Capitolo
che mescola ricordi vari (legati in particolare al padre) al tempo del
fascismo: dalla naia alla marcia su Roma, dalla vittoria di Meneghello nei
littoriali fascisti alla Resistenza, dal casino a D’Annunzio e Francesco
Baracca.
La prima volta che il papà vide
uno che si lavava i denti fu a Torino quando andò soldato.
“Mària Vergine, cos’è che fa
quello lì?”
Si lavava i denti.
Doveva essere tutta una serie di
traumi la naia allora; già ai miei tempi era diverso, però c’era ancora il
trauma generico della naia. Era come aver preso una bòtta in testa: il senso
del tempo era completamente distrutto, i giorni parevano mesi e alla fine della
settimana la settimana svaniva in aria. Tutto era vivido e irreale, e si
sentivano continuamente frusciare in
vacuo (1) le divise da fatica.
Quando mi mandarono a casa in
licenza venni giù per la Val Lagarina, e poi da Verona a Vicenza in treno. In teoria
ero un ragazzo abbastanza sophisticated (2);
invece quando vennero fuori i monti di casa, e in nomi dei paesi, fu di nuovo
come una bòtta in testa. A mio papà il trauma fece l’effetto che si ricorda
tutto, i nomi, le strade, le osterie, i prezzi, i discorsi, le ore del giorno,
le date: a me invece l’effetto contrario. Si sa di più in famiglia su Torino
nel 1913 che su Merano trent’anni dopo. Io feci sette mesi, e mio papà sette
anche lui, ma anni. Alla fine doveva essere abbastanza sophisticated anche lui.
Nei primi anni li mollavano di
rado: ma in seguito veniva qualche volta in licenza o in permesso. Lo zio
Checco un giorno che era in vena ci raccontò che stava lavorando in officina
(lui era già in congedo per postumi di salto con l’asta) quando vide svoltare
dalla strada dentro il cortile una macchina militare, e al volante mio padre. Lo
zio gli andò incontro per salutarlo, ma vide che tra il parafango sinistro e il
radiatore c’era una testa d’uomo tranciata all’altezza del collo.
«Chi è quello lì?» chiese
severamente lo zio puntando il dito. Mio padre scese a vedere e si batté una
mano sulla fronte:
«Orcocàn, dev’essere il
carabiniere che ho preso sotto a Castelfranco».
Lo zio, con l’autorità del
primogenito, gli impose di riportare la testa a Castelfranco e mio padre
dovette andare.
Lo scherzo dello zio ci piacque
tanto che lo andammo a ripetere al papà. Il papà si divertì anche lui, e disse:
«Purtroppo non era stato a Castelfranco ma molto più in là, verso Conegliano, e
avevo un giorno solo di permesso».
Il papà era in aviazione, ma
faceva il sofèr (3). Era al Comando a Udine, proprio davanti alla casa della
mamma, e portava spesso ufficiali a ispezionare le linee, da dove una volta
riportò solo il berretto con le lasagne: rialzandosi dopo l’esplosione non
aveva trovato altro.
Portava anche personaggi
importanti che nomina spesso mescolati con Ortiga, Quondamcarlo e Fiorina, che
erano gli altri addetti al Comando.
«Ma tu, allora, hai parlato con
questo D’Annunzio?»
«Eh perdinci, altroché.»
«E che cosa ti diceva?»
«Aspettami qui.»
Il papà aspettava anche ore.
«E ti dava almeno la mancia
questo D’Annunzio?»
«Macché, era un tegnoso (4) di
prima riga.»
Da piccoli però quello che ci
faceva più impressione era che il papà fosse stato soldato con Baracca (5). Erano
grandi amici.
«Ma Baracca, com’era Baracca,
papà?»
«Altissimo.»
Non è sempre facile comunicare
con mio padre, le cose che sottintende lui non sono quelle che sottintendiamo
noi; inoltre censura spudoratamente tutto quello che non rientra nell’idea che
si fa di come noi vediamo le cose.
«Papà, non ce l’avevi mai detto
che nella casa che aveva il nonno in contrà Grisa c’è poi stato un casino (6).»
Siccome non si sbilancia, gli
mostriamo le annotazioni nel Diario
di don Tarcisio, e gli ripetiamo quello che ci ha spiegato oggi la signora
Meggiolan. (Si va in pellegrinaggio di contrada in contrada a riconoscere i
vestigi dei nostri vecchi, le case semplici dove vivevano la loro semplice
vita. Contrà Grisa è in fondo al paese, una zona che conosciamo poco. «Signora,
qual era qui la casa che al tempo dell’altra guerra era di mio nonno, quella
grigia o quella gialla?» «La casa di tolleranza? Quella gialla.»)
Mio padre comincia a ricordare:
era soldato, apprese la notizia una volta che venne a casa in permesso.
«Ma sembra così piccola la
casetta: quante donne c’erano?»
«Ah, io non ci ho mai messo
piede. Domandatelo a Bepi che era sempre là quando veniva in licenza.»
L’intera faccenda mi pare
bizzarra. «Chissà come l’avevano arredata?» mi domando ad alta voce.
«Ah, di lusso,» dice, «era tutto
pieno di specchiere.»
Naturalmente viene da ridere
anche a lui; ad ogni modo non occorre più domandare al signor Bepi.
«Ma tu l’hai poi fatta sul serio
la marcia su Roma (7)?» domando improvvisamente a tavola.
«Solo fino a Isola,» dice mio
padre. Isola è a quattro chilometri da qui, in direzione sud. Dunque era sulla
strada giusta. «A Isola ho detto che avevo il bambino malato, che eri tu, e
così sono tornato a casa. Anzi c’era anche coso, come si chiama, che ha
approfittato anche lui dell’occasione per tornare indietro. Ha detto che aveva
mal di pancia. Però il mio posto lo ha preso tuo zio Ernesto.»
«Allora lo zio sì che l’aveva
fatta, la marcia su Roma.»
«Sì,» dice il papà, «lui è andato
avanti cogli altri al posto mio.»
«Insomma lui a Roma c’è andato
per davvero.»
«Ah, a Roma no. Si sono fermati
due giorni a Vicenza e dopo sono tornati a casa.»
Vicenza è a sedici chilometri,
sempre nella direzione giusta.
Dino che aveva un simpatico senso
del ridicolo, preparò un bel cartello, se lo prese in spalla e andò a fare un
giro per il centro. Era l’anno 1940-XVIII (8); il cartello diceva:
Questa sera mio
nipote parla alla radio.
La gente commentava.
«È passato litòre (9).»
«Dev’essere un bel posto.»
«L’ho sempre detto io.»
Parlai verso sera. Di questo
episodio della mia vita non voglio qui scrivere nulla, salvo che in un modo
bizzarro ci venne dentro il paese, perché sottolineai con orgoglio che ero nato
nell’anno della Marcia su Roma fra lo strepito delle 15 Ter (10) piene di squadristi, guidate da mio papà e dagli zii.
M’immagino che mio nonno sia
andato a sentirmi all’osteria tra un cerchio di avventori. Probabilmente si
compiacque di come parlavo, senza badare al senso; e sono sicuro che le 15 Ter, queste cose di famiglia
improvvisamente nominate alla radio, lo commossero.
C’era la 15 Ter rossa e la 15 Ter
verde; erano torpedoni scoperti coi sedili a forma di panche. Per me erano due
ragazze robuste e allegre: la Rossa era la Este e la Verde la Flora. Invece la Puch aveva la capotta grigia, una specie
di tettoietta sostenuta da colonnine di ferro; era una donna straniera, non più
giovane, spigolosa, dal carattere chiuso.
Nel portico, tra il via-vai della
gente e il rumore dei motori mi arriva qualche frase di mio padre che sta
facendo conversazione con un visitatore sul portone. Small talk (11).
«Sì che l’ho visto io, Perìn; l’ho
visto quando lo hanno interrogato, il giorno prima di impiccarlo. Dopo l’interrogazione
lo hanno portato nella mia cella; aveva il muso tutto negro dalle bòtte, era
anche inutile domandare, ma io gli ho detto “E allora?” e lui mi ha detto “Ah,
mi tirano il collo. Aveva già capito.»
Perìn è l’unico che fu impiccato,
col cartello BANDIT (12), giù alla curva di Castelnovo, di quelli che erano
dentro con mio padre a Schio; vari altri furono ammazzati in altro modo.
Che strana cosa è una guerra
civile: mio padre squadrista sciarpa-littorio era in questa prigione fascista,
e il carceriere che si prestava a portar fuori i suoi messaggi era squadrista
sciarpa-littorio anche lui. I messaggi dicevano:
“Non sognarsi di mandar su il
tòso che gli fanno le foglie” (13).
Il tòso non ero io quella volta,
era Bruno: io ero fuori zona.
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(1) in vacuo = letteralmente nel
vuoto, ma qui con un senso di inutilità.
(2) sophisticated = sofisticato, raffinato,
di mondo.
(3) sofèr = chauffeur, cioè
autista.
(4) tegnoso = avaro.
(5) si tratta di Francesco
Baracca (1888-1918), che fu un asso dell’aviazione italiana durante la prima
guerra mondiale; morì colpito da un austriaco durante un volo di guerra.
(6) casino = allora casa di
tolleranza, postribolo, casa in cui le prostitute esercitavano il loro
mestiere.
(7) marcia su Roma =
manifestazione organizzata da Mussolini nell’ottobre 1922 come dimostrazione di
forza nei confronti del governo e del re, il quale reagì affidando al duce il
compito di formare un nuovo governo. Tutti i simpatizzanti del fascismo furono
chiamati a dirigersi verso Roma da ogni parte d’Italia, per dimostrare appunto
di essere tanti e disposti a tutto. L’episodio divenne nella retorica del
regime fascista l’inizio della rivoluzione mussoliniana e gli antifascisti non
ebbero difficoltà a metterlo in ridicolo; anche Meneghello, in questo passo,
sottolinea la stramberia della manifestazione (il padre che fa solo 4
chilometri di strada, però nella direzione giusta!).
(8) 1940-XVIII = in epoca
fascista il comune numero che indicava gli anni veniva scritto seguito da un
numero romano che indicava da quanti anni era cominciata la “rivoluzione
fascista”. La data si leggeva appunto come “1940 - diciottesimo dell’era
fascista”, la quale era cominciata proprio con la marcia su Roma.
(9) litòre = littore, ossia nel
periodo fascista studente universitario vincitore di una gara dei littoriali
della cultura, dell’arte o dello sport. Il nome di queste gare culturali o
sportive, riservate agli studenti universitari iscritti ai GUF (Gruppi dei
fascisti universitari), ha origini latine, nel complesso di retorica voluto da
Mussolini, per il quale il fascismo doveva essere la rinascita delle antiche
grandezze di Roma.
(10) 15 Ter = camion prodotti
dalla Fiat e usati in operazioni militari.
(11) small talk = conversazione
informale, a ruota libera.
(12) bandit = così i tedeschi
definivano un partigiano; quando uno di essi veniva ucciso, spesso era esposto
pubblicamente con un cartello appeso al cadavere con tale definizione.
(13) si tratta di un messaggio
cifrato, com’era in uso durante la Resistenza, per comunicare senza farsi
capire qualora il messaggio venisse intercettato da fascisti e nazisti. Tòso
significa ragazzo.
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