In
questo capitolo (da cui ho tralasciato tre pagine iniziali) Meneghello parla
dello stare assieme tra amici, in Compagnia: l’esperienza più significativa
della vita, che, se si potesse, si vorrebbe per sempre. L’autore ne descrive il
funzionamento, la composizione (con i membri perfetti e gli iloti e le
ausiliarie), gli scopi (soprattutto il sesso). Memorabile è la descrizione di
Pompeo, “il più distinto degli iloti”, ovvero quello che i ragazzi d’oggi
chiamano uno sfigato: da far leggere in classe agli attuali adolescenti, così
fragili e insicuri.
Il luogo che si chiama il Feo,
sul ciuffo dei monti, qua sopra Monte di Malo, non ci pareva facesse parte del
mondo: era un assurdo pregiudizio, ma secondo noi ci abitava una schiatta
primitiva di uomini, con le loro capre, le donne, i bambini e le galline. C’era
inoltre un prete, una scoletta, un’osteria, e una volta all’anno la sagra.
Da ragazzi noi ci andavamo però
anche d’inverno, a sciare, e un anno che c’era molta neve restammo parecchi
giorni. Si usciva in zoccoli dall’osteria, di notte, per andare alla casa
disabitata dove dormivamo; c’era la luna, la neve alta pareva color rosa, e
scricchiolava sotto gli zoccoli.
Fu una settimana irreale. Il Feo
era un paradiso ghiacciato, i sensi increduli divoravano il giorno frizzante,
l’abbaglio del cielo notturno. La meraviglia diventava riso convulso; rifatti
bambini, indistinguibili l’uno dall’ altro, i quattro ragazzotti risero tutta
la settimana.
Per andare a letto ci si
imbacuccava con sciarpe, passamontagna, guanti di lana. Eravamo in cinque nella
camera: noi quattro (io, Mino e i due Bruni) in un gran letto; e il maiale nel
suo recinto in un angolo. Pisciavamo sul maiale arrampicati sopra lo steccato.
Bersagliato dai getti dei fantasmi imbottiti, agitati da quel perpetuo ridere,
grugniva senza arrabbiarsi, e al lume della candela lo si vedeva fumare.
Questo sentirsi insieme, e
contenti, è supremamente importante. Si profilava tra gli amici abituali uno
schema di rapporti stabili; gli amici diventavano una Compagnia. Pareva di
essere non solo al centro del mondo, ma investiti di un privilegio speciale.
Per i ragazzi di un paese la Compagnia
è l’istituto-madre. È un’associazione libera, un club senza sede e senza regolamento,
ma i suoi legami sembrano in quegli anni più forti di ogni altra associazione
naturale o tradizionale. Sorge ovviamente tra vecchi compagni di scuola, vicini
di contrada, coetanei; corrisponde alle varie generazioni, anzi è uno dei modi
fondamentali di contare le generazioni in paese.
L’altro modo è la classe di leva,
“la calasse”, la quale è parte riconosciuta della personalità di un uomo; come
si sa il suo nome, tutti sanno la sua classe. Chi è Gigio Urta? È il lattaio
figlio, quello che giocava con la Colomba sul prato, che è dell’undici; Nano
Busa intanto, che è del dodici, giocava colla Dosolina, e noi che avevamo
osservato il gioco lo andammo a descrivere alla mamma. La mamma disse: «E cosa
vi interessa a voi, pettegoli?». Aveva ragione anche lei, però ci interessava.
La Colomba era bianca, prosperosa e ben fatta, la Dosolina magra e graziosa. La
prima classe che io ricordo bene è quella del sette, ricordo anche
distintamente che a suo tempo l’avvento di quelli dell’undici mi fece sentire
la minaccia del tempo che divora le generazioni; mi parve un cattivo scherzo
della vita che questi ragazzotti dell’undici andassero già coscritti (1);
quando andarono quelli del dodici mi arresi, e da allora non ci ho più pensato,
benché ogni anno mi sorprenda quello che vedo scritto sui muri.
Ma ciò che dà più vivo il senso
delle generazioni è la suddivisione per Compagnie. Ciascuna Compagnia ha un suo
raggio anagrafico, forse di una mezza dozzina di anni, e c’è relativamente poca
sovrapposizione ai margini; gli amici si raggruppano attorno a due tre classi
centrali determinate probabilmente dal caso. Si forma una piccola costellazione
compatta, e sopra e sotto si ha il senso del vuoto. Con le compagnie precedenti
e successive si hanno scarsi rapporti: sono formazioni extra-galattiche, di cui
possiamo appena distinguere la struttura generale, e giudicare che è simile
alla nostra.
Negli anni dell’adolescenza e
della gioventù la Compagnia è l’istituzione più importante di tutte, l’unica
che sembra dar senso alla vita. Stare insieme con gli amici è il più grande
piacere, davanti al quale tutto il resto impallidisce.
«Il tempo che si trascorreva
lontano dagli amici pareva sempre tempo perduto», dice mio fratello. Andare a
scuola, fare i compiti, erano attività in sé né belle né brutte, ma sgradite
perché consumavano tempo; si sciupava tempo perfino a mangiare alla tavola di
casa. Appena possibile ci si precipitava “fuori”, ci si trovava cogli amici, e
solo allora ci si sentiva contenti. Per questo verso nessun’altra esperienza
successiva può mai essere altrettanto perfetta. Il mondo era quello, auto-sufficiente,
pienamente appagato. Se si potesse restare sempre così, non si vorrebbe mai
cambiare.
Di queste forme di associazione
tra i giovani la società urbana moderna è oggi molto più conscia: non solo si
ammette ufficialmente che esistono, ma ci si rende conto della loro importanza,
e le vediamo studiate, descritte e rappresentate. Invece nella nostra società
paesana non era così; tutti vedevano che c’erano le Compagnie, ma le consideravano
un accidente marginale. Eravamo inquadrati in varie altre associazioni e
istituzioni riconosciute: messi per così eravamo i giovani dell’Azione
Cattolica, messi per così la gioventù del regime; c’erano poi la famiglia e la
scuola. Ma l’influenza di tutte queste belle cose era superficiale di fronte a
quella esercitata dal gruppo dei propri compagni di elezione.
In essenza la Compagnia era una
libera associazione coi propri pari; normalmente non c’era un pecking order (2), e non c’erano veri
capi. Le varie capacità di ciascuno erano bensì conosciute e apprezzate, ma il
requisito fondamentale era quello del piacere di stare insieme da pari a pari:
o c’era questo piacere, o non c’era; e quando c’era, le doti e i difetti
personali diventavano cose secondarie.
Tutto questo vale soprattutto per
il nocciolo centrale della Compagnia, ma come altre società di uomini liberi,
anche questa si creava attorno delle strutture complementari che ammettevano
gradazioni e differenze. Stabile al centro c’era il piccolo nucleo compatto di
membri perfetti, Mino, Ampelio, i due Bruni, Guido e qualche altro: la massa
era qui, un fitto aggiramento reciproco di inseparabili protoni. Attorno con
orbite più larghe, roteavano i membri associati, più numerosi e partecipi solo
saltuariamente e con meno completa intimità.
Verso i meteci (3), gente di
passaggio o nuovi arrivi in paese, c’era qualche iniziale freddezza e
diffidenza, ma chi aveva i requisiti acquistava presto una completa parità di
diritti e privilegi. I requisiti erano sempre gli stessi: non era una questione
di prestanza fisica, e meno che mai di intelligenza o di danaro (la Compagnia
aveva standards quasi spartani), ma
solo di essere presi sul serio, di riuscire accettabili in pratica. Chi non
veniva preso sul serio entrava automaticamente nella sottoclasse degli iloti
(4). Questi accettavano liberamente il proprio stato d’inferiorità (assai
relativa e impalpabile del resto) e se la Compagnia era necessaria a loro,
anche loro diventavano necessari alla Compagnia. Su questi consoci imperfetti,
gli altri proiettavano l’immagine della propria perfezione per vederla
riflessa. Le loro debolezze offrivano un argomento inesauribile d’analisi e di
commento, un mezzo per misurare la propria forza. Poiché accettavano in
partenza la scala di valori della Compagnia, accadeva che anche la loro
imperfetta compartecipazione a questi valori finisse col rassodare il sistema. Ogni
associazione di questo tipo è un po’ una società di mutua ammirazione: e qui
gli iloti reggevano la candela. Esemplare in questi rapporti con gli iloti era
Bruno Erminietto, uno dei più ammirati membri perfetti.
Ma l’ilota non è un semplice
tirapiedi o parassita, anzi può avere una personalità spiccata. Il più distinto
degli iloti era Pompeo, che fa oggi il veterinario in un altro paese. Era venuto
tra noi relativamente tardi, già adolescente; aveva un ramo di ingegno
letterario, era uno di quei giovani che compongono facilmente, e con un certo
caotico vigore. Questo ramo d’ingegno diede in furia alcuni vistosi fiori e
frutti, poi marcì rapidamente.
Corpulento, bleso (5),
spettinato, il Pompeo che ricordiamo noi pareva il più bislacco uomo del mondo.
Voleva vivere esattamente come gli altri, e questo era il suo sbaglio, perché gli
mancavano certe doti elementari, come il senso dell’equilibrio (quello
fisiologico), e non imparò mai veramente ad andare in bicicletta, benché con la
bicicletta si spostasse o almeno sbandasse da un luogo all’altro.
Per Pompeo il mondo esterno
doveva essere molto più mobile e infido che per noi. Nel valutare distanze, nel
dosare un colpo, una spinta, un salto, era alla mercé di un universo
capriccioso; ed è naturale che avesse paura. A noi certe volte pareva soltanto
un fifone, ma date le circostanze, penso che quella paura fosse uno dei suoi
tratti più normali. Capriccioso era diventato anche il suo corpo, che gli
obbediva solo imperfettamente e come a casaccio. Era un problema per lui anche
bere alla fontana della vasca dietro il Castello; gli scivolò il gomito nell’acqua,
fu invaso dal terrore, e si afferrò alle sbarre dove si posano i secchi con
tanta disperazione che riuscì a issarsi sopra la sponda e a capovolgersi a
forza di braccia dentro la vasca.
Lì dentro, in quel mezzo metro d’acqua,
bastava non dico mettersi in piedi per essere in salvo, ma restare in
ginocchio, o semplicemente sedersi. Invece il disgraziato era preda ormai di
forze indecorose e irresistibili: le risa morirono sulle bocche spalancate
degli amici presenti, e l’ultima parte del dramma si svolse in silenzio tra i
piccoli sciacquii attorno a Pompeo ormai tutto sommerso, rannicchiato sotto le
sbarre che stringeva con tanta forza che riuscì difficile tirarlo fuori prima
che annegasse.
Se andava al Rostón con gli altri
“a fare il bagno”, si spogliava anche lui in costume, ma non osava entrare nell’acqua
del piccolo bacino più in su delle caviglie. Sul terrapieno di cemento passa un
canaletto largo mezzo metro e profondo tre dita, dove trascorre un velo di
acqua chiara. Qui Pompeo andava a distendersi nell’acqua a pancia in giù. Era più
sull’umido che in acqua, ma ci trovava gusto: agitava energicamente le braccia
e le gambe come nuotando in vari stili, si divertiva, si scatenava. Era fatica
farlo venir via. «Come si sta bene dopo una bella nuotata», ripeteva
asciugandosi la pancia, rivestendosi cogli altri, allegro, da pari a pari.
Era incontinente (6), Pompeo:
quando mancavano le sigarette e si seppe che all’osteria in Boro ne era
arrivata una partita, qualcuno lo mandò a prenderne un pacchetto da dieci. Tornò
entro venti minuti fumando le due ultime, contemporaneamente. La sua
incontinenza non era universale quanto alla materia, ma assoluta quanto alla
forma. Non verteva su tutti i sensi o le passioni: poco sul mangiare, mediocremente
e in modo sporadico sul bere. Ma nei suoi propri campi era praticamente
illimitata, e il campo supremo era per lui (come la lussuria per i più) il
fumare.
Vederlo fumare era in sé tutta un’educazione,
generava pietà e terrore, purificava l’anima. Siamo tutti entità mobili e
provvisorie, precariamente tenute insieme; ma Pompeo quando aggrediva una
sigaretta, o potendo due, si disfaceva visibilmente. Gli occhi si
impicciolivano come sul punto di rimarginarsi nella piega delle palpebre, i
capelli gli fluttuavano sulla fronte, gli dondolava la testa, si sentivano i
polmoni pompare, e gli sgorghi interni del fumo invadere a soprassalti tutto l’uomo;
e i piedi annaspavano cercando la terra ferma. Pompeo non c’era più, c’era un
grosso infante che si disgregava tettando (7).
Sbagliava a voler copiare certi
modelli, a pretendere di fare impressione a Bruno Erminietto. Una sera arrivò
dal Castello tutto eccitato, si capiva che doveva essere accaduto qualcosa di
drammatico, di radicale. Era trafelato, perché era venuto di corsa; ma quando
riuscì ad articolare con voce strozzata il suo messaggio: «L’ho baciata,
io-porco», tutti scoppiarono a ridere, e Pompeo non capiva perché.
Giocava ogni giorno al biliardo,
impresa disperata per un uomo così radicalmente orbato di ogni senso delle
distanze e del movimento, e perdeva una modesta somma fissa. Andava via
rassegnato, ripetendo sempre la stessa giaculatoria:
«Ti ringrazio porco-io che anche
oggi ci hai dato il nostro pane quotidiano».
E che cosa si faceva insieme?
Qualunque cosa, quello che suggeriva il capriccio, l’ora del tempo, la
stagione.
Nelle sere d’estate dalla strada
che mena in Castello, guardando a destra nei prati oltre il torrente, le
famiglie a passeggio vedevano baluginare al livello dell’erba effimeri globi di
luce. Non lucciole, non fuochi fatui: parevano piccoli spari estivi...
Là dove il greto del torrente si
mischia colla spalla tenera dei prati, gli amici supini in fila sollevavano in
aria le gambe, l’ilota inserviente preparava i fiammiferi, dava sottovoce il
segnale. A turno davanti a ciascun giacente lampeggiava una fiamma bluastra (8).
La Compagnia non ha fini pratici,
è un modo di essere: ma naturalmente i soci tendono anche a fare insieme molte
cose specifiche, lo sport, gli svaghi, e soprattutto la pursuit (9) del sesso. In pratica quest’ultima diventa a un certo
punto l’attività più importante della Compagnia, e la sua principale funzione.
Io non conosco a fondo la storia
della Compagnia nel momento in cui si cristallizzò in questo modo, e per così
dire si specializzò, perché ero solo saltuariamente in paese negli anni
cruciali; ma so tuttavia qualcosa. Non c’è dubbio che nella formazione dei miei
amici la Compagnia è stata per questo verso l’agente più importante. Nella
Compagnia – in bene o in male – si acquista la propria educazione sessuale, e
si plasma quella parte del carattere di un uomo che dipende dal sesso. Per
questo rispetto la Famiglia, la Scuola e la Chiesa contano assai meno.
La pursuit collettiva del sesso fornisce una scala di valori che in
teoria consentirebbero di ridimensionare radicalmente la personalità dei soci.
Raramente però il risultato differisce molto dal precedente ordinamento di
membri perfetti, membri associati e iloti. Chi è preso sufficientemente sul
serio prima di incominciare a andare a donne, non è probabile che si riveli poi
inetto con le donne, perché l’impresa ha un carattere cooperativo e associato
che riduce i rischi della timidezza e della goffaggine. D’altro canto i membri
imperfetti e gli iloti tendono a incappare in vari infortuni proprio perché
partecipano meno pienamente dei vantaggi dell’azione collettiva.
L’istituto-madre, l’asilo, il
grembo. Si sta bene qui, si giace stravaccati tra le gambe delle sedie,
incrocicchiati alla rinfusa colle ragazze. Con storto passo si risalgono le
pontàre (10) dei sofà, si esplorano strapiombi di galloni. Le luci sono velate,
le voci sommesse: la chioccia della Compagnia cova la sua nidiata. È sabato, si
può stare fino a tardi, domani si va a messa ultima.
La Compagnia è sostanzialmente un
istituto maschile, ma ha di solito il suo complemento di tóse-fisse (11),
ausiliarie reclutate tra le bambine con cui si giocava da piccoli, cugine,
compagne di scuola, vicine di casa, coetanee un po’ più giovani. Mentre la
Compagnia funziona giorno e notte, le ausiliarie s’aggregano prevalentemente
alla sera per i passeggi o le sedute in gruppo, e inoltre alla festa e nelle
gite.
Collettivamente sono trattate
come socie e amiche, ma individualmente si specializzano. Protetta dalla natura
associata del suo rapporto coi maschi, sotto le ali della Compagnia la tósa-ausiliaria
può permettersi libertà che altrimenti avrebbero conseguenze sociali irreparabili:
così prova senza impegno con questo o con quello finché il giro si ferma e
alcuni restano cubiati (12).
Tra le ausiliarie ce n’erano di
belle e spericolate; c’era una moretta riccioluta che letteralmente militava nella Compagnia, la concepiva
come una milizia, una specie di naia; e una bionda che prediligeva il lato
avventuroso del servizio, si prodigava in brevi e continue scaramucce, assai
vivaci ma impostate con fondamentale praticità e serietà. Era una ragazza
allegra, ma “soda”; una parola di cui ho appreso proprio a Malo le inflessioni
culturali ed etiche. Ero dalla nonna: c’era un prete giovane, o un seminarista
quasi maturo, che parlava di non che autore, credo un confutatore di Kant (13)
o qualcosa di simile: disse che la sua dottrina era soda, ed io capii
immediatamente. Così era anche questa ausiliaria.
L’ausiliaria media è di statura
regolamentare, piacente, modesta: superiore – in quanto tipo – ad ogni elogio.
Naturalmente ce n’erano alcune di brutte, gli Strafànti (esserini che
dardeggiano, leggeri e divertenti), e i Casuàli (oggetti o mobili ingombranti e
sgraziati).
Rodolfino, di sette anni, veniva
senza rendersene conto a far la guardia a sua sorella. Non era colpa sua, ma
rompeva le scatole. Siccome aveva una testa tutta fronzuta di riccioloni
biondi, e il corpicino esile che finiva nelle gambette magre magre, l’insieme
dava un’idea irresistibile di creatura fatta a cuneo, e come si dice qui, di
una péndola. Questo nome sembrava ancora più giusto trascritto in francese, e
Rodolfino fu la Pendule.
La sorella era prosperosa ma
spesso irritante, e i corteggiatori si vendicavano sulla Pendule che camminava ignaro in mezzo al gruppo nei lenti passeggi
serali, e prendeva una fitta serie di crogne (14) sulla testa. La crogna è un vicious blow (15) con le nocche; quelle
destinate a Rodolfino erano mascherate da buffetti affettuosi, e si
appioppavano soprattutto quando la sorella era distratta. Rodolfino difeso
anche dal materasso dei riccioloni, in principio s’inorgogliva di questi segni
di attenzione; ma aumentando la forza delle crogne si confondeva e scoppiava in
lamenti, che la sorella si affrettava a soffocare con sberle contegnose.
Questo avveniva sui tratti
illuminati dei marciapiedi; ma entrando nelle zone buie, i corteggiatori
cavavano di tasca le grosse chiavi dei portoni di casa, e passeggiando gliele
picchiavano sulla testa che dava un piccolo rimbombo tutto particolare.
Due ragazze erano magnifiche:
erano due sorelle che ho poi riviste – sotto altra luce, ma inconfondibili – in
un celebre ritratto in versi.
The light of evening,
Lissadell,
Great windows open to
the south,
Two girls in silk
kimonos, both
Beautiful, one a
gazelle. (16)
È questione grave quale fosse più
bella; erano alte entrambe, slanciate, in anticipo di anni su un certo tipo di
bellezza adolescente di cui il cinema ci ha poi dato qualche esempio illustre. Per
me non-inglese e non-irlandese, le due ragazze di Lissadell devono la loro
bellezza alle sillabe che le circondano, oltre che all’impianto sintattico e
alla brevità di quella faccenda della gazzella. Ma le due ragazze di Malo, unassisted (17) dalle sillabe, derivano
direttamente la loro bellezza dal rapporto tra le linee lunghe del corpo e i
segni rapidi, immaginosi, leggeri con cui erano stati inventati i seni e il
collo, le spalle e il viso, gli zigomi alti e i cigli.
La Michela era forse più perfetta
quanto a forma pura: c’era proprio la semplicità e la perfezione di un animale
giovane. La Claudia era più donna, la sua bellezza era mediata e molto più
complessa, aveva passaggi inteneriti, un accenno di languore nella figura e
ritmi struggenti nel viso. Tornando dalla montagna ammucchiati nel cassone di
un camion, la Claudia era vicino a me, seduti sul fondo. Mi mise una mano su un
ginocchio, io la guardai così da vicino (ci conoscevamo appena), e sentii con
viva preoccupazione che invece di abbracciarla avrei preferito consolarla. Stranamente
lei capì almeno il senso generale della cosa: mi venne più vicino, mi appoggiò
la testa sul petto con molta malinconia, e stette così finché arrivammo a Malo.
«È cotto,» diceva la Este alla
Flora risciacquando i piatto. La Flora asciugava. La Este si sforzava di
pronunciare la parola cotto con la doppia ti. Come l’aveva trovata in un
giornaletto, ma le veniva con una e mezza. Parlavano di qualcuno che faceva un
po’ di corte a qualcuna. Così parlano le tóse degli uomini, e la loro
presunzione, con le smancerie urbane del cotto, fanno venire la cana. Uno cerca
di fare i fatti suoi, e loro lo annotano nel registro: “È cotto”. Sciocchine!
Volete capirla che generalmente nel cotto non c’è che il còto del coito?
La cana è muta e solitaria, col
fotóne si strepita; invece quando vengono le scosse del nervoso si sussurrano
improperi sottovoce, si gesticola, e si manovrano i nervetti delle mascelle.
____________________________________________________________________
(1) coscritto = soldato di leva
appena arruolato, recluta.
(2) pecking order = letteralmente
“ordine di beccata”; l’espressione, derivata dallo studio del comportamento
sociale degli animali, è usata anche negli studi della società umana per
indicare la gerarchia dei privilegi tra i membri di un gruppo.
(3) meteci = nell’antica Grecia
erano gli stranieri liberi residenti in una determinata città, ma esclusi dalla
partecipazione attiva alla politica cittadina.
(4) iloti = i lavoratori della
terra, ossia l’infimo grado della società spartana nella Grecia antica; qui, in
opposizione ai “membri perfetti” della Compagnia, il termine designa il membro
gregario, che pur di partecipare al gruppo si adatta alle mansioni più umili.
(5) bleso = con difficoltà nella
pronuncia di una o più consonanti (ad esempio la r o la s).
(6) incontinente = incapace di
autocontrollo nella soddisfazione dei propri istinti e desideri.
(7) tettando = fumando con
avidità, come un neonato attaccato al seno della madre per l’allattamento.
(8) a proposito di questo modo
giocoso di emanare peti, Meneghello ha scritto in una nota: «La stoffa filtra
il soffio infiammabile con vari effetti a seconda della leggerezza e della
lavorazione del tessuto; rimovendo affatto quel diaframma artificiale la
piccola miccia muore».
(9) pursuit = ricerca,
inseguimento.
(10) pontàre = salite ripide, pendii.
(11) tóse-fisse = ragazze
stabili.
(12) cubiati = accoppiati.
(13) Kant = Immanuel Kant,
filosofo tedesco del XVIII secolo, massimo rappresentante dell’illuminismo
germanico.
(14) crogna = colpo in testa dato
con le nocche delle mani.
(15) vicious blow = un colpo
violento.
(16) versi del poeta irlandese W.
B. Yeats, da “In memory of Eva Gore-Booth and Con Markiewicz”:
La luce della sera,
Lissadell,
Grandi finestre
aperte verso sud,
Due ragazze in kimono
di seta, entrambe
Belle, una gazzella.
(17) unassisted = non assistito da,
senza il sostegno di.
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