sabato 5 agosto 2017

94 Libera nos a malo: capitolo 18 (di Luigi Meneghello)



Capitolo che mescola ricordi vari (legati in particolare al padre) al tempo del fascismo: dalla naia alla marcia su Roma, dalla vittoria di Meneghello nei littoriali fascisti alla Resistenza, dal casino a D’Annunzio e Francesco Baracca.

La prima volta che il papà vide uno che si lavava i denti fu a Torino quando andò soldato.
“Mària Vergine, cos’è che fa quello lì?”
Si lavava i denti.
Doveva essere tutta una serie di traumi la naia allora; già ai miei tempi era diverso, però c’era ancora il trauma generico della naia. Era come aver preso una bòtta in testa: il senso del tempo era completamente distrutto, i giorni parevano mesi e alla fine della settimana la settimana svaniva in aria. Tutto era vivido e irreale, e si sentivano continuamente frusciare in vacuo (1) le divise da fatica.
Quando mi mandarono a casa in licenza venni giù per la Val Lagarina, e poi da Verona a Vicenza in treno. In teoria ero un ragazzo abbastanza sophisticated (2); invece quando vennero fuori i monti di casa, e in nomi dei paesi, fu di nuovo come una bòtta in testa. A mio papà il trauma fece l’effetto che si ricorda tutto, i nomi, le strade, le osterie, i prezzi, i discorsi, le ore del giorno, le date: a me invece l’effetto contrario. Si sa di più in famiglia su Torino nel 1913 che su Merano trent’anni dopo. Io feci sette mesi, e mio papà sette anche lui, ma anni. Alla fine doveva essere abbastanza sophisticated anche lui.
Nei primi anni li mollavano di rado: ma in seguito veniva qualche volta in licenza o in permesso. Lo zio Checco un giorno che era in vena ci raccontò che stava lavorando in officina (lui era già in congedo per postumi di salto con l’asta) quando vide svoltare dalla strada dentro il cortile una macchina militare, e al volante mio padre. Lo zio gli andò incontro per salutarlo, ma vide che tra il parafango sinistro e il radiatore c’era una testa d’uomo tranciata all’altezza del collo.
«Chi è quello lì?» chiese severamente lo zio puntando il dito. Mio padre scese a vedere e si batté una mano sulla fronte:
«Orcocàn, dev’essere il carabiniere che ho preso sotto a Castelfranco».
Lo zio, con l’autorità del primogenito, gli impose di riportare la testa a Castelfranco e mio padre dovette andare.
Lo scherzo dello zio ci piacque tanto che lo andammo a ripetere al papà. Il papà si divertì anche lui, e disse: «Purtroppo non era stato a Castelfranco ma molto più in là, verso Conegliano, e avevo un giorno solo di permesso».
Il papà era in aviazione, ma faceva il sofèr (3). Era al Comando a Udine, proprio davanti alla casa della mamma, e portava spesso ufficiali a ispezionare le linee, da dove una volta riportò solo il berretto con le lasagne: rialzandosi dopo l’esplosione non aveva trovato altro.
Portava anche personaggi importanti che nomina spesso mescolati con Ortiga, Quondamcarlo e Fiorina, che erano gli altri addetti al Comando.
«Ma tu, allora, hai parlato con questo D’Annunzio?»
«Eh perdinci, altroché.»
«E che cosa ti diceva?»
«Aspettami qui.»
Il papà aspettava anche ore.
«E ti dava almeno la mancia questo D’Annunzio?»
«Macché, era un tegnoso (4) di prima riga.»
Da piccoli però quello che ci faceva più impressione era che il papà fosse stato soldato con Baracca (5). Erano grandi amici.
«Ma Baracca, com’era Baracca, papà?»
«Altissimo.»
Non è sempre facile comunicare con mio padre, le cose che sottintende lui non sono quelle che sottintendiamo noi; inoltre censura spudoratamente tutto quello che non rientra nell’idea che si fa di come noi vediamo le cose.
«Papà, non ce l’avevi mai detto che nella casa che aveva il nonno in contrà Grisa c’è poi stato un casino (6).»
Siccome non si sbilancia, gli mostriamo le annotazioni nel Diario di don Tarcisio, e gli ripetiamo quello che ci ha spiegato oggi la signora Meggiolan. (Si va in pellegrinaggio di contrada in contrada a riconoscere i vestigi dei nostri vecchi, le case semplici dove vivevano la loro semplice vita. Contrà Grisa è in fondo al paese, una zona che conosciamo poco. «Signora, qual era qui la casa che al tempo dell’altra guerra era di mio nonno, quella grigia o quella gialla?» «La casa di tolleranza? Quella gialla.»)
Mio padre comincia a ricordare: era soldato, apprese la notizia una volta che venne a casa in permesso.
«Ma sembra così piccola la casetta: quante donne c’erano?»
«Ah, io non ci ho mai messo piede. Domandatelo a Bepi che era sempre là quando veniva in licenza.»
L’intera faccenda mi pare bizzarra. «Chissà come l’avevano arredata?» mi domando ad alta voce.
«Ah, di lusso,» dice, «era tutto pieno di specchiere.»
Naturalmente viene da ridere anche a lui; ad ogni modo non occorre più domandare al signor Bepi.

«Ma tu l’hai poi fatta sul serio la marcia su Roma (7)?» domando improvvisamente a tavola.
«Solo fino a Isola,» dice mio padre. Isola è a quattro chilometri da qui, in direzione sud. Dunque era sulla strada giusta. «A Isola ho detto che avevo il bambino malato, che eri tu, e così sono tornato a casa. Anzi c’era anche coso, come si chiama, che ha approfittato anche lui dell’occasione per tornare indietro. Ha detto che aveva mal di pancia. Però il mio posto lo ha preso tuo zio Ernesto.»
«Allora lo zio sì che l’aveva fatta, la marcia su Roma.»
«Sì,» dice il papà, «lui è andato avanti cogli altri al posto mio.»
«Insomma lui a Roma c’è andato per davvero.»
«Ah, a Roma no. Si sono fermati due giorni a Vicenza e dopo sono tornati a casa.»
Vicenza è a sedici chilometri, sempre nella direzione giusta.

Dino che aveva un simpatico senso del ridicolo, preparò un bel cartello, se lo prese in spalla e andò a fare un giro per il centro. Era l’anno 1940-XVIII (8); il cartello diceva:

Questa sera mio nipote parla alla radio.

La gente commentava.
«È passato litòre (9).»
«Dev’essere un bel posto.»
«L’ho sempre detto io.»
Parlai verso sera. Di questo episodio della mia vita non voglio qui scrivere nulla, salvo che in un modo bizzarro ci venne dentro il paese, perché sottolineai con orgoglio che ero nato nell’anno della Marcia su Roma fra lo strepito delle 15 Ter (10) piene di squadristi, guidate da mio papà e dagli zii.
M’immagino che mio nonno sia andato a sentirmi all’osteria tra un cerchio di avventori. Probabilmente si compiacque di come parlavo, senza badare al senso; e sono sicuro che le 15 Ter, queste cose di famiglia improvvisamente nominate alla radio, lo commossero.
C’era la 15 Ter rossa e la 15 Ter verde; erano torpedoni scoperti coi sedili a forma di panche. Per me erano due ragazze robuste e allegre: la Rossa era la Este e la Verde la Flora. Invece la Puch aveva la capotta grigia, una specie di tettoietta sostenuta da colonnine di ferro; era una donna straniera, non più giovane, spigolosa, dal carattere chiuso.

Nel portico, tra il via-vai della gente e il rumore dei motori mi arriva qualche frase di mio padre che sta facendo conversazione con un visitatore sul portone. Small talk (11).
«Sì che l’ho visto io, Perìn; l’ho visto quando lo hanno interrogato, il giorno prima di impiccarlo. Dopo l’interrogazione lo hanno portato nella mia cella; aveva il muso tutto negro dalle bòtte, era anche inutile domandare, ma io gli ho detto “E allora?” e lui mi ha detto “Ah, mi tirano il collo. Aveva già capito.»
Perìn è l’unico che fu impiccato, col cartello BANDIT (12), giù alla curva di Castelnovo, di quelli che erano dentro con mio padre a Schio; vari altri furono ammazzati in altro modo.
Che strana cosa è una guerra civile: mio padre squadrista sciarpa-littorio era in questa prigione fascista, e il carceriere che si prestava a portar fuori i suoi messaggi era squadrista sciarpa-littorio anche lui. I messaggi dicevano:
“Non sognarsi di mandar su il tòso che gli fanno le foglie” (13).
Il tòso non ero io quella volta, era Bruno: io ero fuori zona.

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(1) in vacuo = letteralmente nel vuoto, ma qui con un senso di inutilità.
(2) sophisticated = sofisticato, raffinato, di mondo.
(3) sofèr = chauffeur, cioè autista.
(4) tegnoso = avaro.
(5) si tratta di Francesco Baracca (1888-1918), che fu un asso dell’aviazione italiana durante la prima guerra mondiale; morì colpito da un austriaco durante un volo di guerra.
(6) casino = allora casa di tolleranza, postribolo, casa in cui le prostitute esercitavano il loro mestiere.
(7) marcia su Roma = manifestazione organizzata da Mussolini nell’ottobre 1922 come dimostrazione di forza nei confronti del governo e del re, il quale reagì affidando al duce il compito di formare un nuovo governo. Tutti i simpatizzanti del fascismo furono chiamati a dirigersi verso Roma da ogni parte d’Italia, per dimostrare appunto di essere tanti e disposti a tutto. L’episodio divenne nella retorica del regime fascista l’inizio della rivoluzione mussoliniana e gli antifascisti non ebbero difficoltà a metterlo in ridicolo; anche Meneghello, in questo passo, sottolinea la stramberia della manifestazione (il padre che fa solo 4 chilometri di strada, però nella direzione giusta!).
(8) 1940-XVIII = in epoca fascista il comune numero che indicava gli anni veniva scritto seguito da un numero romano che indicava da quanti anni era cominciata la “rivoluzione fascista”. La data si leggeva appunto come “1940 - diciottesimo dell’era fascista”, la quale era cominciata proprio con la marcia su Roma.
(9) litòre = littore, ossia nel periodo fascista studente universitario vincitore di una gara dei littoriali della cultura, dell’arte o dello sport. Il nome di queste gare culturali o sportive, riservate agli studenti universitari iscritti ai GUF (Gruppi dei fascisti universitari), ha origini latine, nel complesso di retorica voluto da Mussolini, per il quale il fascismo doveva essere la rinascita delle antiche grandezze di Roma.
(10) 15 Ter = camion prodotti dalla Fiat e usati in operazioni militari.
(11) small talk = conversazione informale, a ruota libera.
(12) bandit = così i tedeschi definivano un partigiano; quando uno di essi veniva ucciso, spesso era esposto pubblicamente con un cartello appeso al cadavere con tale definizione.
(13) si tratta di un messaggio cifrato, com’era in uso durante la Resistenza, per comunicare senza farsi capire qualora il messaggio venisse intercettato da fascisti e nazisti. Tòso significa ragazzo.



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