Dopo quella precedente
(post numero 100), un’altra storia di bullismo, che si risolve però in maniera
positiva. Perché nei racconti succede così, mentre nella realtà le cose non
finiscono sempre bene.
Il brano è tratto da “L’inventore
di sogni”, un romanzo del 1993, che narra la crescita di un adolescente
attratto dal mondo dei sogni.
C’era un prepotente nella classe
di Peter; si chiamava Barry Tamerlane. Non aveva l’aria da prepotente. Non era
di quelli sempre tutti sporchi; non aveva una faccia brutta, e neppure lo
sguardo da far paura o le croste sopra le dita, e non girava armato. Non era
poi tanto grosso. Ma nemmeno di quei tipi piccoli, ossuti e nervosi che quando
fanno la lotta possono diventare cattivi. A casa non lo picchiavano, come
spesso succede ai prepotenti, e neanche lo viziavano. Aveva genitori gentili ma
fermi, che non sospettavano nulla.
La voce non ce l’aveva né acuta
né rauca; gli occhi, non particolarmente piccoli e cattivi, e non era neppure
troppo cretino. Anzi, a guardarlo era bello morbido e tondo, pur senza essere
grasso; portava gli occhiali e, sulla sua faccia soffice e rosa luccicava l’argento
dell’apparecchio dei denti. Spesso metteva su un’aria triste e innocente che a
certi grandi piaceva e che gli tornava comoda quando doveva togliersi dai guai.
Come si spiega allora che Barry
Tamerlane riuscisse tanto bene a fare il prepotente? Peter aveva dedicato a
questa domanda un bel po’ di pensieri. Ed era giunto alla conclusione che il
successo di Barry avesse due spiegazioni. La prima era che Barry sembrava
capace di ridurre al minimo i tempi tra il volere una cosa e l’ottenerla.
Supponiamo ad esempio che gli andasse a genio il giocattolo che aveva un
bambino in cortile: lui non faceva altro che strapparglielo di mano. Oppure se
in classe gli serviva una matita, si voltava e “prendeva in prestito” quella di
un compagno. Se c’era da fare una coda, lui si metteva per primo. Se ce l’aveva
con qualcuno, glielo diceva in faccia e poi lo picchiava senza pietà.
La seconda ragione del successo
di Tamerlane era che di lui avevano tutti paura. Non si sapeva bene perché.
Bastava sentirlo nominare per provare una specie di pugno gelato alla bocca
dello stomaco. Uno aveva paura, perché ce l’avevano gli altri. Barry metteva
paura, perché aveva la reputazione di uno che mette paura. Vedendolo arrivare,
la gente se ne stava alla larga, e se chiedeva caramelle o un giocattolo, se le
vedeva subito consegnare. Facevano tutti così, perciò sembrava logico non fare
in modo diverso.
Barry Tamerlane era potente in
tutta la scuola. Nessuno poteva impedirgli di prendersi quel che voleva.
Neanche lui stesso. Era una forza cieca.
A volte Peter pensava che fosse
come un robot programmato per fare tutto quel che doveva. Che strano che non
gli importasse di essere senza amici, o di essere odiato ed evitato da tutti.
Naturalmente, Peter si teneva
lontano da quel prepotente, ma provava per lui un interesse speciale. Barry
Tamerlane era un mistero.
Quando compì undici anni, Barry
invitò a casa una dozzina di compagni. Peter cercò di salvarsi, ma i suoi
genitori furono irremovibili. Dal canto loro trovavano simpatici la mamma e il
papa di Barry e perciò, in base a una logica adulta, Peter doveva trovare
simpatico il figlio.
Il festeggiato tutto sorridente
accolse i bambini sulla porta di casa. «Salve Peter! Grazie! Ehi, Mamma, guarda
che cosa mi ha regalato il mio amico Peter!»
Quel pomeriggio, Barry fu cortese
con tutti i suoi ospiti. Partecipava alle gare, senza pretendere di vincere
sempre, soltanto perché era il suo compleanno. Rideva con i genitori e versava
da bere, e aiutò addirittura a rimettere in ordine e a lavare i piatti.
A un certo momento della festa,
Peter sbirciò nella stanza di Barry. C’erano libri dappertutto, una pista da
trenino montata sul pavimento, un vecchio orso di pezza sul letto appoggiato al
cuscino, una scatola del piccolo chimico, un gioco elettronico: una stanza
identica in tutto e per tutto alla sua.
Alla fine del pomeriggio, Barry
salutò Peter con una pacca sul braccio e gli disse: «A domani Peter». Allora
Barry Tamerlane ha una doppia vita, pensava Peter tornando a casa. Ogni mattina
in un determinato punto del tragitto tra casa e scuola, il bambino si trasforma
in un mostro, e la sera, il mostro ritorna bambino. Questi pensieri portarono
Peter a fantasticare su pozioni e incantesimi che trasformano le persone; poi
però, nelle settimane che seguirono la festa di compleanno, si scordò tutto
quanto. È già un mistero che riusciamo a vivere circondati da tanti misteri, e
in fondo l’universo è pieno di enigmi ben più straordinari di quello di Barry
Tamerlane.
Uno di questi enigmi aveva
ingombrato la mente di Peter piuttosto spesso negli ultimi tempi. Camminando
nel corridoio della scuola diretto alla biblioteca, aveva incrociato due
ragazze delle classi alte. Una delle due stava dicendo all’amica: «Ma come fai
a sapere che adesso non stai sognando? Magari stai solo sognando di parlare con
me».
«Be',» disse l'amica, «basta che
mi dia un pizzico: se mi fa male, mi sveglio».
«Ma prova a pensare,» disse la
prima, «se stessi solo sognando di pizzicarti, e anche di aver sentito male.
Potrebbe essere tutto un sogno e tu non lo sapresti mai...»
Svoltarono l’angolo e sparirono.
Peter rimase a riflettere. Quell’idea
era venuta in mente anche a lui, ma non era mai riuscito a formularla con
altrettanta chiarezza. Si guardò intorno. Lui con il libro della biblioteca in
mano, il corridoio grande pieno di luce, le aule che si aprivano a destra e
sinistra, i bambini che uscivano: forse non c’era niente di vero. Forse erano
solo il frutto dei suoi pensieri. Sul muro proprio accanto a lui c’era un
estintore. Allungò una mano e lo toccò. Il metallo rosso era freddo al tatto. Era
solido, reale.
Come avrebbe potuto non esserci?
E del resto, nei sogni le cose andavano esattamente così: tutto sembrava vero.
Era solo svegliandosi che uno si rendeva conto di avere sognato. Come poteva
essere sicuro di non averlo sognato quell’estintore, con la vernice rossa e la
sensazione di freddo?
Passavano i giorni e Peter
pensava sempre di più a questo problema.
Un pomeriggio si trovava in giardino
e improvvisamente si rese conto che se il mondo che vedeva lo stava
semplicemente sognando, allora era lui a determinare tutto quel che c’era
dentro e che capitava. In alto un aereo aveva iniziato la fase di atterraggio.
Il sole ne accese le ali di un luccichio d’argento. Tutta quella gente che
adesso stava tirando su il sedile e mettendo da parte i giornali, non poteva
avere idea di essere solo sognata da un ragazzino laggiù sulla terra.
Era colpa sua? Che pensiero
orribile! Comunque, se così fosse stato, tutti gli incidenti aerei non sarebbero
stati veri, no? Sarebbero stati solo dei sogni. Ciononostante, Peter fissò l’aereo
sulla sua testa e desiderò con tutte le forze che arrivasse sano e salvo in
aeroporto. E così fu.
Un paio di sere dopo, la mamma di
Peter entrò in camera sua per augurargli la buona notte. Proprio nell’attimo in
cui le labbra sfioravano la sua guancia, Peter ebbe un altro di quei pensieri.
Se questo era un sogno, che ne
sarebbe stato di sua madre al risveglio? Ce ne sarebbe stata un’altra, più o
meno uguale, ma vera? Oppure una completamente diversa? O magari nessuna? Mrs.
Fortune rimase piuttosto sconcertata, quando suo figlio le gettò le braccia intorno
al collo e non voleva più lasciarla andar via.
Con l’andar dei giorni, a furia
di rigirarsi in testa quel pensiero, Peter finì per convincersi che la sua vita
fosse probabilmente soltanto un sogno. C’era qualcosa di simile a un sogno nel
modo in cui i bambini al mattino si riversavano tutti a scuola, e nel modo in
cui la voce della maestra fluttuava nell’aria dell’aula, e nel fruscio che
faceva la sua gonna, quando si dirigeva verso la lavagna. Ed era decisamente da
sogno, il modo in cui la maestra gli si parava di fronte all’improvviso per
chiedergli:
«Peter? Peter? Mi ascolti? Stavi
fantasticando di nuovo?»
Lui si sforzò di dirle la verità.
«Credo di aver sognato che stavo fantasticando».
L’intera classe scoppiò a ridere.
Meno male che Mrs. Burnett aveva un debole per lui. Gli passò una mano tra i
capelli e disse: «Sta’ attento». Poi si avviò al fondo dell’aula.
Fu dunque così che quel giorno
durante la ricreazione, Peter si ritrovò da solo ai margini del cortile.
Guardando, chiunque avrebbe visto un bambino vicino al muro che fissava lo
sguardo nel vuoto, senza fare niente. In realtà, Peter pensava molto intensamente.
Era stato sul punto di addentare la mela, quand’ecco un’altra delle sue idee
brillanti. Un’illuminazione. Se la vita era un sogno, allora la morte doveva
essere il momento in cui ci si sveglia. Era talmente semplice che non poteva
non essere così. Uno moriva, il sogno era finito, e ci si svegliava. Ecco
perché la gente parlava di paradiso. Era come svegliarsi. Peter sorrise. Stava
quasi per concedersi la ricompensa di un morso di mela, quando sollevò lo
sguardo e si ritrovò gli occhi puntati sulla faccia rosa e tondetta di Barry
Tamerlane, il prepotente della scuola.
Sorrideva, ma non aveva l’aria
contenta. Sorrideva, perché voleva qualcosa. Aveva attraversato il cortile in
diagonale, senza badare agli altri che giocavano a pallone, a campana e a
saltare la corda. Tese molto semplicemente la mano e disse: «Voglio quella mela».
Poi tornò a sorridere. Un raggio di sole illuminò l’argento del suo
apparecchio.
Dovete sapere che Peter non era
un codardo. Una volta era sceso zoppicando da una montagna del Galles con una
caviglia slogata, senza un solo lamento. E un’altra volta, si era gettato nel
mare in burrasca tutto vestito, per andare a salvare il cane di una signora dalle
onde. Ma non aveva coraggio per le risse. Era più forte di lui. Era un
ragazzino abbastanza robusto per la sua età, ma sapeva che non sarebbe mai
riuscito a vincere facendo la lotta, perché non ce l’avrebbe fatta a colpire un
altro sul serio. Quando in cortile scoppiava una rissa, e tutti i bambini si
facevano intorno a vedere, a Peter veniva la nausea e gli tremavano le
ginocchia.
«Avanti,» disse Barry Tamerlane
in tono ragionevole. «Passami quella mela, se non vuoi che ti disfi la faccia».
Peter sentì il gelo salirgli dai
piedi e diffondersi in tutto il corpo. La mela era gialla striata di rosso. La
buccia era un po’ vizza, perché se l’era portata a scuola una settimana prima
ed era rimasta nel banco tutto quel tempo, emanando un profumo dolce di legno.
Valeva la pena di farsi disfare la faccia per così poco? Certamente no. E d’altra
parte, era giusto cederla, solo perché un prepotente la voleva?
Rivolse lo sguardo su Barry
Tamerlane. Si era fatto un po’ più vicino. La sua faccia rotonda, da rosa era
diventata rossa. Le lenti gli ingrandivano gli occhi. Una bollicina di saliva
brillava sospesa tra il ferretto e uno dei denti davanti. Non era più grosso, e
di sicuro, nemmeno più forte di Peter.
«Dai Peter! Fagli vedere!» disse
qualcuno inutilmente. Barry Tamerlane si voltò lanciando un’occhiata cattiva, e
il ragazzino si rintanò in fondo alla folla.
«Dai Barry! Tocca a te!» dicevano
altre voci.
A Barry Tamerlane non piaceva
essere contrastato. Si stava preparando a menare le mani. Voltandosi di
profilo, stava già tirando all’indietro un pugno. Teneva le ginocchia
leggermente piegate e ondeggiava di qua e di là. Sembrava sapere il fatto suo.
Altri bambini si radunavano in
cerchio. Peter sentì l’annuncio diffondersi in tutto il cortile: «Si picchiano!
Si picchiano!» Arrivava gente da tutte le direzioni.
Peter si sentiva il cuore battere
forte dentro le orecchie. L’ultima volta che si era trovato in una situazione
del genere, lui era un gatto che poteva contare sui trucchi di un essere umano
(1), questa volta non era così facile. Cercando di prendere tempo, si passò la
mela da una mano all’altra e disse: «La vuoi davvero questa mela?»
«Hai sentito benissimo,» replicò
Tamerlane con voce monotona. «Quella mela è mia».
Peter osservò il bambino che si
stava preparando a colpirlo e gli venne in mente... la festa di compleanno di
tre settimane prima, quando Barry era stato così affettuoso e cordiale. E
adesso, eccolo lì a fare tutte le smorfie possibili per sembrare cattivo. Che
cosa gli faceva credere che quando era a scuola aveva il diritto di fare e di
prendersi tutto ciò che voleva?
Peter osò distogliere un attimo
lo sguardo dall’avversario e vide il cerchio di facce spaventate che gli si
accalcavano intorno. Gli occhi spalancati, le bocche appese. Tamerlane il
terribile stava per mettere a terra un bambino e nessuno poteva farci granché. Che
cosa rendeva tanto potente il roseo, il paffuto Barry? E all’improvviso, dal
nulla, Peter trovò la risposta. Ma è ovvio, pensò. Siamo noi. Siamo noi che lo
abbiamo sognato come il prepotente della scuola. Non è più forte di nessuno di
noi. Tutta la sua forza e il potere, ce la siamo sognata noi. Noi abbiamo fatto
di lui quel che è. Quando va a casa e nessuno gli crede se fa il prepotente,
allora torna se stesso.
Barry tornò a parlare. «È la tua
ultima occasione. Dammi quella mela o preparati a fare un volo che ti porterà
diretto dentro la settimana che viene».
Per tutta risposta, Peter si
portò la mela alla bocca e ne staccò un gran morso. «Vuoi sapere una cosa?» -
gli disse lentamente, senza smettere di masticare. «Io non ti credo. Anzi, se proprio
vuoi saperlo, non credo nemmeno che tu esista».
La folla trattenne il fiato,
qualcuno azzardò una risatina. Peter sembrava talmente sicuro di sé. Magari era
vero. Persino Barry aggrottò le ciglia e smise di ondeggiare. «Che cosa hai
detto?»
La paura di Peter era scomparsa
del tutto. Se ne stava in piedi di fronte a Barry e gli rivolgeva un sorriso, come
se avesse pietà del suo non esistere. Dopo settimane di elucubrazioni intorno
alla natura di sogno della vita, Peter aveva deciso che nel caso del prepotente
Barry le cose stavano sicuramente così, e che perciò, se anche l’avesse colpito
in faccia con tutta la forza che aveva, non gli avrebbe fatto più male di quanto
poteva fargliene un’ombra.
Barry si era ripreso e si
preparava a combattere.
Peter staccò un altro morso di
mela. Mise la faccia vicina a quella di Barry e lo squadrò come se avesse di
fronte una vignetta buffa disegnata sul muro. «Tu non sei altro che un grasso
budino rosa... coi denti di ferro.»
Ci fu uno scroscio di risa tra la
folla che si diffuse, differenziandosi in risolini, sghignazzi e grida. I
bambini si davano di gomito, battendosi sulle ginocchia. Fingevano,
naturalmente. Ciascuno voleva dimostrare agli altri che gli era passata la
paura. Frammenti di quell’insulto rimbalzarono di bocca in bocca: «Budino
rosa... denti di ferro... un budino coi denti!». Peter sapeva di aver detto una
crudeltà. Ma che importanza poteva avere? Tanto Barry non era vero. Adesso
appariva di un bel rosa acceso, più di qualunque budino mai visto. Chissà come odiava
essere lì.
Peter incalzò, prima che l’altro
recuperasse la rabbia.
«Sono stato a casa tua. Ti
ricordi? Per il tuo compleanno. Tu sei un bambino normale, tranquillo. Ti ho
anche visto aiutare tua mamma a lavare i piatti...»
«Aaaaaaah,» fece eco la folla
accompagnando l’esclamazione con una nota di caloroso disprezzo.
«Non è vero,» vomitò Barry. Aveva
gli occhi lucidi.
«E poi ho guardato in camera tua e
ho visto l’orsacchiotto ben rincalzato sotto le coperte.»
«Aaaaaaah,» gridò la folla, procedendo
dalla sorpresa al più sincero sberleffo. «Uuuuuuuuh! Piccolino... pisciasotto...
dorme soltanto con l’orsacchiotto... aaaaah.»
Va da sé che non c’era uno solo
tra i presenti che non nascondesse una segreta passione per qualche vecchio
animale di pezza malconcio e che non se lo coccolasse tutte le notti. Ma che
soddisfazione, scoprire che il prepotente non era da meno.
È probabile che Barry Tamerlane
avesse ancora in mente l’idea di picchiare Peter. Con il crescere delle grida
di scherno, la sua mano si sollevò in un pugno poco convinto. E proprio a quel
punto accadde una cosa terribile. Barry si mise a piangere. Inutile far finta
di niente. Le lacrime gli correvano ai lati del naso senza che lui riuscisse a
controllarle. Sussultava con tutto il corpo e di tanto in tanto tirava su un po’
d’aria per respirare. Ma la folla non ebbe pietà.
«Oh poverino, vuole la mamma...»
«No, l'orsacchiotto...»
«Uuuuuuuh! Che vergogna...»
Ormai il pianto era tanto dirotto
che Barry non ebbe neppure la forza di allontanarsi. Rimase lì, in mezzo al
cerchio degli altri bambini, a piangersi e a smoccolarsi dentro le mani. Erano
tutti e tutto contro di lui. Nessuno gli credeva più. La bolla del sogno era
scoppiata facendo svanire anche il prepotente di prima.
A poco a poco risa e battute si
spensero in un silenzio imbarazzato che contagiò la folla. I bambini
incominciarono ad allontanarsi per tornare a giocare. Una maestra attraversò di
corsa il cortile, cinse col braccio le spalle del ragazzino rimasto solo e lo
portò via, dicendo: «Povero caro! Qualcuno ti ha fatto un dispetto?»
Per il resto di quella mattina in
classe, Barry rimase muto. Si ingobbì sul quaderno senza più alzare gli occhi
per non incontrare lo sguardo degli altri. Sembrava che stesse cercando di
farsi più piccolo, di sparire magari.
Peter, al contrario, si sentiva
pieno di sé. Rientrò dal cortile e prese posto nel banco, proprio dietro a
Barry, facendo finta di ignorare le strizzatine d’occhi e i sorrisi
riconoscenti che lo circondavano. Aveva messo al tappeto quel prepotente senza
bisogno di alzare un dito, e quasi tutta la scuola lo aveva visto. Era
diventato un eroe, un conquistatore, superman. Non c’era impresa impossibile
per la sua intelligenza superiore e per la sua astuzia.
Ma col passare delle ore,
incominciò a sentirsi vagamente diverso. Le parole che aveva detto si misero a
ossessionarlo. Le aveva dette davvero? Non poté non notare la sagoma ricurva di
Barry Tamerlane davanti a lui. Peter si chinò e gli batté sulla schiena con il
righello. Ma Barry scosse la testa e non rispose... Peter trasalì al ricordo di
quel che aveva detto. Si sforzò di far mente locale su tutte le atrocità
commesse da Barry. Cercò di concentrarsi sulla sua vittoria, ma non provava più
alcuna soddisfazione. Si era preso gioco di Barry solo perché era grasso e
portava l’apparecchio e aveva un orsacchiotto e aiutava sua mamma a lavare i
piatti. Certo, aveva voluto difendersi e
dare una buona lezione a Barry, ma aveva finito col trasformarlo in un oggetto
di scherno per tutta la scuola. Le sue parole gli avevano fatto molto più male
di qualsiasi pugno sul naso. Lo avevano umiliato. E adesso il prepotente chi
era?
Uscendo per l’intervallo del
pranzo, Peter appoggiò un biglietto sul banco di Barry. C’era scritto: «Ti va
di giocare a pallone? PS. Ce l’ho anch'io un orsacchiotto e devo sempre aiutare
mia madre a lavare i piatti. Peter».
Barry era terrorizzato al
pensiero di dover affrontare gli altri nell’intervallo, perciò accettò
volentieri. I due ragazzini organizzarono una partita e vollero a tutti i costi
essere messi nella stessa squadra. Si aiutarono a segnare, e uscirono dal campo
tenendosi sottobraccio. Non aveva più senso continuare a prendere in giro
Barry. Lui e Peter divennero amici, non proprio del cuore, ma amici, comunque.
Barry appese in camera sua il biglietto che Peter gli aveva scritto, e del prepotente,
come succede con i brutti sogni, ci si scordò presto.
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(1) La frase fa riferimento ad un
altro episodio del romanzo, nel quale Peter si era scontrato con il gatto dei
vicini.
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