a
causa dello strano abbigliamento, queste due basse passioni infuriarono dentro
di lui come un uragano. Camminava veloce, perseguitato dalle sue stesse paure,
borbottando fra sé e sé, sgattaiolando lungo le vie meno frequentate, contando
i minuti che ancora lo separavano dalla mezzanotte. Una donna gli rivolse la
parola per offrirgli, credo, una scatola di fiammiferi. Lui la colpì in volto
ed ella fuggì.
Quando ritornai in me a casa di
Lanyon, l'orrore del mio vecchio amico mi causò un certo turbamento. Non so
bene, ma certo non era che una goccia nel mare, a confronto della ripugnanza
che provavo ripensando alle ore passate. C'era stato un cambiamento in me: ciò
che mi torturava non era più il timore del patibolo, ma il ribrezzo di essere
Hyde. Accolsi le parole di condanna di Lanyon come in sogno, e come in un sogno
tornai a casa e andai a letto. Dopo la prostrazione di quella giornata caddi in
un sonno così profondo e totale che neppure gli incubi che mi torturavano
riuscirono a interromperlo. Il mattino dopo mi risvegliai turbato e indebolito
ma più fresco. Provavo ancora odio e terrore per la bestia che si annidava in
me e non avevo certo dimenticato i tremendi pericoli del giorno precedente; ma
ero di nuovo a casa mia con la droga a portata di mano, e la riconoscenza per
lo scampato pericolo irradiava dalla mia anima fin quasi a eguagliare la luce
della speranza.
Stavo tranquillamente
passeggiando in cortile poco dopo colazione, assaporando la fresca aria del
mattino, quando fui colto di nuovo da quelle indescrivibili sensazioni che preannunciavano
la metamorfosi. Feci appena in tempo a rifugiarmi nello studio che fui di nuovo
straziato e agghiacciato dai deliri di Hyde. Ci volle una dose doppia questa
volta per ritornare me stesso, e, ahimè, sei ore dopo, mentre me ne stavo
tristemente seduto a guardare il fuoco, gli spasimi insorsero di nuovo e
dovetti riprendere la pozione. In poche parole, da quel giorno in poi riuscii a
mantenere le sembianze di Jekyll solo attraverso un grande sforzo fisico e la
continua somministrazione della droga. In qualunque momento del giorno o della
notte mi poteva accadere di essere colto dal brivido premonitore, e soprattutto
se mi addormentavo o sonnecchiavo anche per poco in poltrona, ero sicuro di risvegliarmi
con le fattezze di Hyde. Sotto la tensione che mi causava questa maledizione incombente
e in conseguenza della veglia continua a cui mi costringevo, ben al di là di quanto
credevo possibile a creatura umana, mi ridussi a un povero essere consumato e svuotato
dalla febbre, debole e infiacchito nel corpo e nella mente, ossessionato da un unico
pensiero: l'orrore dell'altro me stesso. Ma quando dormivo o quando l'effetto
della droga si esauriva, senza quasi accorgermi (poiché gli spasimi della
metamorfosi divenivano giorno dopo giorno meno acuti), cadevo preda di una
fantasia gremita di immagini terrificanti, di un animo ribollente di odi
immotivati, di un corpo incapace di contenere le impetuose energie vitali. La
forza di Hyde sembrava accrescersi con l'indebolimento progressivo di Jekyll. E
senza dubbio l'odio che ormai li separava era sentito da entrambi in uguale
misura. Per Jekyll si trattava di istinto di conservazione. Ormai conosceva la
mostruosità dell'essere con cui condivideva alcuni fenomeni della vita cosciente
e di cui sarebbe stato compagno nella morte; e al di là di questi comuni
legami, che di per sé stessi costituivano l'aspetto più orribile della sua
disperazione, concepiva Hyde, nonostante tutta la sua energia vitale, come un
fenomeno inorganico oltre che come una creatura demoniaca. Ed era proprio
questa la cosa più sconvolgente: che la melma della fogna potesse gridare e
parlare, che l'amorfa polvere fosse in grado di gesticolare e commettere
peccati, che ciò che era morte e non possedeva forma potesse usurpare le funzioni
della vita. E ancora: che quell'essere orrendo e ribelle gli fosse avvinto più
di una moglie, parte di sé quanto un occhio, imprigionato nella sua stessa
carne dove lo sentiva brontolare e agitarsi nel tentativo di venire alla luce;
che in ogni momento di debolezza e nell'abbandono del sonno potesse prevalere
su di lui e sottrargli la vita. Di diverso genere era l'odio che Hyde provava
per Jekyll. Il terrore del patibolo lo spingeva continuamente a commettere
temporanei suicidi e a ritornare al suo ruolo subordinato anziché assumere quello
di attore principale. Ma detestava questa condizione imposta, detestava la prostrazione
in cui Jekyll era caduto, e male sopportava l'antipatia con cui veniva
trattato. Mi faceva degli scherzi atroci, degni di una scimmia, scarabocchiando
frasi blasfeme sui miei libri in una calligrafia molto simile alla mia,
bruciando le mie lettere e fracassando il ritratto di mio padre. Se non fosse
stato per il timore della morte, avrebbe finito per distruggersi pur di
coinvolgermi nella rovina. Ma il suo amore per la vita è eccezionale; dirò di
più: io stesso, che sento solo disgusto e gelido odio nei suoi confronti,
quando penso al suo attaccamento infame e appassionato e al terrore che gli
provoca il solo pensiero che io possa sopprimerlo con il suicidio, provo quasi
pietà in fondo al mio cuore.
Mi sembra inutile, e me ne manca
il tempo, prolungare oltre questa relazione. Posso solo dire che nessuno ha
provato simili tormenti; e pur tuttavia anche in questa tortura l'abitudine ha
arrecato... no, non sollievo.., ma una certa assuefazione dell'anima, una certa
acquiescenza alla disperazione. E se non fosse per l'ultima sventura che mi è
toccata e che mi ha separato per sempre dal mio volto e dalla mia natura, il
castigo avrebbe potuto protrarsi per anni. La mia provvista di sali, che non
era mai stata rinnovata dal giorno del primo esperimento, cominciò
progressivamente a ridursi. Mandai a prenderne dell'altro e mescolai la
pozione: seguì l'ebollizione e il primo mutamento di colore, ma non il secondo.
La bevvi e non diede alcun effetto. Saprai da Poole come abbia invano fatto
rovistare tutta Londra. Ora sono convinto che la mia prima provvista era impura
e che è stata quella impurità sconosciuta a dare efficacia alla pozione.
È passata ormai una settimana e
sto terminando questa dichiarazione sotto l'effetto di quel poco che è rimasto
della vecchia polvere. A meno di un miracolo, quindi, questa è l'ultima volta
in cui Henry Jekyll può formulare i propri pensieri o vedere la propria faccia (ahimè
quanto mutata!) nello specchio. Non posso indugiare troppo nel portare a
termine la relazione, perché, se finora è scampata alla distruzione, è stato
solo grazie a una grande prudenza e alla fortuna. Se gli spasimi della
metamorfosi dovessero cogliermi mentre scrivo, Hyde la farebbe a pezzi. Se
invece passerà un certo lasso di tempo dopo che l'avrò riposta, il suo
straordinario egoismo e la sua attenzione esclusiva per l'attimo fuggente forse
salveranno il mio racconto dai suoi scherzi scimmieschi. In realtà la
maledizione che sta per chiudersi su di noi lo ha già distrutto e mutato. Fra
mezz'ora, quando avrò riassunto per l'ultima e definitiva volta la sua odiosa
identità, so già che me ne starò seduto sulla sedia a piagnucolare e battere i
denti, o continuerò, in un parossismo di terrore e di tensione, a camminare
avanti e indietro per questa stanza (il mio ultimo rifugio terreno) tendendo
l'orecchio a ogni suono minaccioso. Hyde morirà sul patibolo? O troverà il
coraggio di por fine alla sua vita all'ultimo momento? Lo sa solo Dio. La cosa non
mi interessa. Il vero momento della mia morte è questo; quello che succederà
dopo non riguarda me, ma un altro. E così, nel momento stesso in cui depongo la
penna e mi accingo a sigillare la mia confessione, metto fine alla vita
dell'infelice Henry Jekyll.
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(1) Il riferimento non è chiaro.
Plutarco e Svetonio raccontano diverse storie di prigionieri a Filippi, e
Shakespeare riprende quella dei soldati che credono di aver fatto prigioniero
Bruto, mentre questo è fuggito e al suo posto s’è lasciato catturare Lucilio.
Ma nessuna di queste storie sembra adattarsi al caso [nota di Fruttero e Lucentini nell’edizione già citata].
(2) Allusione all’episodio
biblico (Daniele, 5) in cui
Baldassarre re dei Caldei, mentre è a banchetto, vede una mano (più
precisamente: «un pezzo di mano») tracciare sul muro le parole Mane Thecel Phares che presagiscono la
sua fine. L’episodio, col «pezzo di mano» che esce da una specie di nebbia e il
dito che traccia le lettere, è raffigurato in un grande quadro di Rembrandt ora
alla National Gallery di Londra [come
sopra].
Spencer Tracy come dottor Jekyll (a sinistra) e come signor Hyde nel
film di Victor Fleming del 1941
Il dipinto di Rembrandt “Festino di Baldassarre” che narra un episodio
biblico a cui Stevenson fa riferimento in questo capitolo del suo romanzo