Malo
e la religione, la Dottrina incomprensibile insegnata ai bambini e su cui essi
finivano con il fantasticare, le donne devote con il loro culto dei santi, i
dubbi dei maschi che, esclusi alcuni concetti chiave, ritengono fronzoli tutto
il resto. Meneghello è qui irreligioso e anticattolico, o credente e chiesastico?
Lascio al lettore il giudizio, che a me personalmente pare chiarissimo. Basta leggere
questo passo in cui parla di ciò che si doveva imparare a memoria fin da
piccoli: le verità della Fede, comprendenti “la definizione di Dio, la Trinità,
la Redenzione; gli elenchi dei misteri, comandamenti, precetti, sacramenti,
virtù, vizi e peccati; e infine gli elementi della Storia Sacra dell’umanità
dalla Creazione al Concordato”. Storicizzando il modo di vivere la religione a
Malo nei tempi antichi, l’autore esprime con ironia il suo pensiero.
Sti ani antichi – co i
copava i peòci coi pichi. (1)
Un prete c’era qui, “questi anni”
(ossia nel remoto fondo del secolo quando i nostri vecchi erano bambini, e mio
padre alle sue prime prove nel mondo del lavoro, usciva col badile alle tre del
mattino a raccogliere letame nelle strade), che diceva messa prima, e faceva
una predica assai semplice, sempre quella.
Taceva a lungo presso la
balaustra, fissando l’uditorio di rozzi ammazzatori di pidocchi, poi proferiva
in tre brusche emissioni il suo messaggio:
Bisogna – èssare –
bòni.
Questa era la predica. Mio papà
se ne ricorda chiaramente. Mi pare che quel nostro prete, che si chiamava don
Culatta, predicasse in modo esauriente: che altro c’è da dire?
Ammazzare i pidocchi col piccone
è difficile e pericoloso. Eppure quest’arte dei nostri antichi, derisa nel
ricordo popolare come il simbolo stesso della rozzezza, sprigiona anche, a
nominarla, l’immagine di una schiatta robusta e fiera perfino nell’eseguire le
piccole bisogne della vita quotidiana, come lo spidocchiarsi, che ancora quand’ero
a scuola io era necessità d’ogni giorno per molti e di tanto in tanto per
tutti. Questi nostri antichi col piccone non saranno mai esistiti in realtà, ma
sono pur esistiti nella fantasia del popolo, e dunque hanno qualche cosa di
vero.
Don Culatta una volta andò a fare
un viaggetto in Toscana, e salito a una malga sull’Appennino, vi domandò puìna
(2). Il vecchio malgaro disse al garzone:
«Da’ un po’ di ricotta a questo
rozzo italiano».
Si dice andar giù in Italia anche
quassù sugli Altipiani; però si dice anche puìna. Di don Culatta, che predicava
per usanza nelle prime messe, si ricorda in paese un’altra predica nella festa
di San Giuseppe, per ordine di Monsignore, a messa ultima.
«Parrocchiani,» disse con la voce
a scatti, paonazzo per lo sforzo. «Sant’Antonio – È un gran santo.» Lunga pausa
congestionata. «San Piero – È un gran santo anche lui.» Pausa. «Ma San
Giuseppe…» E invece di aggiungere parole fece un doppio fischio, e tornò
sull’altare.
Queste memorie sono molto vive
tra i vecchi: insistono che è letteralmente vero che quando il prete chiamato
Seleghetta si batté il petto dicendo mea maxima culpa, gli uccelletti che aveva
in seno fecero pio-pio-pio.
Don Antonio, che allora
chiamavano ancora il Cappellanello, predicava anche lui con molto riserbo.
«La Madonna,» disse una volta
arrivando sul pulpito, e poi tacque chinando la testa. Tacque mezzo minuto, nel
silenzio totale. Poi disse: «La Vergine santissima,» e tacque di nuovo, a testa
china. Passarono minuti interi, il silenzio calamitato pareva ormai senza
misura, la nonna di Mino si vergognava da morire. Poi don Antonio sollevando
lentamente il viso disse: «Sia lodato Gesù Cristo,» e scese. A me questa
predica pare commovente.
Mi dicono che adesso si può
andare a messa anche alla sera. «È valida,» mi assicurano. Mi sento let down (3).
«Scommetto che si può anche
andare alla comunione senza essere digiuno dalla mezzanotte?» dico amaramente,
come per dire uno sproposito. Invece è vero. Basta non mangiare per due ore.
Ostia, ma dove andiamo a finire?
Messa prima, messa del primo,
messa granda, messa ultima. C’era anche una messa del fanci-ulo, ma ho
l’impressione che l’avessero appena inventata, un’innovazione artificiosa.
Invece le altre messe erano incorporate nelle strutture stesse della società, e
facevano parte dell’ambiente come le ore del giorno e della notte.
La messa del primo cadeva
d’inverno tra la notte e il giorno, d’estate in quel margine luminoso del
giorno quando il primo sole batte sulle imposte chiuse delle finestre e
rallegra le strade vuote. Era la messa della gente che ha da fare: ranghi
serrati delle madri di famiglia, figlie primogenite, osti e bottegai della
vecchia generazione, famigliole devote e laboriose.
La messa granda era per le
famiglie di chiesa, per i puristi agiati del centro, per le frotte patriarcali
dei contadini. Era, religiosamente parlando, la messa più vera di tutte, la
messa dell’Arciprete che vi cantava (con una voce incredibilmente malferma
però) e vi faceva le sue dichiarazioni ufficiali durante la predica. Dopo la
messa i contadini si radunavano sulla piazza a far festa chiacchierando a
gruppi.
La messa ultima, alle undici, era
la versione elegante per i borghesi del centro, signorine e giovanotti, coppie
modernizzate, persone anziane non di chiesa, signori, autorità. La tecnica per
accorciare la messa valida era diventata un’arte raffinata. Tutti sanno che si
può entrare al Vangelo e uscire alla Benedizione; ma secondo una corrente di
pensiero abbastanza influente ai miei tempi, il vero punto critico sono i campanelli
dell’Elevazione; si può a scelta o entrare al primo campanello, o uscire
all’ultimo. (Alcuni tentavano un’ardita contaminazio:
ma in malafede.) Del resto andare a messa ultima, specie in fondo alla chiesa,
era un piacere: si facevano bellissime chiacchierate, tutti voltati verso
l’altare; si facevano ridere le ragazze proprio quando passava in ispezione
l’Arciprete. Era come “parlare” a scuola. E le ragazze vestite da festa, col
velo sui capelli, erano specialmente attraenti. Ma la messa più bella era
l’altra, la prima.
Messa prima, nel grembo insonnolito della notte, la preistoria
favolosa del tempo chiamato domenica. Le stelle fuori, i primi canti dei galli;
dentro, la penombra dorata e l’alone giallo delle candele. Un piccolo popolo di
fedeli, poveri, usi ai lavori duri; un prete forse rozzo anche lui, che predica
poco e semplicemente. Una religione che viene prima del resto, e si alza coi braccianti, i montanari, le serve,
la gente che comincia a lavorare all’alba.
Messa prima! Mi pareva incredibile
che ogni domenica, quando noi si dormiva, prima che la notte cominciasse a
sbiadire, avvenisse davvero questa antica cosa che la fantasia isolava in un
tempo fuori dal tempo, senza rapporto con la realtà quotidiana.
Vedo la piccola comunità dei
fedeli che assiste in piedi alla messa prima, nel buio premattutino, assembrata
davanti all’altare. Ciascuno ha un bastone nodoso a cui s’appoggia; sono
vestiti di pelli, hanno la testa rapata, tranne la frangetta di capelli sulla
coppa come un collare alto. Il grosso occhio ugnolo (4) è fisso sul prete.
Il sagrestano, l’antico Checco
Mano, agitava al primo passaggio la borsa rossa (anime del purcatòrio), al
secondo la borsa nera (prete). I ciclopi ci mettevano dentro la manciata delle
ghiande, e qualche volta nella borsa nera pétole (5) di capra.
Un livello, dentro, dove le cose
di notte affondano lentamente e si contraffanno.
Religione e teologia fanno da
sfondo alla vita profana: «Quando andiamo in montagna siamo più vicini a Dio.
Così è anche in Nuova Zelanda, dall’altra parte del mondo, quando vanno in
montagna. Dunque Dio è tondo». Per Mino non è una battuta da ridere ma una deduzione
tanto interessante quanto sorprendente: mentre l’enunciava gli si vedeva nel
viso il gusto della scoperta. Mino non è quello che si dice un miscredente,
questo Dio tondo è il suo Dio, e all’idea che è fatto così sorride ancora un
po’ incerto.
Si pongono ai figli problemi che
erano sconosciuti ai padri. Elia è salito nello spazio prima dei russi, ma
dov’è? I preti dicono però che forse quella storia non è letteralmente vera,
mentre invece è di fede che la Madonna, per esempio, è in cielo col corpo. Così
un giorno, continuando a esplorare lo spazio sempre più in là, è praticamente certo
che la vedremo in orbita.
«Vieni in Prà dopo cena, a vedere
la Madonna? Passa alle otto.» Questi non sono scherzi sulla religione; non è la
religione che si canzona, ma le stramberie esilaranti della vita moderna.
Anche i bambini hanno una
sensibilità teologica naturale. La bambinuccia gioca col gatto e lo vezzeggia:
«Etto: gioia, tesoro!».
L’ammirazione la travolge, cerca
la lode più iperbolica di tutte, la sola adeguata:
«Etto: Vero-dio e Vero-uomo!».
Tutto è moralizzato. «A
l’inferno! la va l’inferno!» sussurrava la Franca scandalizzata e felice,
avendo colto la nostra gatta, che camminava con la coda alzata, in una
condizione che non merita e non ottiene perdono: era senza mutande.
Nasce a volte spontanea la questio teologica.
«Se si può fare la punta al
ferro?» mi domandò il piccolo Roberto. Io stavo cercando di centrare la
finestra del granaio col giavellotto che m’ero fatto, una canna alla quale
Roberto mi aveva visto “fare la punta” con cura. Era ancora chiaro in cortile,
dopo il tramonto.
Gli dissi che si può, ma si fa
più fatica. Continuavo i miei lanci, senza però centrare la finestra. Roberto
disse:
«E se si può fare la punta alla
finestra?».
Mi venne da ridere: gli dissi
che, in un certo senso, volendo, si potrebbe. Roberto era già pronto, e disse:
«E al Signore, se si può fargli
la punta?»
Dovetti confessargli che non lo
sapevo, non sappiamo nulla.
Ma se il rangotàno (6) è la più
forte creatura che esiste, e può lottare chiunque altro, si arriva fatalmente
al problema: il rangotàno è più forte di Dio?
Chi dice che il rangotàno può
lottare anche Dio, chi dice che Dio essendo onnipotente lotta il rangotàno, ma
péna-péna (7).
Che cosa credeva – o crede – la
gente? Che vuol dire “credere” in paese? Le verità della Fede s’imparavano alla
“Dottrina”, a cui andavamo nel primo pomeriggio della domenica chiamati da una
particolare “campana”, e inoltre nei corsi speciali d’istruzione per la prima
comunione e per la cresima. Le verità della Fede s’imparavano a memoria: la
definizione di Dio, la Trinità, la Redenzione; gli elenchi dei misteri,
comandamenti, precetti, sacramenti, virtù, vizi e peccati; e infine gli
elementi della Storia Sacra dell’umanità dalla Creazione al Concordato.
Credere aveva due significati: in
senso stretto voleva dire accettare tutte le verità della fede. Era permesso
indagare con moderazione per sapere che cosa vogliono dire, sempre partendo dal
presupposto che sono verità. Gli uni e gli altri “credevano” senza discutere.
Lo stesso uso del verbo credere sottolinea i due modi del credere: si può
credere-in, e si può semplicemente credere. La condizione del credere-in è di
accettare una definizione autentica. Noi leggevamo e imparavamo a memoria le
definizioni autentiche della “Dottrina”, e credevamo in esse, cioè non
mettevamo in dubbio che fossero vere, anche quando non sapevamo che cosa mai potessero
significare. In questo senso credevamo in tutte le verità della fede.
Ma nell’altro senso – di credere
qualcosa che si è capito, cioè di essere intimamente convinti che le cose
stanno così e così – vigeva in paese una teologia semplificata e forse un po’
svisata (non sta a me giudicare).
Stranamente il fondamento di
tutto non era, com’è invece nella teologia regolare, il concetto di Dio. Si
credeva in Dio, e in ciò che di lui
s’insegna; si credeva nella sua bontà
ma senza veramente presumere di capirla. Si credeva e si capiva invece che c’è
una legge soprannaturale, un Sistema di Necessità analogo a quello che vige
quaggiù, al quale non ci si può in alcun modo sottrarre.
Questo sistema è fondato
sull’idea dell’Inferno, i cui orrori non sono meno comprensibili per il fatto
che si possono rappresentare soltanto in forma iperbolica. Di quel fuoco una
goccia sola (portata per campione da un dannato che viene a trovare un amico)
trapassa la mano su cui la si lasci cadere; è un fuoco “a paragone del quale il
più ardente fuoco terreno sarebbe dolcissimo refrigerio”. Così ci insegnavano
con apposite citazioni a Dottrina: notare che il fuoco non è ancora nulla, è
solo il principio; ma è sufficiente fermarsi al fuoco.
Inoltre l’Inferno è eterno: si
viene tormentati per dieci anni, poi per altri dieci, poi per altri cento, poi
ancora per altri cento: e poi si continua.
Ci spiegavano a Dottrina:
Sa tulì su na manà de sàbia,
quanti granèi che ghe sìpia? Che gh’in sìpia mezo miliòn? E lora, quanti ze che
gh’in sarà su tuta la spija? Un miliòn de miliardi? E lora; quanti che gh’in
sìpia su tute le spije de sto mondo? E sui Deserti? E soto el mare, che ghe ze
montagne de sàbia? E mi ve digo che se i ghe dizesse a un Danato: ti te saré
scotà e sbuzà coi feri de fogo par tanti ani quanti che ze i granèi de sàbia
che ghe ze in tuto ‘l mondo, el Danato el se metaria a sigare dala gioja. E
invense quando che tuti sti ani finamentre sarà passà, alè! se taca n’antra
volta. E domàn de matina anca voialtri podaressi svejarve Danati. (8)
Riascoltiamo il discorso al Feo:
Saèlo cossa sto Inferno? Mi a go
rancurà na branchinèla de sabiòn e a go tacà contare i granìti. A garò coesto
contare na meda ora, a garò coesto, e a ghinarò contà on mejàro e medo. Ma sa
gaèa fenìo sta branchinèla? Seh, monega: na presa la jera. E mi a jera lìve ca
laorava pensare te la mea testa laorava, se invense de granìti de sabiòn a ghe
fusse ani, tute le branchinèle de sabiòn che ghe ze sto-mondo, e le caretà de
sabiòn, e le montagne de sabiòn e le spiaje-del-mare oltra in cào che l’è tuto
on sabiòn: sempre ani, cava on granéto cava on ano, e i ghe ga-ito ai
Danati-de-l’Inferno se ciamarìsseli contenti? Da ver cavà on terno a ghe
pararìa! E invense tuti sti mejàri de stramejàri de ani, co ben i fenisse,
casso!, i scomensa danovo. Sa ve l’Inferno stanote, i scomensa doman-de-matina
bonora. (9)
Questi punti venivano ribaditi a
casa dalle nonne, dalle serve e dalle zie. Nessuna persona normale ne metteva
in dubbio la verità letterale: i rarissimi che non ci credevano non erano
persone normali, ma miscredenti.
Invece l’idea parallela dei
castighi divini in questo mondo era assai più incerta. Il padrone assoluto
dell’altro mondo è padrone anche di questo, ma qui interviene relativamente
poco: molti cattivi se la passano benissimo, mentre ci sono donne buone e
devote che patiscono ogni genere di disgrazie e di dolori, e alcune sono
letteralmente tutte una piaga sui giacigli dove stanno da anni in attesa della
morte che le sollevi.
Le si vede nei pomeriggi estivi
languire nei cortili dove le trasportano perché trovino un po’ di fresco
all’ombra delle case. Hanno un’espressione santa nei visi quasi marciti, sono
circondate da mosche attaccaticce e ne sopportano il fastidio con forza
misteriosa.
Ciò che conta è dunque l’altro mondo.
A rigore si dovrebbe passare tutta la vita ad assicurarsi contro l’orribile
prospettiva del tormento eterno, e infatti questo hanno fatto molti santi, e
tentano di fare le monache e i frati. La gente qualunque vivendo nel mondo è
esposta a peccare; anche i migliori peccano se perfino il fratello di San
Pietro riusciva a peccare quattrocentonovanta volte e solo alla
quattrocentonovantunesima San Pietro aveva il permesso di mollargli una crogna
(10)! Bisognerebbe come minimo abituarsi a tener conto costantemente della
minaccia dell’Inferno; e così cercano di fare i bambini, buona parte delle
donne, e presumibilmente i preti; ma gli uomini generalmente no.
Sapevano anche loro che le cose
stanno così, però si comportavano come se non lo sapessero. È una strana bestia
l’uomo: come non vive di solo pane, così non vive di sola paura dell’Inferno. Preoccupato
dal lavoro, dall’interesse e dalle passioni, si comporta come se il mondo vero fosse questo presente, la sua
famiglia, il paese, i campi, la bottega, gli amici, le donne, la tavola
imbandita; e non invece quell’altro dove non ci sono campi, famiglie, osterie,
paesi.
Quanto all’impianto normativo
della religione, esso era fondato sull’assioma che Dio nei suoi imperscrutabili
e minacciosi rapporti con noi, si comporta però in modo estremamente onesto e
corretto. Ha creato delle regole precise per assegnare gli uomini al Paradiso o
all’Inferno, e queste regole è lui il primo a rispettarle. La sostanza della
religione consiste nel tener conto di queste regole.
In teoria esse sono formulate nei
dieci Comandamenti e nei cinque Precetti; ma in pratica la coscienza paesana ne
estraeva un proprio codice semplificato, interamente composto di cose concrete.
È assolutamente necessario: Andare a messa alla festa; Fare la comunione
almeno a Pasqua; e (per i bambini) Dire le preghiere.
È assolutamente proibito: Bestemmiare; Toccare l’ostia coi denti;
Mangiare carne il venerdì; Essere disubbidienti (bambini); Uccidere altre
persone; Fare atti impuri di qualsiasi genere; Rubare; Giurare il falso
giuramento.
Si omettono da questo elenco
alcuni punti che si possono prendere per sottintesi, p. e. che bisogna sposarsi
in chiesa e non in municipio; e alcuni altri schiaritisi dopo l’ultima guerra,
p. e. che non bisogna votare per i comunisti, e non bisogna interrompere il
coito matrimoniale. Con tali aggiunte l’elenco di queste norme contiene tutto
ciò che nella coscienza paesana era sentito come assolutamente indispensabile
per salvarsi; lo stretto necessario era questo.
La violazione di una di queste
norme costituisce peccato mortale. Il
Peccato mortale porta all’Inferno. Esiste però un meccanismo per sottrarsi a
questo semplice schema: è decretato infatti che i peccati siano automaticamente
perdonati a chi li confessa, oppure a chi compie un atto di dolore-perfetto.
Per la salvezza eterna dunque ci
sono tre cose essenziali:
confessarsi quando si commette peccato
mortale
avere il dolore-imperfetto quando ci si
confessa
se si sta per morire senza confessione,
procurarsi il dolore-perfetto prima di perdere conoscenza.
Ma se la vita religiosa del paese
era fondata su questa roccia, la sua superficie era cosparsa di un florido
humus in cui affondava radici fitte una vegetazione di peccati veniali e di devozioni non necessarie ma consigliabili per
tre motivi: bisogno di un margine di sicurezza, pensiero del Purgatorio, e
desiderio di assicurarsi un posto più alto in Paradiso. Dei tre motivi il primo
era probabilmente il più frequente e il più forte: il meccanismo esteriore per
evitare l’Inferno può incepparsi; il giudizio umano (nel valutare se un peccato
è o non è mortale) può errare; la nostra memoria può tradirci, e un peccato
scordato in confessione, senza malizia, può assassinarci per l’eternità.
Conviene dunque propiziarci Iddio, e soprattutto i suoi dipendenti diretti e
più influenti, sia con una condotta più scrupolosa nelle cose marginali
(peccati veniali) sia con devozioni supplementari.
Non ho mai conosciuto nessuno in
paese che avesse veramente paura del Purgatorio, anche perché c’erano delle
incertezze teologiche circa la dottrina relativa: che cosa porta in Purgatorio?
Solo i peccati veniali non
confessati, o anche i peccati mortali
confessati col solo dolore-imperfetto? o tutti, anche quelli confessati con
tutte le regole, per i quali si fa bensì “penitenza” quaggiù recitando le
preghiere imposte dal confessore, ma di cui è pur ragionevole pensare che nel
mondo di là Iddio si riservi di ripagare almeno un pochino le canaglie
peggiori?
Ad ogni modo la gente non temeva
il Purgatorio per sé, mentre dava invece molta importanza all’idea dei propri
congiunti in Purgatorio. C’era una sfumatura di senso del decoro, piuttosto che
di apprensione per quel che potessero soffrire: era come avere dei parenti
falliti, per i quali ci si sente sinceramente in dovere di darsi da fare.
Quanto al posto più alto in
Paradiso, la relativa dottrina era di nuovo abbastanza incerta. L’idea dell’
“acquistar merito” era diffusa ma non distinta; in forma attiva era una
specialità delle zie devote, una sorta di loro civetteria, rara fra la gente
normale. Del resto lo stesso desiderio del Paradiso in generale, contava
relativamente poco per le persone non specialmente devote, essendo associato a
immagini di chiesa e di devozione, e a espressioni incomprensibili come “godere
Dio”.
Invece l’idea del margine di
sicurezza era ben lucida in tutti, benché non tutti si adoperassero per
metterla in pratica. La campagna del margine (sui due fronti dei peccati
veniali e delle devozioni supplementari) era combattuta dalle formazioni
leggere delle donne e dalla cavalleria dei bambini; gli uomini invece, esclusi
i pochi triarii (11) delle famiglie eccezionalmente devote, stavano di solito a
giocare foraccio (12) nelle retrovie.
Era questo dunque il terreno
delle devozioni, le comunioni-extra, i rosari e i terzetti, le litanie e le
giaculatorie, i tridui e le novene, i fioretti e i primi venerdì del mese, le
processioni e le esposizioni del Santissimo, le astinenze e i digiuni, il culto
dei Santi.
C’erano aspetti antichi e
incantevoli in molte di queste cose, lunghe radici affondate nei tempi in cui
San Gaetano fu nostro Arciprete, più di quattrocento anni fa (e come diceva don
Tarcisio fu salutato, quando venne a prender possesso, dalle campane di quello
che è ancora il nostro campanile, ed era assai vecchio già allora), e prima
ancora, nei secoli in cui eravamo una minuscola villa devota alla stessa
Madonna antica che abbiamo in Castello. C’erano le candele, le lampade fioche,
i veli neri delle donne, l’acquasanta, le sedie impagliate, l’incenso, le
cantilene, gli altari dei santi, il corpo nudo di Gesù ferito che baciavamo il
Venerdì Santo, i paramenti dei preti, la bella lingua misteriosa di certe
preghiere. Alcune sequenze parevano incantate:
Turris davidica
Turris eburnea
Domus aurea
Foederis arca
Ianua coeli...
Le cose di questa religione si
associavano con le altre cose della vita, l’autunno brumoso, il freddo di
Natale, l’arsura dell’estate; le campane indicavano, oltre che le ore del
giorno, l’ora di bagnarsi gli occhi alla pompa in corte contro la cecità, l’ora
di bere un dito di vino bianco contro i morsi dei serpenti in primavera, e
l’ora di riunirsi per il Terzetto dei Morti in cucina dalla nonna.
I grandi si mettevano in cerchio,
le luci erano basse, la pignatta delle castagne cotte fumava sul focolare. Noi
piccoli inginocchiati sulle sedie impagliate (che stampano segni violetti sui
ginocchi, come cordoncini) approfittavamo delle strambe finali in èsse che le donne pronunziavano quasi
come zeta alla maniera dei
seminaristi, per creare imitandole effetti fonici surreali: Ora pronò-biz, Ora pronò-biz!, finché le
donne s’accorgevano e tiravano scappellotti.
L’incantevole e il divertente si
alternavano, specie nel culto dei Santi, con le loro diverse personalità e abilità.
Era molto potente presso di noi Sant’Antonio, persona ordinata e di buona
memoria, che faceva trovare la roba a chi la perdeva. Occorreva però un
intermediario che conoscesse bene l’incantagione necessaria a farlo
intervenire. Si chiamava i sequèri (13). Mia zia Lena la conosceva benone: si
aggirava per la stanza recitando: “Secuèri miràcula...” e tutto il resto, con
intensa concentrazione; e alla seconda o alla terza volta Sant’Antonio era
costretto a tirar fuori deàle o gùcia, bùcola o tacolìn (14).
Di media potenza era San Luigi,
che non s’era mai visto i diti dei piedi ed era considerato un simbolo della
Purezza. Non c’è dubbio che un’impresa così per tutto il corso di una vita sia
pur breve, richiede molta Costanza: ma come c’entrava la Purezza visto che i
diti dei piedi sono così lontani? Alcuni di noi erano inclini a credere che in
passato, come si vedono certi tipi di cani nei quadri antichi che adesso non ci
sono più, così ci fossero anche forme di atti impuri coi diti dei piedi di cui
si è perso il ricordo, e che non è più possibile risuscitare.
La zia Nina aveva il suo Registro
dei Santi: con alcuni era in buona, con altri fredda, con altri ancora in
rotta: ma si alternavano. San Piero era un Santo Imponente, anche per lo
splendore della sua Sagra a Schio, e delle feste in casa del nonno Piero: san
Giovanni m’interessava specialmente per i fiori di camomilla che finiscono di
maturare proprio quando compie gli anni (anzi è il suo onomastico), e si ha il
senso che qualcosa di semplice e misterioso avvenga in quella breve notte
profumata, che il cielo si fermi un momento e cominci poi a ruotare dall’altra
parte.
San Paolo assomigliava al
Professore, un pozzo di scienza, la stessa barba, e molto simile anche nella
guardatura; aveva inoltre uno spadone che gli invidiavamo e che cercammo di
copiare in legno. Con questo spadone era stata tagliata la testa a San
Giovanni; non ero sicuro che fosse proprio quello della camomilla, perché ce
n’era più d’uno; Giovanni una volta doveva essere un cognome, questo qui di
nome suo di battesimo si chiamava Battista, ad ogni modo la testa gliel’aveva
tagliata Erode con questo spadone. Prima di diventare cristiano San Paolo era
maomettano, ed era molto amico di Erode e del ladro di Bagdà (che poi finì
crucifisso a sinistra di Gesù) ed Erode gli aveva dato questo spadone per
ricordo, essendo molto amici; e poi quando San paolo fu convertito, se lo
tenne, e con esso tagliava la testa ai miscredenti.
Questo spadone era dritto, invece
la sciabola che avevamo nel sottoscala era ricurva, e non si riusciva a tirarla
fuori dal suo fódro (15), essendosi incantata (16) a metà. Per anni andavamo
ogni giorno a provare in due, in tre, in quattro. C’era la proibizione di
snudarla, perciò non si accendeva la luce nel sottoscala, e si tirava per
quattro cinque minuti al buio.
A tutta questa parte più cospicua
e meno cruciale della nostra religione corrispondeva sul terreno morale e dogmatico
l’interesse per i peccati veniali, e quindi per le definizioni delle virtù, dei
vizi e dei peccati contenute nei manuali di Dottrina.
Qui si vede l’importanza del
bambino nel sistema che sto descrivendo: mentre il rispetto della religione –
in senso generale, come atteggiamento di fondo – si trasmette principalmente
attraverso le donne, il suo contenuto teologico e normativo ufficiale viene
assorbito quasi interamente nell’infanzia, quando si va a Dottrina. Ciò che
s’impara, s’impara da bambini; e questo spiega la coloritura fantastica di
certe interpretazioni che sopravvivono spesso nella vita adulta.
A differenza di ciò che accade in
altri campi dell’apprendere, in cui la fase critica e adulta scaccia
agevolmente quella fantastica e puerile, qui gli adulti non ristudiavano più
queste cose, senza dire che anche ristudiandole non avrebbero forse trovato una
nuova teologia critica da opporre all’altra, ma solo un’esposizione più
complessa della stessa, dell’unica teologia.
La nostra indoctrination infantile ci dava un’impostazione teologica
abbastanza solida (proprio perché si trattava di imparare definizioni) come mi è capitato più volte di notare a contatto con
giovani di formazione protestante, che indubbiamente conoscono – ceteris
paribus – molte meno definizioni di noi. D’altro canto però c’era tutta una
serie di cose incomprensibili, parte per il linguaggio in cui erano trasmesse,
parte per la natura remota o arcaica delle cose significate.
Che cos’è l’Accidia? Dalle migliori spiegazioni risultava che fosse una forma
di pigrizia, e allora perché non chiamarla così? S’introduceva
irresistibilmente l’idea che fosse un pesciolino color marrone, arricciolato
come un’acciuga e fortemente salato. Dicevano che questo settimo vizio capitale
colpisse specialmente i monaci e gli eremiti; si svegliavano alla mattina con
innumerevoli accidie attaccate al corpo, e quelli che cedevano alla tentazione
del demonio le coglievano come frutti e le mangiavano.
Il quarto dei Sette Doni dello
Spirito Santo, la Fortezza, riusciva
chiaro: è lo Spirito Santo che conferisce la Fortezza e consente al FORTE del
circo di rompere le catene in modo innaturale. Ma cos’era il terzo Dono,
chiamato Consiglio? Forse consigli
che lo Spirito Santo manda in dono, o un particolare supremo Consiglio
riservato a pochissimi fortunati?
La terza delle Virtù Teologali,
la Carità, si pratica soprattutto il
martedì, quando c’è mercato e i poveri alla porta sono numerosi. Ma che cosa
sarà la Speranza? A quanto pare c’è
merito a sperare, sembra tanto facile, e invece è una virtù, anzi una Virtù
Teologale. Chissà cosa vuol dire veramente Virtù Teologali? Dicevano che vuol
dire virtù divine. E che cosa vuol dire virtù divine? Potrebbe voler dire che
le ha anche Dio, ma questo non può essere perché Dio non può avere Fede in se
stesso, per esempio, non sarebbe serio; e non può neanche voler dire che ci
rendono “come Dio” perché come Dio non si può essere, è un’eresia; e neanche
che ce le dà Dio, perché le altre allora che ce le dà? Insomma quello che è certo
è che sono virtù importanti, perché c’è dentro anche la Fede, che pare la più importante di tutte; pare e non è, perché la
più importante era scritto che è la Carità.
Le Virtù Cardinali non sono
quelle praticate dai cardinali, ma “sono così chiamate perché sono i cardini
della vita buona”. Le vedevo in forma di porte di legno dipinto a fiori,
oscillanti lentamente sui loro cardini: mi sforzavo di tradurre ciascun nome in
una raccomandazione morale. Si doveva essere Prudenti, stare sempre vicino al muro nelle strade, non esporsi a
rischi; la Giustizia doveva
riguardare i giudici dei tribunali, noi non avremmo saputo in che circostanze
praticarla; la Fortezza, come s’è
visto, è un Dono dello Spirito Santo; la temperanza – respinta l’assurda idea
che riguardasse in qualsiasi modo l’abilità nel temperare le matite – si
associava col bere smodato all’osteria. Ma allora, che cardini erano mai
questi? Cose abbastanza importanti, va bene; ma come credere che siano la base
della vita buona, i cardini?
Del resto anche quando – messe da
parte queste e simili fantasie – s’incominciava a intravedere qualcosa della
psicologia tomistica e classica che c’è sotto quelle parole, francamente la
domanda restava sempre: che cardini erano mai questi?
Così avveniva spesso; a suo tempo
s’incontravano le spiegazioni scritte di ciascuno di questi concetti
sconcertanti, ma esse sconcertavano ancora di più, sia perché toglievano a
queste virtù ogni personalità, e venivano a dire tutte la stessa cosa (Speranza che vuol dire sperare di andare
in Paradiso, Prudenza che vuol dire
badare a non far beccati: era sempre la stessa minestra) sia perché
introducevano nuove difficoltà.
“Che cos’è la Carità? È quella virtù soprannaturale per la quale
amiamo Dio sopra ogni cosa, e il prossimo come noi stessi per amore di Dio.”
“Come dimostriamo il nostro amore a Dio? Specialmente osservando i
suoi comandamenti.”
“Come dobbiamo amare il prossimo? Compiendo opere di misericordia
spirituale e corporale.”
In pratica insomma la Carità,
oltre che voler dire come tutto il resto che i peccati non si devono fare, vuol
dire anche che bisogna fare queste opere di misericordia di cui per fortuna
avevamo l’elenco completo.
Ce n’è quattordici di queste
opere: sette sono di misericordia corporale, e quasi tutte di difficile
attuazione.
Dar da bere agli assetati: sembra una cosa da nulla, ma non
trovavamo assetati. Aggirarsi per l’officina e per il paese attaccando
conversazione con gli operai e coi passanti, cercando di portare il discorso
sul caldo? Ripiegare sui fratelli e i cugini accaldati dopo il gioco,
aspettandoli nell’acquaio con la “cassa” di rame pronta in mano? Vestire gli ignudi: non ne vedemmo mai
uno; avevamo tutto pronto per Alloggiare
i pellegrini nella tezza (17), ma non ne venivano. Seppellire i morti era l’attività della famiglia del mio compagno
Emilio, ed Emilio stesso dava una mano in cimitero; ma ogni proposta di andarci
anche noi fu respinta dai nostri genitori. Ai genitori il quarto Comandamento
impone di obbedire “in tutto ciò che non è peccato”. Sarà peccato omettere la
settima Opera di misericordia corporale (18)?
Anche dove si capiva, c’era come
uno scompenso tra cose facili e piccole, e cose grandi e difficili, elencate
insieme. La prima Opera di misericordia spirituale (Consigliare i dubbiosi),
come si può paragonarla con la quinta (Perdonare le offese), quando l’una è una
cosa da nulla, che anzi può far piacere, mentre l’altra è praticamente il
riassunto della bontà, ed è evidentemente difficilissima? Sono obbligatorie o
facoltative queste opere? Si può scegliersene una o due a giudizio proprio, e
trascurare le altre? Se non è peccato omettere di insegnare agli ignoranti, è
possibile che non sia peccato neanche omettere di perdonare?
Dei sei peccati contro lo Spirito
Santo, non starò a dire che cosa pensavamo che volesse dire il primo
(Disperazione della salute), col dubbio se riguardasse solo i malati
incurabili, o anche i sani sempre esposti a perderla, la salute; né il terzo
(Impugnare la verità conosciuta), con le ambiguità derivanti dal doppio uso dei
pugni per colpire o per afferrare. Ricorderò solo che nell’istruzione
supplementare in seno alle famiglie si apprendeva che questi sei peccati si
possono considerare riassunti in uno solo, che è il Peccato contro lo Spirito
Santo, formulato dalle mamme come l’ostinazione a mangiare poco pane e molto
companatico, specie in tempo di guerra.
Ci attraevano per il loro
stupendo nome i quattro peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio: in
particolare la mente correva con un vago senso di scandalo a ciò che potrebbe
essere il peccato impuro contro natura. Natura è la parte dove aveva male la
cliente del dottor Rossi: dev’esserci una forma di peccato impuro che si fa contro di essa, forse col coltello o col
fucile da caccia, ed è il secondo peccato che grida vendetta al cospetto di
Dio.
Il terzo è l’oppressione dei
poveri, che io personalmente ritenevo consistesse in un atto fisico ai danni
dei mendicanti catturati a uno a uno e stipati in una stanza. Entravano i
ricchi, si sedevano sopra i poveri, e li opprimevano a lungo coi sederi. I poveri
gridavano vendetta al cospetto di Dio.
Anche il defraudare la Mercede
agli operai avveniva per opera dei ricchi: entravano nelle misere stanze in
punta di piedi, e la defraudavano. La Mercede non parlava: ma le operaie
tornando dalla filanda vedevano subito cosa le era successo, e si affacciavano
alla finestra gridando vendetta.
Queste assurdità puerili non
erano però senza importanza: alcune svanivano naturalmente da sé con la vis immaginativa della puerizia; altre
serpeggiavano in modo sotterraneo anche nei pensieri e nelle credenze dell’adolescenza
e dell’età adulta; alcune infine si cristallizzavano per sempre.
Le spiegazioni non erano un
invito a riflettere, ma a “imparare”.
Leggetelo questo libretto,
imparatelo tutto dalla prima all’ultima sillaba… Quando verrò nelle vostre
parrocchie, spero che… reciterete a memoria il testo del Catechismo… (19)
E quando non si capisce quello
che s’impara a memoria? Le spiegazioni (scritte) non consistevano nel “far
capire”, ma offrivano definizioni autentiche da imparare a loro volta a
memoria. E se la spiegazione scritta non si capisce? E se l’eventuale spiegazione
verbale della spiegazione scritta lascia dei dubbi?
In definitiva l’essenziale non
era capire, ma sapere. I dubbi erano scoraggiati, e se necessario proibiti. I dubbi
potevano diventare sempre meno puerili e assurdi a mano a mano che si cresceva,
come Gesù, in sapienza e in età; ma questo anziché facilitarne lo scioglimento
sembrava renderlo più difficile. A poco a poco si finiva col ripiegare sulla
posizione della stragrande maggioranza degli adulti maschi, non si era più
bambini, queste cose si lasciavano ai bambini e alle donne devote: ai bambini
recitatori di Peccati che gridano Vendetta al Cospetto di Dio, alle donne biascicatrici
di preghiere in gerghi sconosciuti. Queste cose significheranno pur qualcosa,
ma ciò che significano non riguarda noi, riguarda solo la Chiesa. Non c’è
passaggio tra questi elenchi astrusi di Vizi e di Virtù, e la vita reale di
ogni giorno.
Si abbandonava il corpo florido
della religione per tenersi le nude ossa, the
bare bones: c’è Dio, ci sono i peccati mortali, c’è l’Inferno, e c’è la
confessione che permette di evitarlo. Gli altri sono fronzoli.
Mi dispiacerebbe se il Paradiso
non ci fosse: quello a cui pensavano con umile speranza la zia Nina, e la nonna
Esterina, e la zia Lena, che pure non era specialmente di chiesa, e forse la
zia Rosa, e tante altre parenti e compaesane. Sarebbe una consolazione saperle
veramente lassù, fuori dai triboli che portarono così pazientemente sulla
terra.
Lo so che lassù sono in età di
trentatré anni, come saranno poi anche i corpi il giorno della resurrezione
della carne; ma io credo che somiglino ugualmente a quelle che erano qui negli
ultimi anni prima di morire. Se il loro premio corrisponde alla speranza,
staranno lì, parte in piedi parte in ginocchio, a leggere nei loro libretti da
messa preghiere e litanie per tutta l’eternità, e ogni tanto alzeranno gli
occhi timidamente sotto il velo per bearsi non solo di quel riflesso chiaro e
soave che è la presenza di Dio, ma delle figure familiari e vicine, e ancora
incredibili, dei grandi Angeli e Arcangeli, Michele e Gabriele e Raffaele, e di
tutti i grandi Santi riconoscibili uno per uno.
Non so che senso avrebbe per mio
nonno Piero trovarsi là in mezzo anche lui, e dover partecipare a questa
interminabile funzione. “Eh, can del Passio!” direbbe come diceva qui,
alludendo al Passio (20) smisurato che allungava le messe oltre ogni
ragionevole proporzione; e penso che andrebbe fuori a discorrere con San Piero
sulla porta.
Il Paradiso non interessava agli
uomini; era l’Inferno che contava. E così siamo tornati in circolo all’Inferno,
al fuoco penace, fermaglio e suggello della religione paesana. Che Santa Libera
ci scampi da quelle fiamme!
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(1) Sti ani antichi – co i copava
i peòci coi pichi = questi anni antichi – quando ammazzavano i pidocchi con il
piccone.
(2) puìna = ricotta.
(3) let down = deluso.
(4) ugnolo = uno solo. Meneghello
si immagina gli antenati come tanti ciclopi con un occhio solo.
(5) pétole = sterco.
(6) rangotàno = l’orangotango.
(7) péna-péna = appena appena.
(8) traduzione del discorso di
Malo = Se raccogli una manciata di sabbia, quanti granelli ci saranno? Che ce
ne sia mezzo milione? E allora, quanti ce ne saranno su tutta la spiaggia? Un
milione di miliardi? E allora; quanti ce ne saranno su tutte le spiagge del
mondo? E sui Deserti? E sotto al mare, dove ci sono montagne di sabbia? Io vi
dico che se dicessero a un Dannato: sarai scottato e trafitto con ferri di
fuoco per tanti anni quanti sono i granelli di sabbia che ci sono in tutto il
mondo, il Dannato si metterebbe a gridare per la gioia. E invece quando tutti
questi anni saranno finalmente passati, alè! Si ricomincia di nuovo. E domani
mattina anche voi potreste svegliarvi Dannati.
(9) traduzione del discorso del
Feo = Cosa sarà ‘sto Inferno? Io ho raccolto una manciata di sabbia e ho
cominciato a contare i granelli. Avrò dovuto contare per mezz’ora, avrò dovuto,
e ne avrò contato un miliardo e mezzo. E l’avevo finita ‘sta manciata? Eh,
figurati: era appena una presa. Ed io ero lì che lavoravo pensando nella mia
testa, se invece di granelli di sabbia fossero anni, tutte le manciate di
sabbia che ci sono a questo mondo, e le carrettate di sabbia, e le montagne di
sabbia e le spiagge che sono tutte di sabbia: sempre anni, leva un granello
leva un anno, hanno detto ai Dannati dell’Inferno e loro si direbbero contenti?
Di aver vinto un terno gli sembrerebbe! E invece tutti i miliardi di questi
stramiliardi di anni, quando finiscono, cazzo! ricominciano di nuovo. Se finisci
all’Inferno stanotte, cominciano domani mattina di buon’ora.
(10) crogna = botta, colpo dato
in testa con le nocche.
(11) triarii = parte della
fanteria romana repubblicana.
(12) foraccio = gioco di carte
simile allo scopone.
(13) sequèri = forma di preghiera
popolare atta a recuperare le cose perdute; com’è scritto poco dopo
incominciava con “Si quaeris miracula”.
(14) deàle, gùcia, bùcola,
tacolìn = ditale, ago, orecchino, portamonete.
(15) fódro = fodero.
(16) incantata = incastrata, come
in uno stato di intorpidimento.
(17) tezza = fienile, o tettoia.
(18) è proprio quella del
Seppellire i morti.
(19) Meneghello stesso nelle note
spiega che il passo è tratto dalla Prefazione a una “Dottrina” per la classe
quinta del 1939.
(20) Passio = la parte dei Vangeli
che narra della passione di Gesù e viene letta o cantata durante la settimana
santa.
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Con
questo capitolo termino di postare le parti di “Libera nos a malo” che ho trovato più interessanti; ma il libro è
bellissimo e consiglio a tutti (anche ai non veneti) di leggerlo.
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