Com’erano
(come sono?) le relazioni tra ragazzi e ragazze della Compagnia? Quali aspettative
avevano i maschi e quali le femmine? E che cosa la vita riservava a loro nella
realtà? Forse un matrimonio tardivo, una solitudine appassita, un odio così
profondo da assomigliare a un profondo amore. Bellissimo capitolo in cui
Meneghello descrive con lucidità il mondo dei giovani di allora, forse non
tanto diverso da quello di oggi.
La Compagnia operava in tutto il
territorio dei comuni vicini: c’erano sortite campestri, prede campagnole,
razzie nei paesi, San Vito, Marano, e nelle frazioni del comune, Vacchetta,
Molina, Case, Santomìo. Pattuglie s’avventuravano oltre la cerchia rurale, fino
ai grossi luoghi borgati, Thiene, Valdagno, Schio.
All’appuntamento alla Melonara la
ragazza da Schio che aveva promesso di portarsi anche un’amica, tardava ad
arrivare. Ampelio s’era lavato i denti, altri il collo, tutti avevano fatto
preparativi speciali, perché le ragazze da Schio sono quasi di città.
Finalmente arrivò: era su una
bicicletta da uomo, con dietro un carrettino di quelli per portare il latte; su
questo era appollaiata l’amica, colle calze di seta e i tacchi alti. L’amica
era prenotata per Bruno: gliel’avevano mostrata in piscina, ma da lontano e
seduta. Seduta poteva anche andare, ma quando smontò dal carrettino, invece di acquistare
altezza ne perse: coi tacchi e tutto era grande così. La serata fu disastrosa;
entro dieci minuti una delle signorine da Schio aveva già detto «Va’ in merda»,
e l’altra «Dio-scàlso che fretta ragassi».
Molte imprese erano individuali,
e anzi riservate e semisegrete; ma nello spirito erano condivise. L’amico che s’avvia
con finta indifferenza, parte anche a nome nostro; domani il suo successo sarà
un trofeo di tutti. È così bello sentire un’altra conferma che siamo in gamba!
Naturalmente c’erano anche degli infortuni.
Guido, strapazzatore di donne, fu
udito un giorno, dietro una siepe corteggiarne una. Aveva fatto la voce dolce e
diceva:
«Ho tanto bisogno di affetto».
Non si è più riabilitato. «Affetto!»
dicono gli amici; «ma pensa un po’, con quella maia!»
Prima che si aprisse in questa
materia l’età di Ulderico, Guido era uno dei grandi specialisti dell’avventura
campestre, e in genere della spedizione amorosa, specie notturna. Partiva con
fare misterioso, con pregnanti reticenze, e con una coperta; come un cavaliere
previdente che s’allontani dietro la notte dai nubili occhi.
Una volta dopo una di queste sue
partenze, gli amici andarono al cinema a Schio per confondere i morsi dell’invidia.
Qualche fila più avanti c’era Guido solo soletto, con la coperta ripiegata sul
sedile accanto.
Goffo, bonaccione, avaro,
cordiale, il Pesta entrò tardi nella Compagnia. Veniva da Belluno, vendeva
granaglie; aveva mezzi superiori agli altri, a cominciare dal camioncino che
era stato una Lancia Augusta. Portava via una ragazza “a fare una bella gita”,
poi si stufava dopo una prima rapida sosta sotto un albero al margine della
strada; si stufava, ancora di prima mattina, e rimandava a casa la ragazza
senza tanti complimenti.
«Ma perché?» diceva la poveretta.
Si era comprata la sciarpa nuova, la sottoveste di nailon.
«Perché di sì. A casa, a casa.»
«Ma che cosa gli dico io, a casa?
ho raccontato che vado in gita tutto il giorno con due amiche.»
«Digli che sono morte.»
Il Pesta era un buon ragazzo, ma
soggetto a questi umori irresistibili. Aveva sempre mal di testa, e prendeva
polverine.
Il clima della Compagnia paesana
irrobustisce, come il mio capitano disse che fa la naia alpina, quando ci
avvertì che nelle reclute la circonferenza del torace cresce in media di un
paio di centimetri e ci esortò a non abbassare la media.
Ma tra quelli che in paese
restano tagliati fuori da una Compagnia, i brutti, gli introversi, gli scarsi,
i più si accorgono poi nella prima maturità di non possedere un altro sistema
di valori da opporre a quello delle Compagnie, e se non vogliono arrendersi,
restando forse per sempre povera gente (scapoli imbelli, comici mariti), devono
tentare alla disperata una marcia di avvicinamento.
Se ne vedono, di questi sbandati
e ritardatari, mettersi a marciare sui diciotto, sui venti, anche sui
venticinque anni, e in certi casi estremi anche più tardi. La verità e la vita
sono laggiù, dove la Compagnia si scapriccia pigramente, senza sforzi, come
oziando. Qui c’è la polvere e l’ansia: gli sbandati col volto sudato s’allenano
pazientemente a bestemmiare, a bere, a dirompere pollastri, a sedurre; e
marciano, marciano, di giorno e di notte.
Se ne vedono tanti scoppiare sul
bordo della strada, ma qualcuno arriva al ricongiungimento. Poi a volte non
riescono più a fermarsi: in mezzo agli anziani ormai disposti ad accettarli,
continuano a ripetere di sera in sera, di cena in cena, di dama in dama, la
dimostrazione che nessuno più chiede. Con bestemmie e mangiate iperboliche, con
intense, troppo intense imprese amorose, i ricongiunti marciano ancora,
descrivendo un cerchio sull’impiantito delle osterie.
Questo è un ricongiunto che
rientra a tarda sera da un’escursione: coperta arrotolata e bene in vista sul
seggiolino posteriore, risposte vaghe, aria di virile noncuranza che vela
appena una massa ardente di fierezza. Altra buona giornata di lavoro, altro
chiodo ribattuto sul coperchio della propria identità. E ora, allo sfruttamento
notturno della vittoria, conferma e premio, zuppa di trippe, litro di nero,
arrosto di mezzanotte!
Ampelio nella Compagnia era uno
dei tre o quattro più importanti, il più ricercato, quello che si vestiva meglio.
Era anche il più tegnoso (1). Chiudeva la benzina, arrivando in moto da Schio,
molto prima della curva del Conte, per scolare a fondo il carburatore. Tutto era
calcolato alla perfezione: il motore moriva a duecento e più metri da casa sua,
e la moto continuava in folle giusto giusto fin sul portone. Il motorino della
sua moto (fu tra i primi della Compagnia a motorizzarsi, subito dopo la guerra)
viveva in uno stato perenne di strozzatura, alimentato dal più piccolo giglèr (2)
della provincia, con un forellino invisibile. Non c’è dubbio che a Ampelio
pareva ancora una falla, un ventricolo squarciato; sognava un mondo felice,
popolato di giglèr senza buco.
Era fatale che Cesco Pozzàn
glielo smontasse in segreto, e ci trapanasse dentro un buco che era piuttosto
uno sfondamento. Il motorino, disavvezzo a quella bobàna (3), poppava di furia
e faceva strani rumori come un ubriaco spolpo. Il serbatoio pieno durò un po’ meno
di un chilometro e mezzo.
Si sa come sono questi tegnosi
però: si sottopongono a qualunque fatica per sparagnare, ma poi ci tengono
smodatamente alle proprie comodità. La vita di Ampelio era piena di mollezze
razionate, di archetti (4) sibaritici (5). La sua moto era un aggeggino senza
alcun pregio particolare, ma densa di specchietti; e Ampelio la teneva lustra,
spolverata, immacolata.
Alla domenica portava la morosa a
fare gite in montagna, e dove cominciano le salite, per non stancare il motore,
la faceva scendere e proseguire a piedi, parte per scorciatoie parte spingendo
nei punti più ripidi. Così fecero un sacco di gite senza tirare il collo alla
moto.
I rapporti di Ampelio con questa
morosa sono restati storici in paese. In sostanza lui non voleva né sposarla né
mollarla.
In paese una ragazza deve far
presto: ha tre o quattro anni di tempo (di solito prima dei venti o ventuno)
per farsi scegliere da un moroso, e se sbaglia addio. C’è un periodo tra
l’adolescenza e la prima gioventù in cui ogni ragazza è fresca, e le sue
possibilità sono indeterminate. Quello è il momento di mirare il più in alto
possibile (ma senza passare il segno) là dove si crede di poter tener duro
durante l’inevitabile fidanzamento lungo.
La capacità di tener duro di una
ragazza che sappia il fatto suo è sorprendente: all’inizio la presa è facile,
il ragazzo è tutto un appiglio, ha fame e sete di quello che la ragazza ha da
dargli; sconvenienze di ceto, differenze d’età, famiglie ostili, nulla basta a
fermarlo. Ma in seguito comincia il lungo assedio: il ragazzo non è ancora
sistemato, la famiglia non è disposta a muovere un dito, anzi spera che il
pericolo passi (se non c’è dote, o almeno un mestiere, il pericolo è sempre
giudicato grave). I due assediati resistono: lui fa la difesa passiva, sempre
più rattristato, preso da una serie di abitudini che ogni tanto gli pare già di
detestare. L’anima della difesa è lei, che non può arrendersi, e per lo più
finisce col vincere: imbruttita, sfibrata, sale all’altare, in bianco. Da anni
ne ha perduto il diritto tecnico, ma su questo nessuno sottilizza.
Questa è la vittoria della
ragazza. Molto più raramente è l’uomo che riporta una vittoria equivalente su
una ragazza scompagnata ma anche distintamente nubile (capita alle belle e
timide per esempio), che comincia a sospettarsi la vocazione della zitella.
Quando compare questa sindrome, accade talvolta che un uomo anziano,
screditato, benestante, si precipiti sulla preda e la rapisca praticamente
senza fidanzamento: spesso è un uomo veramente scalcinato, molto stupido per
esempio, o fisicamente ridicolo. Questa è la vittoria dell’uomo.
Altre volte invece la ragazza
resta semplicemente da maritare. Il moroso la pianta, e a chi è piantata dal
moroso, se poi le va bene è un bel caso. Qualcuna prova mezzi extra-paesani,
impiegucci in città, villeggiature solitarie; annoda qualche relazione
ovviamente non opportuna, prova a chiudere un occhio, a consolarsi. Per lo più
tornano a casa amareggiate e ormai squalificate del tutto, e fanno quello che
fanno le più timide restate in paese: sposano il loro destino di sorelle non
più nubili, di zie, di figlie incaricate di badare ai vecchi. Le più
indipendenti quando tutto il resto è perduto, si danno gratis a giovanotti
famelici che vengono alla notte colle scarpe in mano, e si sentono in lotta coi
cigolii delle porte, colle scale che scricchiano.
Che Ampelio non voleva sposarla
era evidente. Lo capiva lei, lo capivano tutti. La cosa era già probabile dieci
anni prima, da almeno cinque era diventata certa, poi scandalosa, poi assurda e
surrealistica.
Sposarla neanche morto: guai però
se lei, come fece più volte, prendeva il coraggio a due mani e diceva: «E va
bene, facciamola finita». Improvvisamente da dongiovanni incatturabile Ampelio
diventava un agnellino disperato, e belava.
Lei provò ad andarsene senza
dirgli niente. Ampelio arrivava in corriera, impomatato, disinvolto; sentiva
dagli amici in piazza che era partita: e lì sui due piedi, come punto dalla
tarantola, si scatenava. «Dov’è andata?» diceva con le lacrime agli occhi; «me
lo dovete dire, lo devo sapere, devo raggiungerla, deve tornare.» Appena
raggiunta, appena tornata, si ricominciava.
Negli ultimi anni lei non aveva
altra speranza che di riuscire a farsi sposare, per poter passare il resto
della vita a fargliela pagare. Il loro legame di odio era ormai così profondo
che non si poteva più distinguere da un profondo amore.
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(1) tegnoso = avaro.
(2) giglèr = deformazione del
francese “gicleur”, carburatore.
(3) bobàna = abbondanza, specie
non meritata.
(4) archetti = inganni, espedienti.
(5) sibaritico = proprio di un
sibarita, ossia un abitante di Sibari, colonia greca nel golfo di Taranto, nota
per la ricchezza e la mollezza dei costumi.
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