venerdì 18 agosto 2017

97 Libera nos a malo: capitolo 21 (di Luigi Meneghello)




Com’erano (come sono?) le relazioni tra ragazzi e ragazze della Compagnia? Quali aspettative avevano i maschi e quali le femmine? E che cosa la vita riservava a loro nella realtà? Forse un matrimonio tardivo, una solitudine appassita, un odio così profondo da assomigliare a un profondo amore. Bellissimo capitolo in cui Meneghello descrive con lucidità il mondo dei giovani di allora, forse non tanto diverso da quello di oggi.

La Compagnia operava in tutto il territorio dei comuni vicini: c’erano sortite campestri, prede campagnole, razzie nei paesi, San Vito, Marano, e nelle frazioni del comune, Vacchetta, Molina, Case, Santomìo. Pattuglie s’avventuravano oltre la cerchia rurale, fino ai grossi luoghi borgati, Thiene, Valdagno, Schio.
All’appuntamento alla Melonara la ragazza da Schio che aveva promesso di portarsi anche un’amica, tardava ad arrivare. Ampelio s’era lavato i denti, altri il collo, tutti avevano fatto preparativi speciali, perché le ragazze da Schio sono quasi di città.
Finalmente arrivò: era su una bicicletta da uomo, con dietro un carrettino di quelli per portare il latte; su questo era appollaiata l’amica, colle calze di seta e i tacchi alti. L’amica era prenotata per Bruno: gliel’avevano mostrata in piscina, ma da lontano e seduta. Seduta poteva anche andare, ma quando smontò dal carrettino, invece di acquistare altezza ne perse: coi tacchi e tutto era grande così. La serata fu disastrosa; entro dieci minuti una delle signorine da Schio aveva già detto «Va’ in merda», e l’altra «Dio-scàlso che fretta ragassi».
Molte imprese erano individuali, e anzi riservate e semisegrete; ma nello spirito erano condivise. L’amico che s’avvia con finta indifferenza, parte anche a nome nostro; domani il suo successo sarà un trofeo di tutti. È così bello sentire un’altra conferma che siamo in gamba! Naturalmente c’erano anche degli infortuni.
Guido, strapazzatore di donne, fu udito un giorno, dietro una siepe corteggiarne una. Aveva fatto la voce dolce e diceva:
«Ho tanto bisogno di affetto».
Non si è più riabilitato. «Affetto!» dicono gli amici; «ma pensa un po’, con quella maia!»
Prima che si aprisse in questa materia l’età di Ulderico, Guido era uno dei grandi specialisti dell’avventura campestre, e in genere della spedizione amorosa, specie notturna. Partiva con fare misterioso, con pregnanti reticenze, e con una coperta; come un cavaliere previdente che s’allontani dietro la notte dai nubili occhi.
Una volta dopo una di queste sue partenze, gli amici andarono al cinema a Schio per confondere i morsi dell’invidia. Qualche fila più avanti c’era Guido solo soletto, con la coperta ripiegata sul sedile accanto.
Goffo, bonaccione, avaro, cordiale, il Pesta entrò tardi nella Compagnia. Veniva da Belluno, vendeva granaglie; aveva mezzi superiori agli altri, a cominciare dal camioncino che era stato una Lancia Augusta. Portava via una ragazza “a fare una bella gita”, poi si stufava dopo una prima rapida sosta sotto un albero al margine della strada; si stufava, ancora di prima mattina, e rimandava a casa la ragazza senza tanti complimenti.
«Ma perché?» diceva la poveretta. Si era comprata la sciarpa nuova, la sottoveste di nailon.
«Perché di sì. A casa, a casa.»
«Ma che cosa gli dico io, a casa? ho raccontato che vado in gita tutto il giorno con due amiche.»
«Digli che sono morte.»
Il Pesta era un buon ragazzo, ma soggetto a questi umori irresistibili. Aveva sempre mal di testa, e prendeva polverine.

Il clima della Compagnia paesana irrobustisce, come il mio capitano disse che fa la naia alpina, quando ci avvertì che nelle reclute la circonferenza del torace cresce in media di un paio di centimetri e ci esortò a non abbassare la media.
Ma tra quelli che in paese restano tagliati fuori da una Compagnia, i brutti, gli introversi, gli scarsi, i più si accorgono poi nella prima maturità di non possedere un altro sistema di valori da opporre a quello delle Compagnie, e se non vogliono arrendersi, restando forse per sempre povera gente (scapoli imbelli, comici mariti), devono tentare alla disperata una marcia di avvicinamento.
Se ne vedono, di questi sbandati e ritardatari, mettersi a marciare sui diciotto, sui venti, anche sui venticinque anni, e in certi casi estremi anche più tardi. La verità e la vita sono laggiù, dove la Compagnia si scapriccia pigramente, senza sforzi, come oziando. Qui c’è la polvere e l’ansia: gli sbandati col volto sudato s’allenano pazientemente a bestemmiare, a bere, a dirompere pollastri, a sedurre; e marciano, marciano, di giorno e di notte.
Se ne vedono tanti scoppiare sul bordo della strada, ma qualcuno arriva al ricongiungimento. Poi a volte non riescono più a fermarsi: in mezzo agli anziani ormai disposti ad accettarli, continuano a ripetere di sera in sera, di cena in cena, di dama in dama, la dimostrazione che nessuno più chiede. Con bestemmie e mangiate iperboliche, con intense, troppo intense imprese amorose, i ricongiunti marciano ancora, descrivendo un cerchio sull’impiantito delle osterie.
Questo è un ricongiunto che rientra a tarda sera da un’escursione: coperta arrotolata e bene in vista sul seggiolino posteriore, risposte vaghe, aria di virile noncuranza che vela appena una massa ardente di fierezza. Altra buona giornata di lavoro, altro chiodo ribattuto sul coperchio della propria identità. E ora, allo sfruttamento notturno della vittoria, conferma e premio, zuppa di trippe, litro di nero, arrosto di mezzanotte!

Ampelio nella Compagnia era uno dei tre o quattro più importanti, il più ricercato, quello che si vestiva meglio. Era anche il più tegnoso (1). Chiudeva la benzina, arrivando in moto da Schio, molto prima della curva del Conte, per scolare a fondo il carburatore. Tutto era calcolato alla perfezione: il motore moriva a duecento e più metri da casa sua, e la moto continuava in folle giusto giusto fin sul portone. Il motorino della sua moto (fu tra i primi della Compagnia a motorizzarsi, subito dopo la guerra) viveva in uno stato perenne di strozzatura, alimentato dal più piccolo giglèr (2) della provincia, con un forellino invisibile. Non c’è dubbio che a Ampelio pareva ancora una falla, un ventricolo squarciato; sognava un mondo felice, popolato di giglèr senza buco.
Era fatale che Cesco Pozzàn glielo smontasse in segreto, e ci trapanasse dentro un buco che era piuttosto uno sfondamento. Il motorino, disavvezzo a quella bobàna (3), poppava di furia e faceva strani rumori come un ubriaco spolpo. Il serbatoio pieno durò un po’ meno di un chilometro e mezzo.
Si sa come sono questi tegnosi però: si sottopongono a qualunque fatica per sparagnare, ma poi ci tengono smodatamente alle proprie comodità. La vita di Ampelio era piena di mollezze razionate, di archetti (4) sibaritici (5). La sua moto era un aggeggino senza alcun pregio particolare, ma densa di specchietti; e Ampelio la teneva lustra, spolverata, immacolata.
Alla domenica portava la morosa a fare gite in montagna, e dove cominciano le salite, per non stancare il motore, la faceva scendere e proseguire a piedi, parte per scorciatoie parte spingendo nei punti più ripidi. Così fecero un sacco di gite senza tirare il collo alla moto.
I rapporti di Ampelio con questa morosa sono restati storici in paese. In sostanza lui non voleva né sposarla né mollarla.
In paese una ragazza deve far presto: ha tre o quattro anni di tempo (di solito prima dei venti o ventuno) per farsi scegliere da un moroso, e se sbaglia addio. C’è un periodo tra l’adolescenza e la prima gioventù in cui ogni ragazza è fresca, e le sue possibilità sono indeterminate. Quello è il momento di mirare il più in alto possibile (ma senza passare il segno) là dove si crede di poter tener duro durante l’inevitabile fidanzamento lungo.
La capacità di tener duro di una ragazza che sappia il fatto suo è sorprendente: all’inizio la presa è facile, il ragazzo è tutto un appiglio, ha fame e sete di quello che la ragazza ha da dargli; sconvenienze di ceto, differenze d’età, famiglie ostili, nulla basta a fermarlo. Ma in seguito comincia il lungo assedio: il ragazzo non è ancora sistemato, la famiglia non è disposta a muovere un dito, anzi spera che il pericolo passi (se non c’è dote, o almeno un mestiere, il pericolo è sempre giudicato grave). I due assediati resistono: lui fa la difesa passiva, sempre più rattristato, preso da una serie di abitudini che ogni tanto gli pare già di detestare. L’anima della difesa è lei, che non può arrendersi, e per lo più finisce col vincere: imbruttita, sfibrata, sale all’altare, in bianco. Da anni ne ha perduto il diritto tecnico, ma su questo nessuno sottilizza.
Questa è la vittoria della ragazza. Molto più raramente è l’uomo che riporta una vittoria equivalente su una ragazza scompagnata ma anche distintamente nubile (capita alle belle e timide per esempio), che comincia a sospettarsi la vocazione della zitella. Quando compare questa sindrome, accade talvolta che un uomo anziano, screditato, benestante, si precipiti sulla preda e la rapisca praticamente senza fidanzamento: spesso è un uomo veramente scalcinato, molto stupido per esempio, o fisicamente ridicolo. Questa è la vittoria dell’uomo.
Altre volte invece la ragazza resta semplicemente da maritare. Il moroso la pianta, e a chi è piantata dal moroso, se poi le va bene è un bel caso. Qualcuna prova mezzi extra-paesani, impiegucci in città, villeggiature solitarie; annoda qualche relazione ovviamente non opportuna, prova a chiudere un occhio, a consolarsi. Per lo più tornano a casa amareggiate e ormai squalificate del tutto, e fanno quello che fanno le più timide restate in paese: sposano il loro destino di sorelle non più nubili, di zie, di figlie incaricate di badare ai vecchi. Le più indipendenti quando tutto il resto è perduto, si danno gratis a giovanotti famelici che vengono alla notte colle scarpe in mano, e si sentono in lotta coi cigolii delle porte, colle scale che scricchiano.
Che Ampelio non voleva sposarla era evidente. Lo capiva lei, lo capivano tutti. La cosa era già probabile dieci anni prima, da almeno cinque era diventata certa, poi scandalosa, poi assurda e surrealistica.
Sposarla neanche morto: guai però se lei, come fece più volte, prendeva il coraggio a due mani e diceva: «E va bene, facciamola finita». Improvvisamente da dongiovanni incatturabile Ampelio diventava un agnellino disperato, e belava.
Lei provò ad andarsene senza dirgli niente. Ampelio arrivava in corriera, impomatato, disinvolto; sentiva dagli amici in piazza che era partita: e lì sui due piedi, come punto dalla tarantola, si scatenava. «Dov’è andata?» diceva con le lacrime agli occhi; «me lo dovete dire, lo devo sapere, devo raggiungerla, deve tornare.» Appena raggiunta, appena tornata, si ricominciava.
Negli ultimi anni lei non aveva altra speranza che di riuscire a farsi sposare, per poter passare il resto della vita a fargliela pagare. Il loro legame di odio era ormai così profondo che non si poteva più distinguere da un profondo amore.

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(1) tegnoso = avaro.
(2) giglèr = deformazione del francese “gicleur”, carburatore.
(3) bobàna = abbondanza, specie non meritata.
(4) archetti = inganni, espedienti.
(5) sibaritico = proprio di un sibarita, ossia un abitante di Sibari, colonia greca nel golfo di Taranto, nota per la ricchezza e la mollezza dei costumi.




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