Questa novella, pubblicata
nel 1882 nella “Domenica Letteraria” e poi nel 1883 nella raccolta “Novelle
rusticane”, racconta l’episodio storico dell’eccidio di Bronte, un paesino
sulle pendici dell’Etna. Siamo nell’agosto del 1860, durante la spedizione dei
Mille; l’avanzata garibaldina suscita nella popolazione siciliana una voglia di
riscossa dalla miseria e di libertà dal governo borbonico e dai latifondisti
che l’appoggiano, che si tramuta in una insurrezione sanguinosa. Nino Bixio,
generale di Garibaldi, arriva nel paese a riportare l’ordine e fare giustizia;
come prima cosa istituisce un “tribunale di guerra”, che sbrigativamente
decreta la morte per le teste calde della sollevazione. Poi, altri ribelli
verranno condotti in prigione e processati negli anni a venire, quando il Regno
d’Italia è già nato: saranno condannati senza nemmeno riuscire a capire il
perché. La libertà che essi avevano immaginato, si rivela un’illusione.
Nel 1972 il regista Florestano
Vancini diresse un film, “Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia
non hanno raccontato”, ispirato agli stessi fatti raccontati da Verga nella
novella.
Sciorinarono
dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono
a gridare in piazza: «Viva la libertà!».
Come
il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini
(1), davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette
bianche (2); le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una
stradicciuola.
-
A te prima, barone! che hai fatto nerbare (3) la gente dai tuoi campieri (4)! -
Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata
soltanto delle unghie. - A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l'anima!
- A te, ricco epulone (5), che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del
sangue del povero! - A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non
aveva niente! - A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del
prossimo per due tarì al giorno!
E
il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto
rosso di sangue! - Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza!
ammazza! Addosso ai cappelli!
Don
(6) Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece
cascare colla faccia insanguinata contro il marciapiede. - Perché? perché mi
ammazzate? - Anche tu! al diavolo! – Un monello sciancato raccattò il cappello
bisunto e ci sputò dentro. - Abbasso i cappelli! Viva la libertà! - Te'! tu
pure! - al reverendo che predicava l'inferno per chi rubava il pane. Egli
tornava dal dir messa, coll'ostia consacrata nel pancione. - Non mi ammazzate,
ché sono in peccato mortale! - La gnà (7) Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia
che il padre gli aveva venduta a 14 anni, l'inverno della fame, e rimpieva la
Ruota (8) e le strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa
a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli
usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure. Anche il lupo
allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e
sgozza dalla rabbia. - Il figliuolo della Signora, che era accorso per vedere
cosa fosse - lo speziale (9), nel mentre chiudeva in fretta e in furia - don
Paolo, il quale tornava dalla vigna a cavallo del somarello, colle bisacce
magre in groppa. Pure teneva in capo un berrettino vecchio che la sua ragazza
gli aveva ricamato tempo fa, quando il male non aveva ancora colpito la vigna.
Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone, mentre aspettava coi cinque
figliuoli la scarsa minestra che era nelle bisacce del marito. - Paolo! Paolo!
- Il primo lo colse nella spalla con un colpo di scure. Un altro gli fu addosso
colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava col braccio sanguinante al
martello (10).
Ma
il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici
anni, biondo come l'oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era
rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio,
gridandogli: - Neddu! Neddu! (11) -
Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter
gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch'esso su di un ginocchio come suo padre;
il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e
glie l'aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle
mani. – Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; - strappava
il cuore! - Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle
due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant'anni - e tremava
come una foglia. - Un altro gridò: - Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!
-
Non
importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare
tutto il resto. Tutti! tutti i cappelli! - Non era più la fame, le
bastonate, le soperchierie (12) che facevano ribollire la collera. Era il
sangue innocente. Le donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando
l'ira in falsetto, colle carni tenere sotto i brindelli delle vesti. - Tu che
venivi a pregare il buon Dio colla veste di seta! - Tu che avevi a schifo
d'inginocchiarti accanto alla povera gente! - Te'! Te'! - Nelle case, su per le
scale, dentro le alcove, lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle
facce insanguinate! e quanti anelli d'oro nelle mani che cercavano di parare i
colpi di scure!
La
baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti
piene, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la
pelle. La folla chinava il capo alle schioppettate, perché non aveva armi da
rispondere. Prima c'era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. - Viva la
libertà! - E sfondarono il portone. Poi nella corte, sulla gradinata,
scavalcando i feriti. Lasciarono stare i campieri. - I campieri dopo! - Prima
volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono.
Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata - e le
stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi
come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora colle carni
bianche anch'esso, puntellava l'uscio colle sue mani tremanti, gridando: - Mamà!
mamà! - Al primo urto gli rovesciarono l'uscio addosso. Egli si afferrava alle
gambe che lo calpestavano. Non gridava più. Sua madre s'era rifugiata nel
balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano
perché non gridasse, pazza. L'altro figliolo voleva difenderla col suo corpo,
stralunato, quasi avesse avuto cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle
scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per i
fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il
carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante. L'altro fratello non
vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano
le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano che lo stringeva
alla gola e non la lasciava più. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e
luccicavano in aria.
E
in quel carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi
della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a
sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi. Cominciavano
a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il
compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa
vegliava il lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani,
frugando per i canti (13), con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna
che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case
deserte.
Aggiornava;
una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il sagrestano s'era rintanato;
di preti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a far capannello sul
sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando a quel che doveva
avere sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono in molti, si diedero a
mormorare. - Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica, come i
cani! - Il casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva dove andare
a prendere gli ordini dei padroni per la settimana. Dal campanile penzolava
sempre il fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio.
E
come l'ombra s'impiccioliva lentamente sul sagrato, la folla si ammassava tutta
in un canto. Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che
scendeva a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi
cupi sui fianchi dell'Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi.
Ciascuno fra sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua
parte, e guardava in cagnesco il vicino.
-
Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti! - Quel Nino Bestia, e quel
Ramurazzo, avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei cappelli! -
Se non c'era più il perito per misurare la terra, e il notaio per metterla
sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa! (14) - E se tu ti mangi la
tua parte all'osteria, dopo bisogna tornare a spartire da capo? - Ladro tu e ladro
io -. Ora che c'era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la
sua festa come quella dei galantuomini! - Il taglialegna brandiva in
aria la mano quasi ci avesse ancora la scure.
Il
giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale (15), quello che
faceva tremare la gente. Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire
lentamente per il burrone, verso il paesetto, sarebbe bastato rotolare
dall'alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano
e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe,
stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti
stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il
suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo.
Il
generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi
ragazzi come un padre. La mattina, prima dell'alba, se non si levavano al suono
della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco.
Questo era l'uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo,
il nano, Pizzanello, i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano
inginocchiare addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe
parole che gli aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato
quando glie lo strapparono dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze più remote
del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schioppettate in fila come i
mortaletti della festa.
Dopo
arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati
sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo
mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco
sulla scranna (16), e dicendo ahi! ogni volta che mutavano lato. Un processo
lungo che non finiva più. I colpevoli li condussero in città, a piedi,
incatenati a coppia, fra due file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne
li seguivano correndo per le lunghe strade di campagna, in mezzo ai solchi, in
mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in mezzo alle biade color d'oro,
trafelate, zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada faceva
gomito, e si potevano vedere in faccia i prigionieri. Alla città li chiusero
nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre
colle inferriate; e se le donne volevano vedere i loro uomini, soltanto il
lunedì, in presenza dei guardiani, dietro il cancello di ferro. E i poveretti
divenivano sempre più gialli in quell'ombra perenne, senza scorgere mai il
sole. Ogni lunedì erano più taciturni, rispondevano appena, si lagnavano meno.
Gli altri giorni, se le donne ronzavano per la piazza attorno alla prigione, le
sentinelle minacciavano col fucile. Poi non sapere che fare, dove trovare
lavoro nella città, né come buscarsi il pane. Il letto nello stallazzo (17) costava
due soldi; il pane bianco si mangiava in un boccone e non riempiva lo stomaco;
se si accoccolavano a passare una notte sull'uscio di una chiesa, le guardie le
arrestavano. A poco a poco rimpatriarono, prima le mogli, poi le mamme. Un bel
pezzo di giovanotta si perdette nella città e non se ne seppe più nulla. Tutti
gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini
non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente
non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. L'orfano dello
speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per
vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che aveva di
tanto in tanto certe ubbie (18), e temeva che suo marito le tagliasse la
faccia, all'uscire dal carcere, egli ripeteva: - Sta tranquilla che non ne esce
più. - Ormai nessuno ci pensava; solamente qualche madre, qualche vecchiarello,
se gli correvano gli occhi verso la pianura, dove era la città, o la domenica,
al vedere gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari coi galantuomini,
dinanzi al casino di conversazione, col berretto in mano, e si persuadevano che
all'aria ci vanno i cenci (19).
Il
processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il
sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta
che li conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano
accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per
vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia - ché capponi (20)
davvero si diventava là dentro! e Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio (21) quello
dello speziale, che s'era imparentato a tradimento con lui!
Li
facevano alzare in piedi ad uno ad uno. - Voi come vi chiamate? - E ciascuno si
sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano,
fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano
la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci
su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro
occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini,
stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano
fra di loro. Certo si dicevano che l'avevano scappata bella a non essere stati
dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E
quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a
confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi
fissi su quell'uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava
colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: -
Sul mio onore e sulla mia coscienza!...
Il
carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: - Dove mi
conducete? In galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se
avevano detto che c'era la libertà!...
(1)
Casino dei galantuomini = luogo di ritrovo per i signori, sia nobili sia
borghesi. Più avanti sono indicati con l’appellativo di cappelli, poiché abitualmente
indossavano un cappello di feltro.
(2)
Berrette bianche = sono i contadini, che usavano solitamente un copricapo
piatto e bianco.(3) Nerbare = frustare con il nerbo, ottenuto intrecciando, dopo averli essiccati, tendini bovini.
(4) Campieri = sorveglianti dei lavori agricoli, custodi dei campi e del bestiame, stipendiati dal proprietario terriero.
(5) Epulone = persona smodata nel mangiare.
(6) Don = signore. È l’appellativo che solitamente veniva premesso al nome dei nobili e dei padroni in Sicilia e nell’Italia meridionale.
(7) Gnà = signora, secondo l’abbreviazione del dialetto siciliano.
(8) Ruota = qui significa orfanotrofio. Negli antichi ricoveri per trovatelli, infatti, esisteva una cassetta che, ruotando su un perno in una apertura nel muro, permetteva di ricevere dall’esterno i bambini abbandonati senza che venisse riconosciuto chi compiva quell’atto.
(9) Speziale = farmacista.
(10) Martello = il batacchio del portone d’ingresso.
(11) Neddu = diminutivo di Sebastiano
(12) Soperchierie = prepotenze, soprusi.
(13) Canti = angoli.
(14) A riffa e a raffa = a proprio piacimento, arraffando a destra e a manca.
(15) Il generale = Nino Bixio.
(16) Scranna = sedia.
(17) Stallazzo = luogo di ricovero per i cavalli, talvolta utilizzato per ospitare temporaneamente persone prive di altra sistemazione.
(18) Ubbie = scrupoli.
(19) All’aria ci vanno i cenci = chi paga realmente le conseguenze dei fatti della vita è sempre il povero.
(20) Capponi = galletti castrati perché ingrassino meglio e più in fretta; qui intende gli uomini che, essendo in galera, non hanno modo di sfogare le proprie pulsioni sessuali con una donna.
(21) Mostaccio = muso.
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