martedì 8 agosto 2017

96 Libera nos a malo: capitolo 20 (di Luigi Meneghello)




In questo capitolo (da cui ho tralasciato tre pagine iniziali) Meneghello parla dello stare assieme tra amici, in Compagnia: l’esperienza più significativa della vita, che, se si potesse, si vorrebbe per sempre. L’autore ne descrive il funzionamento, la composizione (con i membri perfetti e gli iloti e le ausiliarie), gli scopi (soprattutto il sesso). Memorabile è la descrizione di Pompeo, “il più distinto degli iloti”, ovvero quello che i ragazzi d’oggi chiamano uno sfigato: da far leggere in classe agli attuali adolescenti, così fragili e insicuri.

Il luogo che si chiama il Feo, sul ciuffo dei monti, qua sopra Monte di Malo, non ci pareva facesse parte del mondo: era un assurdo pregiudizio, ma secondo noi ci abitava una schiatta primitiva di uomini, con le loro capre, le donne, i bambini e le galline. C’era inoltre un prete, una scoletta, un’osteria, e una volta all’anno la sagra.
Da ragazzi noi ci andavamo però anche d’inverno, a sciare, e un anno che c’era molta neve restammo parecchi giorni. Si usciva in zoccoli dall’osteria, di notte, per andare alla casa disabitata dove dormivamo; c’era la luna, la neve alta pareva color rosa, e scricchiolava sotto gli zoccoli.
Fu una settimana irreale. Il Feo era un paradiso ghiacciato, i sensi increduli divoravano il giorno frizzante, l’abbaglio del cielo notturno. La meraviglia diventava riso convulso; rifatti bambini, indistinguibili l’uno dall’ altro, i quattro ragazzotti risero tutta la settimana.
Per andare a letto ci si imbacuccava con sciarpe, passamontagna, guanti di lana. Eravamo in cinque nella camera: noi quattro (io, Mino e i due Bruni) in un gran letto; e il maiale nel suo recinto in un angolo. Pisciavamo sul maiale arrampicati sopra lo steccato. Bersagliato dai getti dei fantasmi imbottiti, agitati da quel perpetuo ridere, grugniva senza arrabbiarsi, e al lume della candela lo si vedeva fumare.

Questo sentirsi insieme, e contenti, è supremamente importante. Si profilava tra gli amici abituali uno schema di rapporti stabili; gli amici diventavano una Compagnia. Pareva di essere non solo al centro del mondo, ma investiti di un privilegio speciale.
Per i ragazzi di un paese la Compagnia è l’istituto-madre. È un’associazione libera, un club senza sede e senza regolamento, ma i suoi legami sembrano in quegli anni più forti di ogni altra associazione naturale o tradizionale. Sorge ovviamente tra vecchi compagni di scuola, vicini di contrada, coetanei; corrisponde alle varie generazioni, anzi è uno dei modi fondamentali di contare le generazioni in paese.
L’altro modo è la classe di leva, “la calasse”, la quale è parte riconosciuta della personalità di un uomo; come si sa il suo nome, tutti sanno la sua classe. Chi è Gigio Urta? È il lattaio figlio, quello che giocava con la Colomba sul prato, che è dell’undici; Nano Busa intanto, che è del dodici, giocava colla Dosolina, e noi che avevamo osservato il gioco lo andammo a descrivere alla mamma. La mamma disse: «E cosa vi interessa a voi, pettegoli?». Aveva ragione anche lei, però ci interessava. La Colomba era bianca, prosperosa e ben fatta, la Dosolina magra e graziosa. La prima classe che io ricordo bene è quella del sette, ricordo anche distintamente che a suo tempo l’avvento di quelli dell’undici mi fece sentire la minaccia del tempo che divora le generazioni; mi parve un cattivo scherzo della vita che questi ragazzotti dell’undici andassero già coscritti (1); quando andarono quelli del dodici mi arresi, e da allora non ci ho più pensato, benché ogni anno mi sorprenda quello che vedo scritto sui muri.
Ma ciò che dà più vivo il senso delle generazioni è la suddivisione per Compagnie. Ciascuna Compagnia ha un suo raggio anagrafico, forse di una mezza dozzina di anni, e c’è relativamente poca sovrapposizione ai margini; gli amici si raggruppano attorno a due tre classi centrali determinate probabilmente dal caso. Si forma una piccola costellazione compatta, e sopra e sotto si ha il senso del vuoto. Con le compagnie precedenti e successive si hanno scarsi rapporti: sono formazioni extra-galattiche, di cui possiamo appena distinguere la struttura generale, e giudicare che è simile alla nostra.
Negli anni dell’adolescenza e della gioventù la Compagnia è l’istituzione più importante di tutte, l’unica che sembra dar senso alla vita. Stare insieme con gli amici è il più grande piacere, davanti al quale tutto il resto impallidisce.
«Il tempo che si trascorreva lontano dagli amici pareva sempre tempo perduto», dice mio fratello. Andare a scuola, fare i compiti, erano attività in sé né belle né brutte, ma sgradite perché consumavano tempo; si sciupava tempo perfino a mangiare alla tavola di casa. Appena possibile ci si precipitava “fuori”, ci si trovava cogli amici, e solo allora ci si sentiva contenti. Per questo verso nessun’altra esperienza successiva può mai essere altrettanto perfetta. Il mondo era quello, auto-sufficiente, pienamente appagato. Se si potesse restare sempre così, non si vorrebbe mai cambiare.
Di queste forme di associazione tra i giovani la società urbana moderna è oggi molto più conscia: non solo si ammette ufficialmente che esistono, ma ci si rende conto della loro importanza, e le vediamo studiate, descritte e rappresentate. Invece nella nostra società paesana non era così; tutti vedevano che c’erano le Compagnie, ma le consideravano un accidente marginale. Eravamo inquadrati in varie altre associazioni e istituzioni riconosciute: messi per così eravamo i giovani dell’Azione Cattolica, messi per così la gioventù del regime; c’erano poi la famiglia e la scuola. Ma l’influenza di tutte queste belle cose era superficiale di fronte a quella esercitata dal gruppo dei propri compagni di elezione.
In essenza la Compagnia era una libera associazione coi propri pari; normalmente non c’era un pecking order (2), e non c’erano veri capi. Le varie capacità di ciascuno erano bensì conosciute e apprezzate, ma il requisito fondamentale era quello del piacere di stare insieme da pari a pari: o c’era questo piacere, o non c’era; e quando c’era, le doti e i difetti personali diventavano cose secondarie.
Tutto questo vale soprattutto per il nocciolo centrale della Compagnia, ma come altre società di uomini liberi, anche questa si creava attorno delle strutture complementari che ammettevano gradazioni e differenze. Stabile al centro c’era il piccolo nucleo compatto di membri perfetti, Mino, Ampelio, i due Bruni, Guido e qualche altro: la massa era qui, un fitto aggiramento reciproco di inseparabili protoni. Attorno con orbite più larghe, roteavano i membri associati, più numerosi e partecipi solo saltuariamente e con meno completa intimità.
Verso i meteci (3), gente di passaggio o nuovi arrivi in paese, c’era qualche iniziale freddezza e diffidenza, ma chi aveva i requisiti acquistava presto una completa parità di diritti e privilegi. I requisiti erano sempre gli stessi: non era una questione di prestanza fisica, e meno che mai di intelligenza o di danaro (la Compagnia aveva standards quasi spartani), ma solo di essere presi sul serio, di riuscire accettabili in pratica. Chi non veniva preso sul serio entrava automaticamente nella sottoclasse degli iloti (4). Questi accettavano liberamente il proprio stato d’inferiorità (assai relativa e impalpabile del resto) e se la Compagnia era necessaria a loro, anche loro diventavano necessari alla Compagnia. Su questi consoci imperfetti, gli altri proiettavano l’immagine della propria perfezione per vederla riflessa. Le loro debolezze offrivano un argomento inesauribile d’analisi e di commento, un mezzo per misurare la propria forza. Poiché accettavano in partenza la scala di valori della Compagnia, accadeva che anche la loro imperfetta compartecipazione a questi valori finisse col rassodare il sistema. Ogni associazione di questo tipo è un po’ una società di mutua ammirazione: e qui gli iloti reggevano la candela. Esemplare in questi rapporti con gli iloti era Bruno Erminietto, uno dei più ammirati membri perfetti.
Ma l’ilota non è un semplice tirapiedi o parassita, anzi può avere una personalità spiccata. Il più distinto degli iloti era Pompeo, che fa oggi il veterinario in un altro paese. Era venuto tra noi relativamente tardi, già adolescente; aveva un ramo di ingegno letterario, era uno di quei giovani che compongono facilmente, e con un certo caotico vigore. Questo ramo d’ingegno diede in furia alcuni vistosi fiori e frutti, poi marcì rapidamente.
Corpulento, bleso (5), spettinato, il Pompeo che ricordiamo noi pareva il più bislacco uomo del mondo. Voleva vivere esattamente come gli altri, e questo era il suo sbaglio, perché gli mancavano certe doti elementari, come il senso dell’equilibrio (quello fisiologico), e non imparò mai veramente ad andare in bicicletta, benché con la bicicletta si spostasse o almeno sbandasse da un luogo all’altro.
Per Pompeo il mondo esterno doveva essere molto più mobile e infido che per noi. Nel valutare distanze, nel dosare un colpo, una spinta, un salto, era alla mercé di un universo capriccioso; ed è naturale che avesse paura. A noi certe volte pareva soltanto un fifone, ma date le circostanze, penso che quella paura fosse uno dei suoi tratti più normali. Capriccioso era diventato anche il suo corpo, che gli obbediva solo imperfettamente e come a casaccio. Era un problema per lui anche bere alla fontana della vasca dietro il Castello; gli scivolò il gomito nell’acqua, fu invaso dal terrore, e si afferrò alle sbarre dove si posano i secchi con tanta disperazione che riuscì a issarsi sopra la sponda e a capovolgersi a forza di braccia dentro la vasca.
Lì dentro, in quel mezzo metro d’acqua, bastava non dico mettersi in piedi per essere in salvo, ma restare in ginocchio, o semplicemente sedersi. Invece il disgraziato era preda ormai di forze indecorose e irresistibili: le risa morirono sulle bocche spalancate degli amici presenti, e l’ultima parte del dramma si svolse in silenzio tra i piccoli sciacquii attorno a Pompeo ormai tutto sommerso, rannicchiato sotto le sbarre che stringeva con tanta forza che riuscì difficile tirarlo fuori prima che annegasse.
Se andava al Rostón con gli altri “a fare il bagno”, si spogliava anche lui in costume, ma non osava entrare nell’acqua del piccolo bacino più in su delle caviglie. Sul terrapieno di cemento passa un canaletto largo mezzo metro e profondo tre dita, dove trascorre un velo di acqua chiara. Qui Pompeo andava a distendersi nell’acqua a pancia in giù. Era più sull’umido che in acqua, ma ci trovava gusto: agitava energicamente le braccia e le gambe come nuotando in vari stili, si divertiva, si scatenava. Era fatica farlo venir via. «Come si sta bene dopo una bella nuotata», ripeteva asciugandosi la pancia, rivestendosi cogli altri, allegro, da pari a pari.
Era incontinente (6), Pompeo: quando mancavano le sigarette e si seppe che all’osteria in Boro ne era arrivata una partita, qualcuno lo mandò a prenderne un pacchetto da dieci. Tornò entro venti minuti fumando le due ultime, contemporaneamente. La sua incontinenza non era universale quanto alla materia, ma assoluta quanto alla forma. Non verteva su tutti i sensi o le passioni: poco sul mangiare, mediocremente e in modo sporadico sul bere. Ma nei suoi propri campi era praticamente illimitata, e il campo supremo era per lui (come la lussuria per i più) il fumare.
Vederlo fumare era in sé tutta un’educazione, generava pietà e terrore, purificava l’anima. Siamo tutti entità mobili e provvisorie, precariamente tenute insieme; ma Pompeo quando aggrediva una sigaretta, o potendo due, si disfaceva visibilmente. Gli occhi si impicciolivano come sul punto di rimarginarsi nella piega delle palpebre, i capelli gli fluttuavano sulla fronte, gli dondolava la testa, si sentivano i polmoni pompare, e gli sgorghi interni del fumo invadere a soprassalti tutto l’uomo; e i piedi annaspavano cercando la terra ferma. Pompeo non c’era più, c’era un grosso infante che si disgregava tettando (7).
Sbagliava a voler copiare certi modelli, a pretendere di fare impressione a Bruno Erminietto. Una sera arrivò dal Castello tutto eccitato, si capiva che doveva essere accaduto qualcosa di drammatico, di radicale. Era trafelato, perché era venuto di corsa; ma quando riuscì ad articolare con voce strozzata il suo messaggio: «L’ho baciata, io-porco», tutti scoppiarono a ridere, e Pompeo non capiva perché.
Giocava ogni giorno al biliardo, impresa disperata per un uomo così radicalmente orbato di ogni senso delle distanze e del movimento, e perdeva una modesta somma fissa. Andava via rassegnato, ripetendo sempre la stessa giaculatoria:
«Ti ringrazio porco-io che anche oggi ci hai dato il nostro pane quotidiano».

E che cosa si faceva insieme? Qualunque cosa, quello che suggeriva il capriccio, l’ora del tempo, la stagione.
Nelle sere d’estate dalla strada che mena in Castello, guardando a destra nei prati oltre il torrente, le famiglie a passeggio vedevano baluginare al livello dell’erba effimeri globi di luce. Non lucciole, non fuochi fatui: parevano piccoli spari estivi...
Là dove il greto del torrente si mischia colla spalla tenera dei prati, gli amici supini in fila sollevavano in aria le gambe, l’ilota inserviente preparava i fiammiferi, dava sottovoce il segnale. A turno davanti a ciascun giacente lampeggiava una fiamma bluastra (8).
La Compagnia non ha fini pratici, è un modo di essere: ma naturalmente i soci tendono anche a fare insieme molte cose specifiche, lo sport, gli svaghi, e soprattutto la pursuit (9) del sesso. In pratica quest’ultima diventa a un certo punto l’attività più importante della Compagnia, e la sua principale funzione.
Io non conosco a fondo la storia della Compagnia nel momento in cui si cristallizzò in questo modo, e per così dire si specializzò, perché ero solo saltuariamente in paese negli anni cruciali; ma so tuttavia qualcosa. Non c’è dubbio che nella formazione dei miei amici la Compagnia è stata per questo verso l’agente più importante. Nella Compagnia – in bene o in male – si acquista la propria educazione sessuale, e si plasma quella parte del carattere di un uomo che dipende dal sesso. Per questo rispetto la Famiglia, la Scuola e la Chiesa contano assai meno.
La pursuit collettiva del sesso fornisce una scala di valori che in teoria consentirebbero di ridimensionare radicalmente la personalità dei soci. Raramente però il risultato differisce molto dal precedente ordinamento di membri perfetti, membri associati e iloti. Chi è preso sufficientemente sul serio prima di incominciare a andare a donne, non è probabile che si riveli poi inetto con le donne, perché l’impresa ha un carattere cooperativo e associato che riduce i rischi della timidezza e della goffaggine. D’altro canto i membri imperfetti e gli iloti tendono a incappare in vari infortuni proprio perché partecipano meno pienamente dei vantaggi dell’azione collettiva.

L’istituto-madre, l’asilo, il grembo. Si sta bene qui, si giace stravaccati tra le gambe delle sedie, incrocicchiati alla rinfusa colle ragazze. Con storto passo si risalgono le pontàre (10) dei sofà, si esplorano strapiombi di galloni. Le luci sono velate, le voci sommesse: la chioccia della Compagnia cova la sua nidiata. È sabato, si può stare fino a tardi, domani si va a messa ultima.
La Compagnia è sostanzialmente un istituto maschile, ma ha di solito il suo complemento di tóse-fisse (11), ausiliarie reclutate tra le bambine con cui si giocava da piccoli, cugine, compagne di scuola, vicine di casa, coetanee un po’ più giovani. Mentre la Compagnia funziona giorno e notte, le ausiliarie s’aggregano prevalentemente alla sera per i passeggi o le sedute in gruppo, e inoltre alla festa e nelle gite.
Collettivamente sono trattate come socie e amiche, ma individualmente si specializzano. Protetta dalla natura associata del suo rapporto coi maschi, sotto le ali della Compagnia la tósa-ausiliaria può permettersi libertà che altrimenti avrebbero conseguenze sociali irreparabili: così prova senza impegno con questo o con quello finché il giro si ferma e alcuni restano cubiati (12).

Tra le ausiliarie ce n’erano di belle e spericolate; c’era una moretta riccioluta che letteralmente militava nella Compagnia, la concepiva come una milizia, una specie di naia; e una bionda che prediligeva il lato avventuroso del servizio, si prodigava in brevi e continue scaramucce, assai vivaci ma impostate con fondamentale praticità e serietà. Era una ragazza allegra, ma “soda”; una parola di cui ho appreso proprio a Malo le inflessioni culturali ed etiche. Ero dalla nonna: c’era un prete giovane, o un seminarista quasi maturo, che parlava di non che autore, credo un confutatore di Kant (13) o qualcosa di simile: disse che la sua dottrina era soda, ed io capii immediatamente. Così era anche questa ausiliaria.
L’ausiliaria media è di statura regolamentare, piacente, modesta: superiore – in quanto tipo – ad ogni elogio. Naturalmente ce n’erano alcune di brutte, gli Strafànti (esserini che dardeggiano, leggeri e divertenti), e i Casuàli (oggetti o mobili ingombranti e sgraziati).
Rodolfino, di sette anni, veniva senza rendersene conto a far la guardia a sua sorella. Non era colpa sua, ma rompeva le scatole. Siccome aveva una testa tutta fronzuta di riccioloni biondi, e il corpicino esile che finiva nelle gambette magre magre, l’insieme dava un’idea irresistibile di creatura fatta a cuneo, e come si dice qui, di una péndola. Questo nome sembrava ancora più giusto trascritto in francese, e Rodolfino fu la Pendule.
La sorella era prosperosa ma spesso irritante, e i corteggiatori si vendicavano sulla Pendule che camminava ignaro in mezzo al gruppo nei lenti passeggi serali, e prendeva una fitta serie di crogne (14) sulla testa. La crogna è un vicious blow (15) con le nocche; quelle destinate a Rodolfino erano mascherate da buffetti affettuosi, e si appioppavano soprattutto quando la sorella era distratta. Rodolfino difeso anche dal materasso dei riccioloni, in principio s’inorgogliva di questi segni di attenzione; ma aumentando la forza delle crogne si confondeva e scoppiava in lamenti, che la sorella si affrettava a soffocare con sberle contegnose.
Questo avveniva sui tratti illuminati dei marciapiedi; ma entrando nelle zone buie, i corteggiatori cavavano di tasca le grosse chiavi dei portoni di casa, e passeggiando gliele picchiavano sulla testa che dava un piccolo rimbombo tutto particolare.
Due ragazze erano magnifiche: erano due sorelle che ho poi riviste – sotto altra luce, ma inconfondibili – in un celebre ritratto in versi.

The light of evening, Lissadell,
Great windows open to the south,
Two girls in silk kimonos, both
Beautiful, one a gazelle. (16)

È questione grave quale fosse più bella; erano alte entrambe, slanciate, in anticipo di anni su un certo tipo di bellezza adolescente di cui il cinema ci ha poi dato qualche esempio illustre. Per me non-inglese e non-irlandese, le due ragazze di Lissadell devono la loro bellezza alle sillabe che le circondano, oltre che all’impianto sintattico e alla brevità di quella faccenda della gazzella. Ma le due ragazze di Malo, unassisted (17) dalle sillabe, derivano direttamente la loro bellezza dal rapporto tra le linee lunghe del corpo e i segni rapidi, immaginosi, leggeri con cui erano stati inventati i seni e il collo, le spalle e il viso, gli zigomi alti e i cigli.
La Michela era forse più perfetta quanto a forma pura: c’era proprio la semplicità e la perfezione di un animale giovane. La Claudia era più donna, la sua bellezza era mediata e molto più complessa, aveva passaggi inteneriti, un accenno di languore nella figura e ritmi struggenti nel viso. Tornando dalla montagna ammucchiati nel cassone di un camion, la Claudia era vicino a me, seduti sul fondo. Mi mise una mano su un ginocchio, io la guardai così da vicino (ci conoscevamo appena), e sentii con viva preoccupazione che invece di abbracciarla avrei preferito consolarla. Stranamente lei capì almeno il senso generale della cosa: mi venne più vicino, mi appoggiò la testa sul petto con molta malinconia, e stette così finché arrivammo a Malo.

«È cotto,» diceva la Este alla Flora risciacquando i piatto. La Flora asciugava. La Este si sforzava di pronunciare la parola cotto con la doppia ti. Come l’aveva trovata in un giornaletto, ma le veniva con una e mezza. Parlavano di qualcuno che faceva un po’ di corte a qualcuna. Così parlano le tóse degli uomini, e la loro presunzione, con le smancerie urbane del cotto, fanno venire la cana. Uno cerca di fare i fatti suoi, e loro lo annotano nel registro: “È cotto”. Sciocchine! Volete capirla che generalmente nel cotto non c’è che il còto del coito?
La cana è muta e solitaria, col fotóne si strepita; invece quando vengono le scosse del nervoso si sussurrano improperi sottovoce, si gesticola, e si manovrano i nervetti delle mascelle.

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(1) coscritto = soldato di leva appena arruolato, recluta.
(2) pecking order = letteralmente “ordine di beccata”; l’espressione, derivata dallo studio del comportamento sociale degli animali, è usata anche negli studi della società umana per indicare la gerarchia dei privilegi tra i membri di un gruppo.
(3) meteci = nell’antica Grecia erano gli stranieri liberi residenti in una determinata città, ma esclusi dalla partecipazione attiva alla politica cittadina.
(4) iloti = i lavoratori della terra, ossia l’infimo grado della società spartana nella Grecia antica; qui, in opposizione ai “membri perfetti” della Compagnia, il termine designa il membro gregario, che pur di partecipare al gruppo si adatta alle mansioni più umili.
(5) bleso = con difficoltà nella pronuncia di una o più consonanti (ad esempio la r o la s).
(6) incontinente = incapace di autocontrollo nella soddisfazione dei propri istinti e desideri.
(7) tettando = fumando con avidità, come un neonato attaccato al seno della madre per l’allattamento.
(8) a proposito di questo modo giocoso di emanare peti, Meneghello ha scritto in una nota: «La stoffa filtra il soffio infiammabile con vari effetti a seconda della leggerezza e della lavorazione del tessuto; rimovendo affatto quel diaframma artificiale la piccola miccia muore».
(9) pursuit = ricerca, inseguimento.
(10) pontàre = salite ripide, pendii.
(11) tóse-fisse = ragazze stabili.
(12) cubiati = accoppiati.
(13) Kant = Immanuel Kant, filosofo tedesco del XVIII secolo, massimo rappresentante dell’illuminismo germanico.
(14) crogna = colpo in testa dato con le nocche delle mani.
(15) vicious blow = un colpo violento.
(16) versi del poeta irlandese W. B. Yeats, da “In memory of Eva Gore-Booth and Con Markiewicz”:
La luce della sera, Lissadell,
Grandi finestre aperte verso sud,
Due ragazze in kimono di seta, entrambe
Belle, una gazzella.
(17) unassisted = non assistito da, senza il sostegno di.





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