Capitolo
tutto dedicato ai famigliari di Meneghello: memorabili figure di antenati, nonni,
zii, zie, cugini, descritti con tocchi spesso rapidi ma fulminanti. Se ne
potrebbe fare un uso proficuo in una classe di scuola media, anche per far
capire il trasporto umano che l’autore ha messo in queste descrizioni. Del resto,
in una “Avvertenza” scritta per l’edizione del 1975, Meneghello ha annotato che
«la mia materia erano le cose del
paese, e tra le persone individuali,
solo quelle che mi sono care o simpatiche. Le altre è inutile che si cerchino
in queste pagine: non ci sono».
La Chiesa parrocchiale è stata
rifatta nel secolo scorso, ma il campanile è ancora quello di una volta.
Davanti alla Canonica c’è la vecchia Cavallerizza, più in là l’asilo infantile.
Siamo ora in Cantarane, e la strada continua verso il Ponte per antonomasia,
dalla parte di Priabona, con l’osteria che chiude il paese. Dietro a destra c’è
il cimitero. In cimitero si può abbracciare con uno sguardo la misura di questa
comunità. Si gira fra le tombe riconoscendo i nomi e le facce nei piccoli
ritratti smaltati, confrontando le date.
È come passeggiare in mezzo a una
folla di conoscenti: la storia recente del paese, e una parte di quella più
remota, è riassunta per capisaldi su queste lapidi. Di qualcuno non mi ricordo
più molto bene, ma loro mi conoscevano tutti, almeno sapevano di che famiglia
sono. Come diceva a Gaetano quel vecchietto che indovinò chi era, un giorno in
un’osteria quassù a Priabona, «I Meneghello sono come i cinesi, tutti compagni
(1)».
Sui nostri antenati abbiamo
notizie frammentarie. Uno era prete in un paese qua intorno, e s’invaghì
dell’amante del parroco. Il parroco passeggiava su e giù per il brolo leggendo
il breviario; il nostro parente da una finestra della canonica puntò la schioppa.
Era l’ora del tramonto e l’aria era placida e serena: lo sparo riuscì
impeccabilmente centrato.
Un Meneghello aveva i campi
quassù a Monte Piàn; c’era un vicino che ogni giorno per andare al lavoro
passava sul nostro (il grado di parentela non è accertato, ma ci si sente
solidali) col carro e i buoi, e questo Meneghello non voleva. Una mattina di
buonora che stava segando l’erba, arriva il vicino col carro, e lui lo ferma.
«Questa qui è l’ultima volta che
passi per di qua, capìo (2)?»
«Io passo quanto che voglio.»
Meneghello alzò la falce e gli
appoggiò il filo sulla coppa: «E allora io ti taglio la testa,» disse.
«Tagliamela,» disse il vicino, e Meneghello diede una tiratina al manico della
falce, e fu poi trasferito al penitenziario.
Da un’antica testimonianza sembra
che la nostra famiglia si possa considerare divisa in due rami: un ramo
mercenari, basati a Monte Piàn, che siamo noi, e un ramo ebrei.
Mio nonno filava col calesse per
certe stradette a Verona, inseguito dalle guardie; vede un portone aperto,
svolta dentro al portico, e dice all’usciere gallonato: «Chiudi va-là, che mi
corrono dietro». L’usciere chiuse.
«Chi è lui?» domandò al nonno che
si asciugava il sudore.
«Meneghello,» disse il nonno.
«To’,» disse l’usciere. «È
Meneghello anche il padrone,» e andò a chiamarlo. Era un signore piccolo e
cortese: «Meneghello? da indov’è che sei?» domandò al nonno; e il nonno disse:
«Da Malo».
L’ometto si orientò subito.
«Voialtri siete i Meneghello mercenari,» disse, «quelli da Monte Piàn. Vi siete
ritirati là in cima alla fine di una guerra, che non avevate più lavoro.
Noialtri da Verona siamo i Meneghello ebrei.» E questo è ciò che si sa sui due
rami della famiglia.
A Monte Piàn c’è ora Vitale
Meneghello che nella prima guerra mondiale andò disertore, e i carabinieri non
riuscivano a cattàrlo (3); però a un certo punto sua moglie restò incinta e
siccome era una donna incensurabile, i carabinieri, furbi (4), circondarono la
casa e nel fienile c’era Vitale.
In quel momento ai disertori non
facevano più la pelle, e presto Vitale tornò a casa; ma i carabinieri si
vendicarono però. Ogni anno da allora Vitale domanda la licenza di caccia, e
ogni anno puntualmente gliela rifiutano; la caccia è la grande passione della
sua vita. Sono passati tra quaranta e cinquanta anni, e Vitale adesso ne ha
sugli ottanta; sono passate guerre, imperi, monarchie, mone (5) d’ogni maniera;
ma la licenza di caccia di Vitale l’Italia non la molla. Vitale a caccia ci va
lo stesso però.
Il nonno faceva sempre bella
figura quando era inseguito dalle guardie. C’erano due soli contrabbandieri
nella zona che portavano fino a due quintali alla volta; uno abitava in contrà
Barbè, l’altro era il nonno. Con un sacco per parte il nonno di notte passava
l’Astico a guado, che non è tanto fondo, ma rapido e freddo a meraviglia; se
aveva un sacco solo, con la mano libera disarmava facilmente le guardie,
altrimenti era costretto a buttarle a terra col piede, e correva via col suo
carico.
Quando lo conobbi io era già del
tutto respectable; aveva fatto un po’
di soldi coi bozzoli (6) e s’era comprato una campagnetta a Isola. Viaggiava
col calessino, portava un cappello con la tesa larga, aveva enormi fazzoletti
rossi e mangiava pane di segale per via del diabete.
La forza di mio nonno faceva
spavento soltanto a manifestarla da-mato. Una volta quando era giovane erano
andati a fare una sacra rappresentazione in un paesetto della Val di Là (il
nonno faceva San Piero), e mentre gli attori si mettevano le barbe e i costumi
sotto una tettoia addossata al teatro, dalla folla dei curiosi che stava ad
osservare partì qualche frase di dileggio. Questa è l’usanza tra paesi vicini,
e noi da Malo abbiamo lo svantaggio che il nome del nostro paese pare alla
gente un sigillo di rusticità.
I dileggiatori non sapevano che
cosa gli sarebbe accaduto se il nonno gli avesse messo le mani addosso, ma per
fortuna il nonno non si arrabbiò. C’era lì per terra un mostruoso blocco di
pietra bislungo, destinato a essere messo in piedi con argani e leve per una
futura costruzione. Ci sarebbe voluta naturalmente una squadra di muratori
robusti e decisi.
Mio nonno circondò il monolito
con le braccia, lo alzò da terra e lo portò un po’ a spasso. Poi lo rimise giù
in piedi: la gente si raccomandava alla Madonna. In seguito la sacra
rappresentazione fu vivamente applaudita.
Si deve probabilmente al nonno
se, oltre che simili in faccia come i cinesi, noi Meneghello siamo stati quasi
tutti svelti. Mio nonno correva più veloce di ogni altro in paese, dicono tutti
che correva come il vento, però quando andò a mettersi alla prova fuori del
paese, in un’arcaica manifestazione sportiva, trovò uno, “uno da Brescia” che
correva un po’ di più. La cosa s’è poi ripetuta più volte con gli zii e con noi
nipoti: saltava sempre fuori un forestiero, un bresciano da l’os (7), insomma
un rappresentante di ciò che è disumano e ovviamente fuori concorso.
Quel suo bresciano il nonno
correndo se lo vide a fianco, poi un metro avanti, poi due metri. Capì di
doversi impegnare a fondo e s’impegnò; ma l’altro rimaneva avanti. Il nonno in
corsa si sentì invadere da un’ammirazione senza riserve che si riconosceva nel
suo racconto cinquant’anni più tardi. Vedeva l’anonimo da Brescia volargli
accanto, e notò che gli occhiali da corsa coll’elastico (perché l’esotica
creatura correva con appositi occhiali) sbandieravano nel vento, dietro la
schiena.
Negli ultimi anni il nonno usciva
col bastone e camminava a fatica, poi smise di uscire e si trascinava appena da
una stanza all’altra, infine restò immobilizzato su una poltrona. Non parlava
più, e badava soprattutto a mangiare: divorava tutto quello che gli mettevano
davanti, e si fermava solo quando non ce n’era più; poi spingevano la poltrona
vicino a una finestra del tinello davanti, e il nonno stava a guardare la
strada e gli venivano giù le lacrime. Era ancora pericoloso per le donne però:
guai se riusciva ad afferrarne una, tanto che mio zio Dino – sempre disposto ai
ritrovati moderni e razionali – voleva affittarne una apposta.
L’agonia durò a lungo. C’erano in
casa figli figlie e molti nipoti. Verso sera la zia Nina vide una civetta sul
davanzale e si mise a gridare in modo tenebroso, ma più che altro pro forma, e
anche un po’ perché dopo la morte del nonno sarebbe restata lei la più vecchia
della famiglia. Altrimenti l’occasione non era luttuosa, anzi aveva una
naturalezza patriarcale che mi fece molta impressione.
Il respiro del nonno era
affannato ma regolare; l’infermiere disse che poteva durare ancora molte ore.
Disse: «È una buona macchina, ce n’è poche così in paese». Nel mezzo della
notte restai io solo nella camera, ascoltando il ritmo di questa buona macchina
chiusa nel torace ampio e glabro del nonno. Tutto pareva stilizzato, la grande
camera semivuota, il silenzio della notte, la lampada che ardeva accanto al
letto, la morte patriarcale senza malattia, la lunga lotta simile a una
cerimonia. All’improvviso l’ansimare ritmato s’interruppe, cominciò un anelito
roco e intenso, e si sentiva che erano gli ultimi. Chiamai gli altri, e vennero
tutti in tempo. La zia Adele, curva sul nonno, come invasata, cercava di
cogliere la suprema occasione e pretendeva di fargli ripetere la giaculatoria
giusta: Gesù… - Giuseppe… - Maria… -
assistetemi - te l’ultima - gonìa (8).
La rara proprietà del testo
raddoppiava il suo zelo. «Popà (9)! Popà!» chiamava, e riprendeva: Gesù… - Giuseppe… - Maria… - spiro in pace -
con voi - l’anima mia.
L’assurda faccenda era certo
innocua, ma la sua forma dovette urtare il buonsenso degli zii e di mio padre,
perché uno di loro disse, asciugandosi gli occhi, «Piantala, imbecille», e l’Adele
la piantò, e il nonno morì.
L’anno prima, quando stava
morendo la nonna Esterina, al pianterreno, le avevano fatto un letto in un
angolo. La nonna era una donnetta minuta e delicata; verso la fine ebbe giorni
convulsi, quasi un litigio. Si drizzava a sedere, additava la Morte in piedi
nell’altro angolo, gridava che la mandassimo via. La nonna era molto devota, e
la sua resistenza, l’energia delle fragili braccia nel difendersi, mi
sorpresero.
La sagoma e un po’ della forza
del nonno sono passati a mio cugino Giacomo. Quanto forte è mio cugino? Nessuno
l’ha mai saputo di preciso: possiamo solo raccogliere indizi. Quando i suoi
amici vollero partire senza di lui ed ebbero preso posto in macchina davanti al
caffè in piazza, Giacomo afferrò la macchina per il paraurti di dietro, con una
mano sola, e non partirono. Questi omaccioni sono spesso bonari, ed è un bene
perché se fossero aggressivi come noialtri, guai. Giacomo è un uomo di pace:
quando due suoi amici baruffano un po’ troppo, li prende su come fagotti uno di
qua uno di là sotto il braccio, e va a gettarli nelle rispettive corti. Una
sera andò in cantina a prendere vino per gli amici e tornò su con un gran
secchio pieno; gli amici risero (un secchio di vino!) e uno disse: «Scommetto
che non saresti buono a berlo in una volta sola». Giacomo aveva bevuto tutta la
sera ed era in vena di scherzi: lo alzò alla bocca e lo scolò. Non è uno che si
ubriaca, però una volta mi spiegò come si deve fare se si ha la tendenza a
ubriacarsi. Prima di andare fuori alla sera si prende mezzo chilo di burro, si
mette a sciogliere in una padella e si beve.
C’è un personaggio quasi
metafisico nella famiglia, Mio Nonno Signore (che non era un nonno mio, ma è
sempre nominato col possessivo come un Milord) di cui so ben poco, tranne che
c’era e che si chiamava così perché somigliava al Signore. Questa quasi totale
assenza di qualità mi ha sempre attirato molto.
I ricordi relativi a quelli che
erano già vecchi quando i vecchi di adesso erano bambini ci riportano lontano
lontano nel secolo scorso, e un giretto per il paese ci mette davanti agli
occhi i frammenti del mondo di allora. A specchio degli sterpi della Proa c’è
la casa dove crebbe mia bisnonna Candida: quelle mattonelle a spina di pesce
nel portico sono le stesse su cui giocava da piccola, e qui passava vestita da
festa per andare a messa alla domenica da ragazza; su questo scalino davanti
alla porta settecentesca avrà chiacchierato col moroso. Davanti al giarón (10) del
Castello, sulla sponda di qua, c’è la casa dov’è nato il nonno: il torrente che
ora passa magro tra i sassi la devastò quando il nonno aveva quattro anni.
Il nostro principale legame con
quel mondo (a parte queste case, e i tronconi del ponte vecchio sulla Proa, da
cui il nonno certamente saltava giù con gli altri bambini del suo secolo) era
la zia Gègia, sorella del nonno, che ai miei tempi viveva sola con una figlia
matta in una casetta nuda e pulita qui vicino in contrà Loza. Forse non sarà
stata più povera di tanti altri, ma per me personificava la povertà: sapevo che
era restata sola con quattro figli, e per un periodo era stata a lavorare in
Svizzera. S’industriava letteralmente ai margini dell’economia agricola del
paese, raccattando pisciacani sui fossi, spigolando, e allevando conigli per i
quali andava a erba. Faceva vere spedizioni a piedi (non so bene a far cosa: ma
non a carità), parte per le strade, parte a campi, anche fino a paesi dove a
noi non era mai passato per la mente che nessuno ci andasse a piedi; si portava
un paio di fette di polenta, qualche cipolla o una crosta di formaggio, un
fiaschetto di vino.
È strano come sono certe cose
particolari, alle volte, che fanno sentire improvvisamente che cosa è una persona; nel caso della zia Gègia dovette essere
l’itinerario di questi suoi viaggi a piedi, e soprattutto quello che mangiava,
l’involto con la polenta e le cipolle.
Nella storia della zia Gègia –
che pure non è considerata una storia eccezionale qui in paese – si riassumono
alcune delle più tipiche difficoltà e disgrazie della vita di una volta. Ancora
da piccola era restata orfana del padre; il marito le morì alcolizzato dopo
pochi anni di matrimonio, e dovette allevare da sola i quattro figli: uno di
questi morì tubercoloso, avendo abbandonato la propria famiglia; un altro
abbandonò anche lui la moglie con un figlio piccolo, e scomparve nelle
Americhe; l’ultima era matta.
In molte famiglie c’erano episodi
di questa specie: dove non c’era un alcolizzato tendeva a esserci un
tubercoloso, o un matto, o un idiota, o un padre che s’era dimenticato di
tornare a casa, o qualche altra disgrazia o “croce” giudicata equivalente a
queste. Di tali cose si perde rapidamente notizia, perché le famiglie tendono a
censurare ogni particolare considerato disdicevole. Che il papà di una delle
mie zie mancasse da casa fin da quando la zia era ragazzina, l’ho saputo solo
di recente; di un fratello di un’altra zia, che vidi io stesso quando uscì di
prigione, non ho quasi più sentito parlare. Era stato dentro circa vent’anni,
per una schioppettata a un amico. Lui era un giovanotto che faceva il fornaro e
il carrettiere, l’altro era un po’ più vecchio ed era farmacista.
Corteggiavano due sorelle, e
dovette nascere una di quelle rivalità che hanno a che fare un po’ con le
sfumature della condizione sociale, un po’ con gli scherzi della psiche. Ed
ecco il ragazzo che una sera all’osteria del Ponte porta via un fucile da caccia, torna in paese, si fa
insegnare a caricare; poi va alla Scopa
e fatto chiamar fuori il farmacista lo ammazza al buio. Raccontano che poi andò
a casa e disse: «Papà, ho bisogno di soldi, devo andar via per un po’. Ho
ammazzato il tale». Quando lo vidi io era appena uscito di galera, portava un
berretto di panno, pareva debole e smunto, parlava fiocamente e morì poco dopo.
Sono andato a cercarli giorni fa
in cimitero, sono nelle rispettive tombe di famiglia, uno accanto all’altro.
La zia Gègia aveva le ossa grandi
e i tratti duri. Era già molto vecchia quando la conobbi io, ma alta e robusta,
con le lunghe sottane bigie della sua generazione; era allegra, esuberante e
pessimista. «Presto vado a mangiare i radicchi per il manico (11),» diceva;
l’idea la divertiva. Aveva la voce forte, pareva sempre che gridasse, e rideva
strepitosamente. C’era in lei una forza che ho sentito in poche altre persone;
a settant’anni, a ottanta, continuava a vivere come trent’anni prima, non
poteva permettersi neanche di invecchiare, era una donna sola, che doveva
andare a erba per i conigli, mantenere la figlia matta.
Abbiamo avuto recentemente
conferma che il fratello di mio nonno andò balustrato (12). Abbiamo chiesto
spiegazioni al papà: era una punizione per la gente stramba e viva come lo zio.
Ma chi mandava balustrato?
Il prete.
E che cosa aveva fatto il
fratello del nonno? Aveva aperto un tassello in un’anguria del prete e ci aveva
fatto dentro i suoi bisogni. Il prete tagliò l’anguria e disse storcendo il
naso: «Questo è stato Meneghello». E lo fece mandare balustrato.
Ritornò dopo dodici anni, di
notte, e mia bisnonna Candida fu molto sorpresa.
Il nonno era garzone da un fornaro,
la nonna era figlia del padrone. Quando si sposarono non so se il nonno avesse
appena compiuto o stesse per compiere i diciassette anni, ad ogni modo non ne
avevano trentacinque in due.
Il matrimonio cristiano è una
specie di missione in partibus: il maschio è naturalmente pagano, e tocca alla
sposa cristiana non tanto convertirlo, quanto salvargli l’anima. Il maschio
selvaggio beve, gioca, bestemmia, molesta le donne, mena le mani: la sposa
missionaria non contrasta questi suoi costumi, ma bada al sodo, che è quel
minimo di messe, sacramenti e devozioni sufficiente a restare fondamentalmente
in buona col cielo; poi basta cogliere l’anima direttamente sul letto di morte.
In quest’ultimo compito, che è
spesso postumo, e in ogni parte della sua missione, la sposa cristiana può
contare sull’ausilio delle figliole. La fede si trasmette principalmente così,
per linee ginecologiche: prendere i maschi di petto sarebbe assurdo, come voler
spiegare l’algebra ai cannibali; ma fin che c’è donne c’è speranza.
Il caso di mia nonna è tipico. La
vita del nonno cominciò 1866 dopo l’Incarnazione, e in un paese di antiche
tradizioni cristiane e cattoliche: però si può dire con verità che sulle sue
azioni e sui suoi costumi, gli insegnamenti del Cristo e della Santa Chiesa
Romana ebbero la stessa influenza di quelli di Ermete Trismegisto (13). Press’a
poco lo stesso si può dire dei figli maschi della nonna: allevati devotamente
come le ragazze, appena furono adulti si misero però a bestemmiare, e in
generale a vivere come tutti gli altri; le figlie invece furono tutte devote.
La devozione prende naturalmente
le forme della personalità. I santini colorati coi fregi in oro, i libretti di
preghiere, l’obolo per l’acquisto dell’anima di un negretto, la coroncina
nell’astuccio d’argento, il velo nero ricamato: di queste cose era fatta la
religione della zia Nina. Gettata in un mondo di maschi sbrigativi e poco
complimentosi, si rifugiava in un suo ideale di finezza, esemplandosi sulle
signorine devote delle migliori famiglie.
Era il mondo delle Filotee (14),
delle calze di seta nera, della cioccolata dopo la comunione. Era restata
zitella, la zia, ma aveva una certa grazia e civetteria femminile (crudamente
calpestata dai fratelli) e da giovane era la più bella delle sorelle. C’era
stato un increscioso episodio sentimentale durante la prima guerra:
caratteristicamente “un capitano”, una persona distinta, purtroppo però
traditore. C’era nella zia un nocciolo d’indipendenza personale, parte del suo
ideale di signorina per bene: aveva il suo piccolo lavoro “in Ditta”, il suo
stipendietto; faceva modeste villeggiature, e qualche pellegrinaggio.
Le venivano le caldanelle quando
noi si faceva chiasso, quando gli zii la rimproverano, e soprattutto quando i
conti della “Ditta” non tornavano, cioè ogni volta che li faceva. Che cos’erano
le caldanelle? Un dibattersi comico ma non finto, un fluttuare delle immagini
del mondo, ma infrarosso e microscopico, un calore interno che non fa salire i
termometri, un’insopportazione incipiente ma potenzialmente assoluta. Un po’
così era anche la religione della zia Nina: distinta, ma con un accenno di
caldanelle. In altri temperamenti prende altre forme.
C’è la devota gentile che prega
per i meno devoti e lascia a Dio la cura del loro destino eterno; e c’è la
devota severa che vorrebbe occuparsene lei. La severità è quasi universale però
di fronte alla resìa. In questo le figlie della nonna e le nuore erano
abbastanza unanimi. Qui alle Case c’era un piccolo nucleo di protestanti
(qualcuno era andato a lavorare in Germania e tornò con questa bella novità),
che facevano una mite opera di proselitismo portando nelle case copie della
Bibbia in italiano. Ne era stata lasciata una in cucina da noi. La zia Lena
prese la direzione delle operazioni:
«Fuori tutti! Portate via i
piccoli! Via i piccoli!»
La cucina restò deserta, venne
fuori anche la gatta che si chiamava Plòmbe ed era bellissima: la Bibbia posata
sulla tavola emanava raggi neri.
La zia Lena andò a prendere le
molle dal suo focolare e s’avanzò a passi circospetti fin sulla porta, cogli
occhi fissi sulla Bibbia: si fece il segno della croce, poi agì rapidamente. La
Bibbia fu afferrata con le molle, trasportata a braccio rigido, scaricata tra
le fiamme. La Bibbia non è semplicemente un libro cattivo, è la parola del demonio,
roba maledetta.
Mio zio Checco, marito della
Lena, conosceva personalmente il Re, perché gli era caduto addosso saltando con
l’asta, quella volta che si slogò la spalla. Davano un saggio atletico militare
in presenza del Re, e per il salto con l’asta naturalmente avevano scelto mio
zio.
Al Re piacque quello spettacoloso
saltatore, e volle vedere l’ultimo salto da vicino. Lo zio, che saltava con gli
scarponi chiodati, le fasce e l’elmetto, superò nettamente l’asticella, ma
ricadde di sghembo, proprio addosso al re, e con uno scarpone gli tranciò un
lembo dell’orecchio destro, quello che non si vede nei profili del Re sulle
monete di allora.
Lo zio conosceva bene anche
Mussolini, con cui era stato a lavorare in Svizzera, però dopo la guerra si
erano persi di vista. Quando Mussolini venne a parlare a Vicenza, mio zio era
in mezzo alla folla in Piazza dei Signori e Mussolini lo vide e interruppe il
discorso e gridò «Checco!». Mio zio lo salutò cordialmente con la mano
sussurrando «Beni, can da l’ostia!» (15) e Mussolini riprese a parlare alla
folla. Quella sera trovarono il modo di passare un’oretta insieme agli
Schioppi. «Se sapessi, Checco,» diceva Mussolini fissando assorto il
distributore di benzina lì di fronte: «Ne ho una gnocca!» (16).
Zio Checco è vecchio da un bel
pezzo. Spilungone, segaligno, pieno di acciacchi spaventosi, si temeva che
morisse ancora parecchi anni fa quando dovette restare a letto per qualche
settimana; immaginavo che si disintegrasse scricchiolando nella camera fredda a
mattoni. Invece tornò giù come prima; Roberto, l’ultimo figlio, gli era andato
militare e dovette rimettersi lui a fare i suoi “noli” coi mediatori, di giorno
e di notte. Volevano anche dargli delle noie per certe storie di contrabbandi,
che in ogni caso nella nostra zona appartengono al folclore e quasi andrebbero
incoraggiati anziché repressi.
Erano gli ultimi anni prima che
ci capitasse tra coppa e collo questo benessere economico, come una piacevole
legnata che ci ha fatto perdere l’orientamento: era ancora fatica a guadagnarsela
fino a qualche anno fa, anzi a me pareva una vita da cani, ma lo zio era
abituato e non ci badava.
«È tornato tuo zio Checco col
camio,» disse una sera il papà all’osteria. «È stato fuori tutti il giorno, e
cosa vuoi che abbia preso? forse millecinquecento lire.»
«Come millecinquecento? di
guadagno?»
«Va-là, mago (17),» disse mio
papà, e aggiunse: «Però lui era contento: cantava».
Cantava! Queste notizie
impreviste sono come sberle che mandano a catafascio tutti i cosi che il nostro
professore di Filosofia Teoretica e Filosofia Morale a Padova soleva chiamare –
sudando per l’emozione – i valori.
Dunque cantava, lo zio Checco:
dopo esser stato fuori tutto il giorno con la condizione umana, tornando a casa
cantava. Notare poi che è anche stonato.
Avrei voluto parlare di più con
lo zio, ma come fare? Non si sa mai se abbiamo una lingua in comune, non dico
le parole, ma i concetti: mancano anche certi segnali elementari. Quando arriva
col camioncino, svolta dalla strada dentro il portone, a sinistra, senza metter
fuori la freccia (sono fesserie inventate di recente), e naturalmente senza
guardare; lui guida così, come del resto ha sempre guidato, molto prima che
nascessero gli ingegneri della Motorizassione, e così anche vive, un po’ a modo
suo, chiuso e distratto, e qualche volta non si capisce se sa che siamo qui, e
chi siamo.
«Zio Checco, mi daresti una
cartina?» Era dopo la guerra e c’erano poche sigarette.
Mi diede la cartina e ci
depositai il tabacco che avevo. Era poco. Mentre lo spargevo col dito,
studiando il problema, mio zio s’era fermato a guardarmi.
«È meglio che te lo dia un po’ di
tabacco,» disse, e me ne diede una bella presa.
Mi misi ad armeggiare colla
cartina. Venivano abbozzi di fusi, uova bislunghe, imbuti, coni deformi,
sferoidi.
«Da’ qua,» disse mio zio, e mi
arrotolò una sigaretta.
«Lecca.» Leccai, presi la
sigaretta e me la misi in bocca. Cercai i fiammiferi, in tutte le tasche, poi
mio zio Checco tirò fuori i fiammiferi e mi accese la sigaretta. Mi guardava
soprappensiero e non sapevo se mi vedesse.
«Ca spùa?» (18) disse. Mi vedeva.
Lo zio ha un ramo di genialità
inventiva che meritava altra fortuna. Ha la passione della modifica, dell’invenzione
spicciola: se c’è una tettoia che traballa, e il capomastro propone di
costruirci un pilastro, lo zio inventa subito un metodo per far senza il
pilastro. Con bellissimi ingegni imbraca le strutture di legno, crea molle e
balestre, ganasce e graffe, ciascuna delle quali s’afferra all’altra con un
sapiente dosaggio di controspinte finché tutte insieme si reggono in aria
appoggiandosi a nulla in particolare. Qualche volta la tettoia cade lo stesso;
altre volte un cavo aereo trasferisce le spinte in tutt’altra parte dell’edificio
e lì bisogna costruire un contrafforte o demolire un muro.
Zio Checco non è soltanto un uomo
ingegnoso, è un inventore, un artefice. Il fondo del suo lavoro è fantasia,
stramberia; quello che fa lascia sempre un po’ perplessi, si sente che è
avventura: sono sicuro che il carattere di Dedalo era così. I suoi ingegni sono
specialmente meccanici e fabbrili. Trasformare è il suo regno: un’automobile in
un trattore, un tornio in un compressore, una motocicletta in una sega; in
questo campo lo zio è imbattibile. Quand’era più giovane e socio attivo della “Ditta”,
il problema principale era di tenerlo lontano dalle automobili nuove. Il suo
occhio coglieva subito le possibilità di migliorare qualunque nuovo acquisto.
«Non c’è male la nuova Lancia,
però ci vorrebbe una piccola modifica alle sospensioni anteriori. Li vedi
questi longheroni? Pensavo che se li seghiamo qui, e ci saldiamo quella della Nove…»
Le modifiche se le faceva lui
stesso, tirando mazzate e bestemmie nella forgia. Il risultato era importante,
ma più importante il processo: penso che nei momenti di irresponsabilità che
abbiamo tutti, sognasse una macchina interamente fatta di modifiche, un
incrocio geniale e inutile tra l’argano, il tassì e la fresatrice, coi fanali a
carburo.
Negli ultimi tempi ha quasi
smesso di eseguire modifiche: prende uno sgabello e sta seduto le ore con le
ore accanto al camion di Roberto, a rimuginare. Non sono malfatti, questi
trabiccoli moderni; ma ci vorrebbero tante piccole modifiche che saltano agli
occhi. Lo zio seguendo il filo dei suoi calcoli si distende per terra, s’infila
sotto il camion, e là lo trovano quando vanno a chiamarlo all’ora dei pasti. Mi
dicono che in questi ultimi mesi si mette perfino a dormire nella rimessa,
vicino ai camion.
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(1) compagni = simili nell’aspetto
fisico.
(2) capìo = capito.
(3) cattàrlo = trovarlo.
(4) Meneghello ha annotato che
qui “furbi” è nel senso di “canaglie”.
(5) mone = persone o personaggi
poco seri (annotazione dell’Autore).
(6) bozzoli = quelli dei bachi da
seta.
(7) da l’os = della malora.
(8) assistetemi - te l’ultima –
gonìa = assistetemi nell’ultima agonia.
(9) popà = papà.
(10) giarón = ghiaione.
(11) mangiare i radicchi per il
manico = andare, in pratica, sottoterra, quindi morire.
(12) balustrato = costretto a
fare il soldato di leva.
(13) Ermete Trismegisto =
personaggio leggendario dell’Età Antica, venerato come maestro per la sua
grandissima sapienza; è chiaro che il nonno dell’Autore non ricevette alcuna
influenza da tale personaggio.
(14) Filotee = libri di preghiere
e meditazioni a carattere religioso.
(15) can da l’ostia = scrive Meneghello
nelle note al libro che «dopo un nome di persona, e proferito col tono giusto,
significa: “Dunque anche tu ce l’hai fatta finora! Me ne rallegro; però
ricordati che so benissimo che figura-inténta che sei!”. Figura inténta (quasi “intinta
di fuliggine”) = “personaggio losco ma capace di essere simpatico”.»
(16) ne ho una gnocca! = sono
così stufo!
(17) va-là, mago = non dire
sciocchezze, baùco.
(18) ca spùa? = vuoi che sputi?
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