giovedì 3 agosto 2017

93 Libera nos a malo: capitolo 16 (di Luigi Meneghello)



Capitolo tutto dedicato ai famigliari di Meneghello: memorabili figure di antenati, nonni, zii, zie, cugini, descritti con tocchi spesso rapidi ma fulminanti. Se ne potrebbe fare un uso proficuo in una classe di scuola media, anche per far capire il trasporto umano che l’autore ha messo in queste descrizioni. Del resto, in una “Avvertenza” scritta per l’edizione del 1975, Meneghello ha annotato che «la mia materia erano le cose del paese, e tra le persone individuali, solo quelle che mi sono care o simpatiche. Le altre è inutile che si cerchino in queste pagine: non ci sono».

La Chiesa parrocchiale è stata rifatta nel secolo scorso, ma il campanile è ancora quello di una volta. Davanti alla Canonica c’è la vecchia Cavallerizza, più in là l’asilo infantile. Siamo ora in Cantarane, e la strada continua verso il Ponte per antonomasia, dalla parte di Priabona, con l’osteria che chiude il paese. Dietro a destra c’è il cimitero. In cimitero si può abbracciare con uno sguardo la misura di questa comunità. Si gira fra le tombe riconoscendo i nomi e le facce nei piccoli ritratti smaltati, confrontando le date.
È come passeggiare in mezzo a una folla di conoscenti: la storia recente del paese, e una parte di quella più remota, è riassunta per capisaldi su queste lapidi. Di qualcuno non mi ricordo più molto bene, ma loro mi conoscevano tutti, almeno sapevano di che famiglia sono. Come diceva a Gaetano quel vecchietto che indovinò chi era, un giorno in un’osteria quassù a Priabona, «I Meneghello sono come i cinesi, tutti compagni (1)».

Sui nostri antenati abbiamo notizie frammentarie. Uno era prete in un paese qua intorno, e s’invaghì dell’amante del parroco. Il parroco passeggiava su e giù per il brolo leggendo il breviario; il nostro parente da una finestra della canonica puntò la schioppa. Era l’ora del tramonto e l’aria era placida e serena: lo sparo riuscì impeccabilmente centrato.
Un Meneghello aveva i campi quassù a Monte Piàn; c’era un vicino che ogni giorno per andare al lavoro passava sul nostro (il grado di parentela non è accertato, ma ci si sente solidali) col carro e i buoi, e questo Meneghello non voleva. Una mattina di buonora che stava segando l’erba, arriva il vicino col carro, e lui lo ferma.
«Questa qui è l’ultima volta che passi per di qua, capìo (2)?»
«Io passo quanto che voglio.»
Meneghello alzò la falce e gli appoggiò il filo sulla coppa: «E allora io ti taglio la testa,» disse. «Tagliamela,» disse il vicino, e Meneghello diede una tiratina al manico della falce, e fu poi trasferito al penitenziario.

Da un’antica testimonianza sembra che la nostra famiglia si possa considerare divisa in due rami: un ramo mercenari, basati a Monte Piàn, che siamo noi, e un ramo ebrei.
Mio nonno filava col calesse per certe stradette a Verona, inseguito dalle guardie; vede un portone aperto, svolta dentro al portico, e dice all’usciere gallonato: «Chiudi va-là, che mi corrono dietro». L’usciere chiuse.
«Chi è lui?» domandò al nonno che si asciugava il sudore.
«Meneghello,» disse il nonno.
«To’,» disse l’usciere. «È Meneghello anche il padrone,» e andò a chiamarlo. Era un signore piccolo e cortese: «Meneghello? da indov’è che sei?» domandò al nonno; e il nonno disse: «Da Malo».
L’ometto si orientò subito. «Voialtri siete i Meneghello mercenari,» disse, «quelli da Monte Piàn. Vi siete ritirati là in cima alla fine di una guerra, che non avevate più lavoro. Noialtri da Verona siamo i Meneghello ebrei.» E questo è ciò che si sa sui due rami della famiglia.
A Monte Piàn c’è ora Vitale Meneghello che nella prima guerra mondiale andò disertore, e i carabinieri non riuscivano a cattàrlo (3); però a un certo punto sua moglie restò incinta e siccome era una donna incensurabile, i carabinieri, furbi (4), circondarono la casa e nel fienile c’era Vitale.
In quel momento ai disertori non facevano più la pelle, e presto Vitale tornò a casa; ma i carabinieri si vendicarono però. Ogni anno da allora Vitale domanda la licenza di caccia, e ogni anno puntualmente gliela rifiutano; la caccia è la grande passione della sua vita. Sono passati tra quaranta e cinquanta anni, e Vitale adesso ne ha sugli ottanta; sono passate guerre, imperi, monarchie, mone (5) d’ogni maniera; ma la licenza di caccia di Vitale l’Italia non la molla. Vitale a caccia ci va lo stesso però.
Il nonno faceva sempre bella figura quando era inseguito dalle guardie. C’erano due soli contrabbandieri nella zona che portavano fino a due quintali alla volta; uno abitava in contrà Barbè, l’altro era il nonno. Con un sacco per parte il nonno di notte passava l’Astico a guado, che non è tanto fondo, ma rapido e freddo a meraviglia; se aveva un sacco solo, con la mano libera disarmava facilmente le guardie, altrimenti era costretto a buttarle a terra col piede, e correva via col suo carico.
Quando lo conobbi io era già del tutto respectable; aveva fatto un po’ di soldi coi bozzoli (6) e s’era comprato una campagnetta a Isola. Viaggiava col calessino, portava un cappello con la tesa larga, aveva enormi fazzoletti rossi e mangiava pane di segale per via del diabete.
La forza di mio nonno faceva spavento soltanto a manifestarla da-mato. Una volta quando era giovane erano andati a fare una sacra rappresentazione in un paesetto della Val di Là (il nonno faceva San Piero), e mentre gli attori si mettevano le barbe e i costumi sotto una tettoia addossata al teatro, dalla folla dei curiosi che stava ad osservare partì qualche frase di dileggio. Questa è l’usanza tra paesi vicini, e noi da Malo abbiamo lo svantaggio che il nome del nostro paese pare alla gente un sigillo di rusticità.
I dileggiatori non sapevano che cosa gli sarebbe accaduto se il nonno gli avesse messo le mani addosso, ma per fortuna il nonno non si arrabbiò. C’era lì per terra un mostruoso blocco di pietra bislungo, destinato a essere messo in piedi con argani e leve per una futura costruzione. Ci sarebbe voluta naturalmente una squadra di muratori robusti e decisi.
Mio nonno circondò il monolito con le braccia, lo alzò da terra e lo portò un po’ a spasso. Poi lo rimise giù in piedi: la gente si raccomandava alla Madonna. In seguito la sacra rappresentazione fu vivamente applaudita.
Si deve probabilmente al nonno se, oltre che simili in faccia come i cinesi, noi Meneghello siamo stati quasi tutti svelti. Mio nonno correva più veloce di ogni altro in paese, dicono tutti che correva come il vento, però quando andò a mettersi alla prova fuori del paese, in un’arcaica manifestazione sportiva, trovò uno, “uno da Brescia” che correva un po’ di più. La cosa s’è poi ripetuta più volte con gli zii e con noi nipoti: saltava sempre fuori un forestiero, un bresciano da l’os (7), insomma un rappresentante di ciò che è disumano e ovviamente fuori concorso.
Quel suo bresciano il nonno correndo se lo vide a fianco, poi un metro avanti, poi due metri. Capì di doversi impegnare a fondo e s’impegnò; ma l’altro rimaneva avanti. Il nonno in corsa si sentì invadere da un’ammirazione senza riserve che si riconosceva nel suo racconto cinquant’anni più tardi. Vedeva l’anonimo da Brescia volargli accanto, e notò che gli occhiali da corsa coll’elastico (perché l’esotica creatura correva con appositi occhiali) sbandieravano nel vento, dietro la schiena.
Negli ultimi anni il nonno usciva col bastone e camminava a fatica, poi smise di uscire e si trascinava appena da una stanza all’altra, infine restò immobilizzato su una poltrona. Non parlava più, e badava soprattutto a mangiare: divorava tutto quello che gli mettevano davanti, e si fermava solo quando non ce n’era più; poi spingevano la poltrona vicino a una finestra del tinello davanti, e il nonno stava a guardare la strada e gli venivano giù le lacrime. Era ancora pericoloso per le donne però: guai se riusciva ad afferrarne una, tanto che mio zio Dino – sempre disposto ai ritrovati moderni e razionali – voleva affittarne una apposta.
L’agonia durò a lungo. C’erano in casa figli figlie e molti nipoti. Verso sera la zia Nina vide una civetta sul davanzale e si mise a gridare in modo tenebroso, ma più che altro pro forma, e anche un po’ perché dopo la morte del nonno sarebbe restata lei la più vecchia della famiglia. Altrimenti l’occasione non era luttuosa, anzi aveva una naturalezza patriarcale che mi fece molta impressione.
Il respiro del nonno era affannato ma regolare; l’infermiere disse che poteva durare ancora molte ore. Disse: «È una buona macchina, ce n’è poche così in paese». Nel mezzo della notte restai io solo nella camera, ascoltando il ritmo di questa buona macchina chiusa nel torace ampio e glabro del nonno. Tutto pareva stilizzato, la grande camera semivuota, il silenzio della notte, la lampada che ardeva accanto al letto, la morte patriarcale senza malattia, la lunga lotta simile a una cerimonia. All’improvviso l’ansimare ritmato s’interruppe, cominciò un anelito roco e intenso, e si sentiva che erano gli ultimi. Chiamai gli altri, e vennero tutti in tempo. La zia Adele, curva sul nonno, come invasata, cercava di cogliere la suprema occasione e pretendeva di fargli ripetere la giaculatoria giusta: Gesù… - Giuseppe… - Maria… - assistetemi - te l’ultima - gonìa (8).
La rara proprietà del testo raddoppiava il suo zelo. «Popà (9)! Popà!» chiamava, e riprendeva: Gesù… - Giuseppe… - Maria… - spiro in pace - con voi - l’anima mia.
L’assurda faccenda era certo innocua, ma la sua forma dovette urtare il buonsenso degli zii e di mio padre, perché uno di loro disse, asciugandosi gli occhi, «Piantala, imbecille», e l’Adele la piantò, e il nonno morì.
L’anno prima, quando stava morendo la nonna Esterina, al pianterreno, le avevano fatto un letto in un angolo. La nonna era una donnetta minuta e delicata; verso la fine ebbe giorni convulsi, quasi un litigio. Si drizzava a sedere, additava la Morte in piedi nell’altro angolo, gridava che la mandassimo via. La nonna era molto devota, e la sua resistenza, l’energia delle fragili braccia nel difendersi, mi sorpresero.

La sagoma e un po’ della forza del nonno sono passati a mio cugino Giacomo. Quanto forte è mio cugino? Nessuno l’ha mai saputo di preciso: possiamo solo raccogliere indizi. Quando i suoi amici vollero partire senza di lui ed ebbero preso posto in macchina davanti al caffè in piazza, Giacomo afferrò la macchina per il paraurti di dietro, con una mano sola, e non partirono. Questi omaccioni sono spesso bonari, ed è un bene perché se fossero aggressivi come noialtri, guai. Giacomo è un uomo di pace: quando due suoi amici baruffano un po’ troppo, li prende su come fagotti uno di qua uno di là sotto il braccio, e va a gettarli nelle rispettive corti. Una sera andò in cantina a prendere vino per gli amici e tornò su con un gran secchio pieno; gli amici risero (un secchio di vino!) e uno disse: «Scommetto che non saresti buono a berlo in una volta sola». Giacomo aveva bevuto tutta la sera ed era in vena di scherzi: lo alzò alla bocca e lo scolò. Non è uno che si ubriaca, però una volta mi spiegò come si deve fare se si ha la tendenza a ubriacarsi. Prima di andare fuori alla sera si prende mezzo chilo di burro, si mette a sciogliere in una padella e si beve.

C’è un personaggio quasi metafisico nella famiglia, Mio Nonno Signore (che non era un nonno mio, ma è sempre nominato col possessivo come un Milord) di cui so ben poco, tranne che c’era e che si chiamava così perché somigliava al Signore. Questa quasi totale assenza di qualità mi ha sempre attirato molto.
I ricordi relativi a quelli che erano già vecchi quando i vecchi di adesso erano bambini ci riportano lontano lontano nel secolo scorso, e un giretto per il paese ci mette davanti agli occhi i frammenti del mondo di allora. A specchio degli sterpi della Proa c’è la casa dove crebbe mia bisnonna Candida: quelle mattonelle a spina di pesce nel portico sono le stesse su cui giocava da piccola, e qui passava vestita da festa per andare a messa alla domenica da ragazza; su questo scalino davanti alla porta settecentesca avrà chiacchierato col moroso. Davanti al giarón (10) del Castello, sulla sponda di qua, c’è la casa dov’è nato il nonno: il torrente che ora passa magro tra i sassi la devastò quando il nonno aveva quattro anni.
Il nostro principale legame con quel mondo (a parte queste case, e i tronconi del ponte vecchio sulla Proa, da cui il nonno certamente saltava giù con gli altri bambini del suo secolo) era la zia Gègia, sorella del nonno, che ai miei tempi viveva sola con una figlia matta in una casetta nuda e pulita qui vicino in contrà Loza. Forse non sarà stata più povera di tanti altri, ma per me personificava la povertà: sapevo che era restata sola con quattro figli, e per un periodo era stata a lavorare in Svizzera. S’industriava letteralmente ai margini dell’economia agricola del paese, raccattando pisciacani sui fossi, spigolando, e allevando conigli per i quali andava a erba. Faceva vere spedizioni a piedi (non so bene a far cosa: ma non a carità), parte per le strade, parte a campi, anche fino a paesi dove a noi non era mai passato per la mente che nessuno ci andasse a piedi; si portava un paio di fette di polenta, qualche cipolla o una crosta di formaggio, un fiaschetto di vino.
È strano come sono certe cose particolari, alle volte, che fanno sentire improvvisamente che cosa è una persona; nel caso della zia Gègia dovette essere l’itinerario di questi suoi viaggi a piedi, e soprattutto quello che mangiava, l’involto con la polenta e le cipolle.
Nella storia della zia Gègia – che pure non è considerata una storia eccezionale qui in paese – si riassumono alcune delle più tipiche difficoltà e disgrazie della vita di una volta. Ancora da piccola era restata orfana del padre; il marito le morì alcolizzato dopo pochi anni di matrimonio, e dovette allevare da sola i quattro figli: uno di questi morì tubercoloso, avendo abbandonato la propria famiglia; un altro abbandonò anche lui la moglie con un figlio piccolo, e scomparve nelle Americhe; l’ultima era matta.
In molte famiglie c’erano episodi di questa specie: dove non c’era un alcolizzato tendeva a esserci un tubercoloso, o un matto, o un idiota, o un padre che s’era dimenticato di tornare a casa, o qualche altra disgrazia o “croce” giudicata equivalente a queste. Di tali cose si perde rapidamente notizia, perché le famiglie tendono a censurare ogni particolare considerato disdicevole. Che il papà di una delle mie zie mancasse da casa fin da quando la zia era ragazzina, l’ho saputo solo di recente; di un fratello di un’altra zia, che vidi io stesso quando uscì di prigione, non ho quasi più sentito parlare. Era stato dentro circa vent’anni, per una schioppettata a un amico. Lui era un giovanotto che faceva il fornaro e il carrettiere, l’altro era un po’ più vecchio ed era farmacista.
Corteggiavano due sorelle, e dovette nascere una di quelle rivalità che hanno a che fare un po’ con le sfumature della condizione sociale, un po’ con gli scherzi della psiche. Ed ecco il ragazzo che una sera all’osteria del Ponte porta via un fucile da caccia, torna in paese, si fa insegnare a caricare; poi va alla Scopa e fatto chiamar fuori il farmacista lo ammazza al buio. Raccontano che poi andò a casa e disse: «Papà, ho bisogno di soldi, devo andar via per un po’. Ho ammazzato il tale». Quando lo vidi io era appena uscito di galera, portava un berretto di panno, pareva debole e smunto, parlava fiocamente e morì poco dopo.
Sono andato a cercarli giorni fa in cimitero, sono nelle rispettive tombe di famiglia, uno accanto all’altro.
La zia Gègia aveva le ossa grandi e i tratti duri. Era già molto vecchia quando la conobbi io, ma alta e robusta, con le lunghe sottane bigie della sua generazione; era allegra, esuberante e pessimista. «Presto vado a mangiare i radicchi per il manico (11),» diceva; l’idea la divertiva. Aveva la voce forte, pareva sempre che gridasse, e rideva strepitosamente. C’era in lei una forza che ho sentito in poche altre persone; a settant’anni, a ottanta, continuava a vivere come trent’anni prima, non poteva permettersi neanche di invecchiare, era una donna sola, che doveva andare a erba per i conigli, mantenere la figlia matta.

Abbiamo avuto recentemente conferma che il fratello di mio nonno andò balustrato (12). Abbiamo chiesto spiegazioni al papà: era una punizione per la gente stramba e viva come lo zio. Ma chi mandava balustrato?
Il prete.
E che cosa aveva fatto il fratello del nonno? Aveva aperto un tassello in un’anguria del prete e ci aveva fatto dentro i suoi bisogni. Il prete tagliò l’anguria e disse storcendo il naso: «Questo è stato Meneghello». E lo fece mandare balustrato.
Ritornò dopo dodici anni, di notte, e mia bisnonna Candida fu molto sorpresa.
Il nonno era garzone da un fornaro, la nonna era figlia del padrone. Quando si sposarono non so se il nonno avesse appena compiuto o stesse per compiere i diciassette anni, ad ogni modo non ne avevano trentacinque in due.
Il matrimonio cristiano è una specie di missione in partibus: il maschio è naturalmente pagano, e tocca alla sposa cristiana non tanto convertirlo, quanto salvargli l’anima. Il maschio selvaggio beve, gioca, bestemmia, molesta le donne, mena le mani: la sposa missionaria non contrasta questi suoi costumi, ma bada al sodo, che è quel minimo di messe, sacramenti e devozioni sufficiente a restare fondamentalmente in buona col cielo; poi basta cogliere l’anima direttamente sul letto di morte.
In quest’ultimo compito, che è spesso postumo, e in ogni parte della sua missione, la sposa cristiana può contare sull’ausilio delle figliole. La fede si trasmette principalmente così, per linee ginecologiche: prendere i maschi di petto sarebbe assurdo, come voler spiegare l’algebra ai cannibali; ma fin che c’è donne c’è speranza.
Il caso di mia nonna è tipico. La vita del nonno cominciò 1866 dopo l’Incarnazione, e in un paese di antiche tradizioni cristiane e cattoliche: però si può dire con verità che sulle sue azioni e sui suoi costumi, gli insegnamenti del Cristo e della Santa Chiesa Romana ebbero la stessa influenza di quelli di Ermete Trismegisto (13). Press’a poco lo stesso si può dire dei figli maschi della nonna: allevati devotamente come le ragazze, appena furono adulti si misero però a bestemmiare, e in generale a vivere come tutti gli altri; le figlie invece furono tutte devote.
La devozione prende naturalmente le forme della personalità. I santini colorati coi fregi in oro, i libretti di preghiere, l’obolo per l’acquisto dell’anima di un negretto, la coroncina nell’astuccio d’argento, il velo nero ricamato: di queste cose era fatta la religione della zia Nina. Gettata in un mondo di maschi sbrigativi e poco complimentosi, si rifugiava in un suo ideale di finezza, esemplandosi sulle signorine devote delle migliori famiglie.
Era il mondo delle Filotee (14), delle calze di seta nera, della cioccolata dopo la comunione. Era restata zitella, la zia, ma aveva una certa grazia e civetteria femminile (crudamente calpestata dai fratelli) e da giovane era la più bella delle sorelle. C’era stato un increscioso episodio sentimentale durante la prima guerra: caratteristicamente “un capitano”, una persona distinta, purtroppo però traditore. C’era nella zia un nocciolo d’indipendenza personale, parte del suo ideale di signorina per bene: aveva il suo piccolo lavoro “in Ditta”, il suo stipendietto; faceva modeste villeggiature, e qualche pellegrinaggio.
Le venivano le caldanelle quando noi si faceva chiasso, quando gli zii la rimproverano, e soprattutto quando i conti della “Ditta” non tornavano, cioè ogni volta che li faceva. Che cos’erano le caldanelle? Un dibattersi comico ma non finto, un fluttuare delle immagini del mondo, ma infrarosso e microscopico, un calore interno che non fa salire i termometri, un’insopportazione incipiente ma potenzialmente assoluta. Un po’ così era anche la religione della zia Nina: distinta, ma con un accenno di caldanelle. In altri temperamenti prende altre forme.
C’è la devota gentile che prega per i meno devoti e lascia a Dio la cura del loro destino eterno; e c’è la devota severa che vorrebbe occuparsene lei. La severità è quasi universale però di fronte alla resìa. In questo le figlie della nonna e le nuore erano abbastanza unanimi. Qui alle Case c’era un piccolo nucleo di protestanti (qualcuno era andato a lavorare in Germania e tornò con questa bella novità), che facevano una mite opera di proselitismo portando nelle case copie della Bibbia in italiano. Ne era stata lasciata una in cucina da noi. La zia Lena prese la direzione delle operazioni:
«Fuori tutti! Portate via i piccoli! Via i piccoli!»
La cucina restò deserta, venne fuori anche la gatta che si chiamava Plòmbe ed era bellissima: la Bibbia posata sulla tavola emanava raggi neri.
La zia Lena andò a prendere le molle dal suo focolare e s’avanzò a passi circospetti fin sulla porta, cogli occhi fissi sulla Bibbia: si fece il segno della croce, poi agì rapidamente. La Bibbia fu afferrata con le molle, trasportata a braccio rigido, scaricata tra le fiamme. La Bibbia non è semplicemente un libro cattivo, è la parola del demonio, roba maledetta.

Mio zio Checco, marito della Lena, conosceva personalmente il Re, perché gli era caduto addosso saltando con l’asta, quella volta che si slogò la spalla. Davano un saggio atletico militare in presenza del Re, e per il salto con l’asta naturalmente avevano scelto mio zio.
Al Re piacque quello spettacoloso saltatore, e volle vedere l’ultimo salto da vicino. Lo zio, che saltava con gli scarponi chiodati, le fasce e l’elmetto, superò nettamente l’asticella, ma ricadde di sghembo, proprio addosso al re, e con uno scarpone gli tranciò un lembo dell’orecchio destro, quello che non si vede nei profili del Re sulle monete di allora.
Lo zio conosceva bene anche Mussolini, con cui era stato a lavorare in Svizzera, però dopo la guerra si erano persi di vista. Quando Mussolini venne a parlare a Vicenza, mio zio era in mezzo alla folla in Piazza dei Signori e Mussolini lo vide e interruppe il discorso e gridò «Checco!». Mio zio lo salutò cordialmente con la mano sussurrando «Beni, can da l’ostia!» (15) e Mussolini riprese a parlare alla folla. Quella sera trovarono il modo di passare un’oretta insieme agli Schioppi. «Se sapessi, Checco,» diceva Mussolini fissando assorto il distributore di benzina lì di fronte: «Ne ho una gnocca!» (16).
Zio Checco è vecchio da un bel pezzo. Spilungone, segaligno, pieno di acciacchi spaventosi, si temeva che morisse ancora parecchi anni fa quando dovette restare a letto per qualche settimana; immaginavo che si disintegrasse scricchiolando nella camera fredda a mattoni. Invece tornò giù come prima; Roberto, l’ultimo figlio, gli era andato militare e dovette rimettersi lui a fare i suoi “noli” coi mediatori, di giorno e di notte. Volevano anche dargli delle noie per certe storie di contrabbandi, che in ogni caso nella nostra zona appartengono al folclore e quasi andrebbero incoraggiati anziché repressi.
Erano gli ultimi anni prima che ci capitasse tra coppa e collo questo benessere economico, come una piacevole legnata che ci ha fatto perdere l’orientamento: era ancora fatica a guadagnarsela fino a qualche anno fa, anzi a me pareva una vita da cani, ma lo zio era abituato e non ci badava.

«È tornato tuo zio Checco col camio,» disse una sera il papà all’osteria. «È stato fuori tutti il giorno, e cosa vuoi che abbia preso? forse millecinquecento lire.»
«Come millecinquecento? di guadagno?»
«Va-là, mago (17),» disse mio papà, e aggiunse: «Però lui era contento: cantava».
Cantava! Queste notizie impreviste sono come sberle che mandano a catafascio tutti i cosi che il nostro professore di Filosofia Teoretica e Filosofia Morale a Padova soleva chiamare – sudando per l’emozione – i valori.
Dunque cantava, lo zio Checco: dopo esser stato fuori tutto il giorno con la condizione umana, tornando a casa cantava. Notare poi che è anche stonato.
Avrei voluto parlare di più con lo zio, ma come fare? Non si sa mai se abbiamo una lingua in comune, non dico le parole, ma i concetti: mancano anche certi segnali elementari. Quando arriva col camioncino, svolta dalla strada dentro il portone, a sinistra, senza metter fuori la freccia (sono fesserie inventate di recente), e naturalmente senza guardare; lui guida così, come del resto ha sempre guidato, molto prima che nascessero gli ingegneri della Motorizassione, e così anche vive, un po’ a modo suo, chiuso e distratto, e qualche volta non si capisce se sa che siamo qui, e chi siamo.
«Zio Checco, mi daresti una cartina?» Era dopo la guerra e c’erano poche sigarette.
Mi diede la cartina e ci depositai il tabacco che avevo. Era poco. Mentre lo spargevo col dito, studiando il problema, mio zio s’era fermato a guardarmi.
«È meglio che te lo dia un po’ di tabacco,» disse, e me ne diede una bella presa.
Mi misi ad armeggiare colla cartina. Venivano abbozzi di fusi, uova bislunghe, imbuti, coni deformi, sferoidi.
«Da’ qua,» disse mio zio, e mi arrotolò una sigaretta.
«Lecca.» Leccai, presi la sigaretta e me la misi in bocca. Cercai i fiammiferi, in tutte le tasche, poi mio zio Checco tirò fuori i fiammiferi e mi accese la sigaretta. Mi guardava soprappensiero e non sapevo se mi vedesse.
«Ca spùa?» (18) disse. Mi vedeva.

Lo zio ha un ramo di genialità inventiva che meritava altra fortuna. Ha la passione della modifica, dell’invenzione spicciola: se c’è una tettoia che traballa, e il capomastro propone di costruirci un pilastro, lo zio inventa subito un metodo per far senza il pilastro. Con bellissimi ingegni imbraca le strutture di legno, crea molle e balestre, ganasce e graffe, ciascuna delle quali s’afferra all’altra con un sapiente dosaggio di controspinte finché tutte insieme si reggono in aria appoggiandosi a nulla in particolare. Qualche volta la tettoia cade lo stesso; altre volte un cavo aereo trasferisce le spinte in tutt’altra parte dell’edificio e lì bisogna costruire un contrafforte o demolire un muro.
Zio Checco non è soltanto un uomo ingegnoso, è un inventore, un artefice. Il fondo del suo lavoro è fantasia, stramberia; quello che fa lascia sempre un po’ perplessi, si sente che è avventura: sono sicuro che il carattere di Dedalo era così. I suoi ingegni sono specialmente meccanici e fabbrili. Trasformare è il suo regno: un’automobile in un trattore, un tornio in un compressore, una motocicletta in una sega; in questo campo lo zio è imbattibile. Quand’era più giovane e socio attivo della “Ditta”, il problema principale era di tenerlo lontano dalle automobili nuove. Il suo occhio coglieva subito le possibilità di migliorare qualunque nuovo acquisto.
«Non c’è male la nuova Lancia, però ci vorrebbe una piccola modifica alle sospensioni anteriori. Li vedi questi longheroni? Pensavo che se li seghiamo qui, e ci saldiamo quella della Nove…»
Le modifiche se le faceva lui stesso, tirando mazzate e bestemmie nella forgia. Il risultato era importante, ma più importante il processo: penso che nei momenti di irresponsabilità che abbiamo tutti, sognasse una macchina interamente fatta di modifiche, un incrocio geniale e inutile tra l’argano, il tassì e la fresatrice, coi fanali a carburo.
Negli ultimi tempi ha quasi smesso di eseguire modifiche: prende uno sgabello e sta seduto le ore con le ore accanto al camion di Roberto, a rimuginare. Non sono malfatti, questi trabiccoli moderni; ma ci vorrebbero tante piccole modifiche che saltano agli occhi. Lo zio seguendo il filo dei suoi calcoli si distende per terra, s’infila sotto il camion, e là lo trovano quando vanno a chiamarlo all’ora dei pasti. Mi dicono che in questi ultimi mesi si mette perfino a dormire nella rimessa, vicino ai camion.

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(1) compagni = simili nell’aspetto fisico.
(2) capìo = capito.
(3) cattàrlo = trovarlo.
(4) Meneghello ha annotato che qui “furbi” è nel senso di “canaglie”.
(5) mone = persone o personaggi poco seri (annotazione dell’Autore).
(6) bozzoli = quelli dei bachi da seta.
(7) da l’os = della malora.
(8) assistetemi - te l’ultima – gonìa = assistetemi nell’ultima agonia.
(9) popà = papà.
(10) giarón = ghiaione.
(11) mangiare i radicchi per il manico = andare, in pratica, sottoterra, quindi morire.
(12) balustrato = costretto a fare il soldato di leva.
(13) Ermete Trismegisto = personaggio leggendario dell’Età Antica, venerato come maestro per la sua grandissima sapienza; è chiaro che il nonno dell’Autore non ricevette alcuna influenza da tale personaggio.
(14) Filotee = libri di preghiere e meditazioni a carattere religioso.
(15) can da l’ostia = scrive Meneghello nelle note al libro che «dopo un nome di persona, e proferito col tono giusto, significa: “Dunque anche tu ce l’hai fatta finora! Me ne rallegro; però ricordati che so benissimo che figura-inténta che sei!”. Figura inténta (quasi “intinta di fuliggine”) = “personaggio losco ma capace di essere simpatico”.»
(16) ne ho una gnocca! = sono così stufo!
(17) va-là, mago = non dire sciocchezze, baùco.
(18) ca spùa? = vuoi che sputi?





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