Il tema della seconda giornata
del Decameron è quello di un lieto fine conseguente a un fatto che non
lasciasse speranza di uscirne.
La prima novella è ambientata a
Treviso, dove tre giovinastri, pur di vedere con i propri occhi chi sia quel
sant’uomo che, posto nel Duomo, fa accorrere una moltitudine di trevigiani,
architettano uno scherzo che porta uno di loro agli arresti e quasi all’impiccagione,
se non fosse per l’intervento di un nobile signore. La novella racconta fatti
storici, riferiti con estrema precisione dai più autorevoli testimoni
contemporanei: la vita umile di facchino del sant’uomo, originario di Bolzano,
il miracoloso suonare delle campane alla sua morte, il trasporto in Duomo fra l’entusiasmo
popolare, i primi miracoli, fra cui la guarigione di un paralitico. Arrigo
venne beatificato e ancor oggi nel Duomo di Treviso vi è un altare a lui
dedicato.
[Giornata seconda: 1]
Martellino, infignendosi
attratto, sopra santo Arrigo fa vista di guarire e, conosciuto il suo inganno,
è battuto e poi preso; e in pericol venuto d’essere impiccato per la gola,
ultimamente scampa.
Spesse volte, carissime donne,
avvenne che chi altrui s’è di beffare ingegnato, e massimamente quelle cose che
sono da reverire, s’è colle beffe e talvolta col danno sé solo ritrovato. Il
che, acciò che io al comandamento della reina ubbidisca e principio dea con una
mia novella alla proposta, intendo di raccontarvi quello che prima
sventuratamente e poi, fuori di tutto il suo pensiero, assai felicemente ad un
nostro cittadino adivenisse.
Era, non è ancora lungo tempo
passato, un tedesco a Trivigi, chiamato Arrigo, il quale, povero uomo essendo,
di portare pesi a prezzo serviva chi il richiedeva; e, con questo, uomo di
santissima vita e di buona era tenuto da tutti. Per la qual cosa, o vero o non vero
che si fosse, morendo egli adivenne, secondo che i trivigiani affermano, che
nell’ora della sua morte le campane della maggior chiesa di Trivigi tutte,
senza essere da alcuno tirate, cominciarono a sonare. Il che in luogo di
miracolo avendo, questo Arrigo esser santo dicevano tutti; e concorso tutto il
popolo della città alla casa nella quale il suo corpo giaceva, quello a guisa
d’un corpo santo nella chiesa maggiore ne portarono, menando quivi zoppi,
attratti e ciechi e altri di qualunque infermità o difetto impediti, quasi
tutti dovessero dal toccamento di questo corpo divenir sani.
In tanto tumulto e discorrimento
di popolo, avvenne che in Trivigi giunsero tre nostri cittadini, de’ quali
l’uno era chiamato Stecchi, l’altro Martellino e il terzo Marchese, uomini li
quali, le corti de’ signori visitando, di contraffarsi e con nuovi atti
contraffacendo qualunque altro uomo li veditori sollazzavano. Li quali quivi
non essendo stati giammai, veggendo correre ogni uomo, si maravigliarono, e udita
la cagione per che ciò era disiderosi divennero d’andare a vedere.
E poste le lor cose ad uno
albergo, disse Marchese: «Noi vogliamo andare a veder questo santo, ma io per
me non veggio come noi vi ci possiam pervenire, per ciò che io ho inteso che la
piazza è piena di tedeschi e d’altra gente armata, la quale il signor di questa
terra, acciò che romor non si faccia, vi fa stare; e oltre a questo la chiesa,
per quel che si dica, è sì piena di gente che quasi niuna persona più vi può
entrare».
Martellino allora, che di veder questa
cosa disiderava, disse: «Per questo non rimanga, ché di pervenire infino al
corpo santo troverrò io ben modo».
Disse Marchese: «Come?»
Rispose Martellino: «Dicolti. Io
mi contraffarò a guisa d’uno attratto, e tu dall’un lato e Stecchi dall’altro,
come se io per me andar non potessi, mi verrete sostenendo faccendo sembianti
di volermi là menare acciò che questo santo mi guarisca; egli non sarà alcuno
che veggendoci non ci faccia luogo e lascici andare».
A Marchese e a Stecchi piacque il
modo; e senza alcuno indugio usciti fuor dell’albergo, tutti e tre in un
solitario luogo venuti, Martellino si storse in guisa le mani, le dita e le
braccia e le gambe e oltre a questo la bocca e gli occhi e tutto il viso, che
fiera cosa pareva a vedere; né sarebbe stato alcuno che veduto l’avesse, che
non avesse detto lui veramente esser tutto della persona perduto e rattratto. E
preso, così fatto, da Marchese e da Stecchi, verso la chiesa si dirizzarono in
vista tutti pieni di pietà, umilemente e per l’amor di Dio domandando a
ciascuno che dinanzi lor si parava che loro luogo facesse, il che agevolmente
impetravano; e in brieve, riguardati da tutti e quasi per tutto gridandosi «Fa
luogo! fa luogo!», là pervennero ove il corpo di santo Arrigo era posto; e da
certi gentili uomini, che v’erano da torno, fu Martellino prestamente preso e
sopra il corpo posto, acciò che per quello il beneficio della santà
acquistasse. Martellino, essendo tutta la gente attenta a veder che di lui
avvenisse, stato alquanto, cominciò, come colui che ottimamente fare lo sapeva,
a far sembiante di distendere l’uno de’ diti e appresso la mano e poi il
braccio, e così tutto a venirsi distendendo. Il che veggendo la gente, sì gran
romore in lode di santo Arrigo facevano, che i tuoni non si sarieno potuti
udire.
Era per avventura un fiorentino vicino
a questo luogo, il quale molto bene conoscea Martellino, ma per l’esser così
travolto quando vi fu menato non l’avea conosciuto; il quale, veggendolo
ridirizzato e riconosciutolo, subitamente cominciò a ridere e a dire: «Domine,
fallo tristo! Chi non avrebbe creduto, veggendol venire, che egli fosse stato
attratto da dovero?»
Queste parole udirono alcuni
trivigiani, li quali incontanente il domandarono: «Come! non era costui
attratto?»
A’ quali il fiorentino rispose: «Non
piaccia a Dio! Egli è sempre stato diritto come qualunque è l’un di noi, ma sa
meglio che altro uomo, come voi avete potuto vedere, far queste ciance di
contraffarsi in qualunque forma vuole».
Come costoro ebbero udito questo,
non bisognò più avanti: essi si fecero per forza innanzi e cominciarono a
gridare: «Sia preso questo traditore e beffatore di Dio e de’ santi, il quale,
non essendo attratto, per ischernire il nostro santo e noi, qui a guisa d’attratto
è venuto!» E così dicendo il pigliarono e giù del luogo dove era il tirarono, e
presolo per li capelli e stracciatili tutti i panni indosso gl’incominciarono a
dare delle pugna e de’ calci; né parea a colui essere uomo che a questo far non
correa. Martellin gridava «Mercé per Dio!» e quanto poteva s’aiutava, ma ciò
era niente: la calca gli multiplicava ognora addosso maggiore.
La qual cosa veggendo Stecchi e
Marchese cominciarono fra sé a dire che la cosa stava male, e di se medesimi
dubitando non ardivano a aiutarlo, anzi con gli altri insieme gridando ch’el
fosse morto, avendo nondimeno pensiero tuttavia come trarre il potessero delle
mani del popolo; il quale fermamente l’avrebbe ucciso, se uno argomento non
fosse stato il qual Marchese subitamente prese; che, essendo ivi di fuori la
famiglia tutta della signoria, Marchese, come più tosto poté, n’andò a colui
che in luogo del podestà v’era e disse: «Mercé per Dio! Egli è qua un malvagio
uomo che m’ha tagliata la borsa con ben cento fiorin d’oro; io vi priego che
voi il pigliate, sì che io riabbia il mio».
Subitamente, udito questo, ben
dodici de’ sergenti corsero là dove il misero Martellino era senza pettine
carminato, e alle maggior fatiche del mondo, rotta la calca, loro tutto pesto e
tutto rotto il trassero delle mani e menaronnelo a palagio; dove molti
seguitolo che da lui si tenevano scherniti, avendo udito che per tagliaborse
era stato preso, non parendo loro avere alcuno altro più giusto titolo a fargli
dar la mala ventura, similmente cominciarono a dir ciascuno da lui essergli
stata tagliata la borsa. Le quali cose udendo il giudice del podestà, il quale
era un ruvido uomo, prestamente da parte menatolo, sopra ciò lo’ncominciò a essaminare.
Ma Martellino rispondea motteggiando, quasi per niente avesse quella presura:
di che il giudice turbato, fattolo legare alla colla, parecchie tratte delle
buone gli fece dare con animo di fargli confessare ciò che coloro dicevano, per
farlo poi appiccar per la gola.
Ma poi che egli fu in terra
posto, domandandolo il giudice se ciò fosse vero che coloro incontro a lui dicevano,
non valendogli il dir di no, disse: «Signor mio, io son presto a confessarvi il
vero, ma fatevi a ciascun che m’accusa dire quando e dove io gli tagliai la
borsa, e io vi dirò quello che io avrò fatto e quel che no».
Disse il giudice: «Questo mi
piace»; e fattine alquanti chiamare, l’uno diceva che gliele avea tagliata otto
dì eran passati, l’altro sei, l’altro quatro, e alcuni dicevano quel dì stesso.
Il che udendo Martellino disse: «Signor
mio, essi mentono tutti per la gola! e che io dica il vero, questa pruova ve ne
posso fare: che così non fossi io mai in questa terra entrato, come io mai non
ci fui se non da poco fa in qua; e come io giunsi, per mia disaventura andai a
veder questo corpo santo, dove io sono stato pettinato come voi potete vedere;
e che questo che io dico sia vero, ve ne può far chiaro l’uficial del signore il
quale sta alle presentagioni e il suo libro e ancora l’oste mio. Per che, se
così trovate come io vi dico, non mi vogliate a instanzia di questi malvagi
uomini straziare e uccidere».
Mentre le cose erano in questi
termini, Marchese e Stecchi, li quali avevan sentito che il giudice del podestà
fieramente contro a lui procedeva, e già l’aveva collato, temetter forte, seco
dicendo: «Male abbiam procacciato; noi abbiamo costui tratto della padella e
gittatolo nel fuoco». Per che, con ogni sollecitudine dandosi attorno e l’oste
loro ritrovato, come il fatto era gli raccontarono; di che esso ridendo, gli
menò ad un Sandro Agolanti, il quale in Trivigi abitava e appresso al signore
aveva grande stato; e ogni cosa per ordine dettagli, con loro insieme il pregò
che de’ fatti di Martellino gli tenesse.
Sandro, dopo molte risa,
andatosene al signore impetrò che per Martellino fosse mandato; e così fu. Il
quale coloro che per lui andarono trovarono ancora in camiscia dinanzi al
giudice e tutto smarrito e pauroso forte, per ciò che il giudice niuna cosa in
sua scusa voleva udire; anzi, per avventura avendo alcuno odio ne’ fiorentini,
del tutto era disposto a volerlo far impiccar per la gola e in niuna guisa rendere
il voleva al signore, infino a tanto che costretto non fu di renderlo a suo
dispetto. Al quale poi che egli fu davanti, e ogni cosa per ordine dettagli,
porse prieghi che in luogo di somma grazia via il lasciasse andare, per ciò che
infino che in Firenze non fosse sempre gli parrebbe il capestro aver nella
gola. Il signore fece grandissime risa di così fatto accidente; e fatta donare
una roba per uomo, oltre alla speranza di tutti e tre di così gran pericolo
usciti, sani e salvi se ne tornarono a casa loro.
L’altare del Beato Arrigo nel Duomo di Treviso
PARAFRASI IN ITALIANO MODERNO
Martellino, fingendosi storpio, posto
sopra il corpo di santo Arrigo fa finta di guarire e, conosciuto il suo
inganno, viene battuto e poi arrestato; e rischiato d’esser impiccato per la
gola, ultimamente la scampa.
Spesse volte, carissime donne,
avvenne che chi si è ingegnato di beffare gli altri, e massimamente su quelle
cose che sono da riverire, si è ritrovato solo con le beffe e talvolta con il
danno. Il che, affinché al comandamento della regina ubbidisca e dia inizio con
una mia novella alla sua proposta, intendo di raccontarvi quello che prima
sventuratamente e poi, oltre ogni sua immaginazione, assai felicemente accadde ad
un nostro concittadino.
C’era, non molto tempo fa, un
tedesco a Treviso, chiamato Arrigo, il quale, essendo un povero uomo, si
offriva di portare pesi a pagamento per chi glielo richiedeva; e, malgrado
questo, era considerato da tutti uomo di vita santissima e buona. Per la qual
cosa, vero o non vero che fosse, quando morì [il 10 giugno 1315] avvenne, secondo quello che i trevigiani
affermano, che nell’ora della sua morte tutte le campane della maggior chiesa
di Treviso, senza essere da alcuno tirate, cominciarono a sonare. Il che
sembrando un miracolo, tutti dicevano che questo Arrigo era un santo; e
recatosi tutto il popolo della città alla casa nella quale il suo corpo
giaceva, proprio come se fosse un corpo santo nella chiesa maggiore lo
portarono, conducendo qui zoppi, storpi e ciechi e chiunque altro soffrisse di
qualunque infermità o difetto, quasi che tutti dovessero, nel toccare questo
corpo, divenir sani.
In tanto tumulto e via vai di
popolo, avvenne che a Treviso giunsero tre nostri cittadini, dei quali uno era
chiamato Stecchi, l’altro Martellino e il terzo Marchese, uomini che, visitando
le corti dei signori, divertivano gli altri trasformandosi e con nuovi atti
contraffacendo chiunque. Essi, che qui non erano mai stati, vedendo correre
ogni uomo, si meravigliarono, e uditane la ragione per cui ciò succedeva,
divennero desiderosi d’andare a vedere.
E depositate le loro cose in un
albergo, disse Marchese: «Noi vogliamo andare a veder questo santo, ma secondo
me non vedo come noi ci possiamo arrivare, dato che ho inteso che la piazza è
piena di tedeschi [connazionali di Arrigo
che era di Bolzano] e d’altra gente armata, che il signor di questa terra [Manno della Branca da Gubbio, podestà
ghibellino] vi fa stare, affinché non ci siano tumulti; e oltre a questo la
chiesa, per quel che si dice, è così piena di gente che quasi nessuna persona vi
può più entrare».
Martellino allora, che desiderava
veder questa cosa, disse: «Per questo non si eviti di fare la cosa, perché troverò
io ben il modo di giungere fino al corpo santo».
Disse Marchese: «Come?»
Rispose Martellino: «Te lo dico.
Io mi contraffarò a guisa d’uno storpio, e tu da una parte e Stecchi dall’altra,
come se io non potessi camminare da solo, mi verrete sostenendo, mostrando di
volermi condurre là affinché che questo santo mi guarisca; non ci sarà alcuno
che vedendoci non ci faccia passare e non ci lasci andare».
A Marchese e a Stecchi piacque il
modo; e senza alcun indugio, usciti fuor dell’albergo, arrivati tutti e tre in
un luogo solitario, Martellino si storse talmente le mani, le dita e le braccia
e le gambe e oltre a questo la bocca e gli occhi e tutto il viso, che a vederlo
pareva una cosa spaventosa; non ci poteva essere nessuno che, vedendolo, non
avesse detto che lui veramente era tutto paralizzato nel corpo e rattrappito. E
sostenuto, così fatto, da Marchese e da Stecchi, verso la chiesa si avviarono
all’apparenza tutti pieni di pietà, umilmente e per l’amor di Dio domandando a
ciascuno che dinanzi a loro si parava, che li lasciassero passare, il che
agevolmente ottenevano; e in breve, guardati da tutti e quasi per tutto
gridandosi «Fate passare! Fate passare!», là giunsero dove il corpo di santo
Arrigo era posto; e da certi uomini autorevoli, che v’erano attorno, fu
Martellino prestamente preso e sopra il corpo posto, affinché grazie a quel
contatto egli acquistasse il beneficio della sanità. Martellino, essendo tutta
la gente attenta a osservare che cosa gli capitasse, dopo esserci stato
alquanto, cominciò, dato che ottimamente lo sapeva fare, a far sembiante di
distendere una delle dita e appresso la mano e poi il braccio, fino a
distendersi tutto. La gente, vedendo questo, si mise a fare un così gran rumore
in lode di santo Arrigo, che i tuoni non si sarebbero potuti udire.
C’era per caso in questo luogo un
fiorentino, il quale molto bene conosceva Martellino, ma, per esser egli così
sfigurato quando vi era stato portato, non l’aveva riconosciuto; ma quando lo
vide dritto e lo riconobbe, subitamente cominciò a ridere e a dire: «Signore,
dagli il malanno! Chi non avrebbe creduto, vedendolo venire, che egli non fosse
storpio per davvero?»
Alcuni trevigiani udirono queste parole
e immediatamente gli domandarono: «Come! non era costui storpio?»
Ai quali il fiorentino rispose:
«Non piaccia a Dio! Egli è sempre stato diritto come lo è qualunque di noi, ma lui
sa meglio di ogni altro uomo, come voi avete potuto vedere, far questi scherzi
di contraffarsi in qualunque forma vuole».
Come costoro ebbero udito questo,
non ci volle altro: essi si fecero con la forza innanzi e cominciarono a
gridare: «Sia preso questo traditore e beffatore di Dio e dei santi, il quale,
non essendo paralitico, per schernire il nostro santo e noi, qui a guisa di
paralitico è venuto!» E così dicendo lo pigliarono e giù dal luogo dove era lo
tirarono, e presolo per i capelli e stracciatigli tutti i panni indosso incominciarono
a dargli pugni e calci; a lui non pareva che ci fosse alcuno che non
partecipasse al tafferuglio. Martellino gridava «Mercé per Dio!» e quanto
poteva s’aiutava, ma ciò era inutile: la calca gli si addensava addosso sempre
di più.
Vedendo questa cosa Stecchi e
Marchese cominciarono fra sé a dire che la cosa andava male, e temendo di se
medesimi non ardivano ad aiutarlo, anzi con gli altri insieme gridavano che
fosse ucciso, avendo nondimeno pensiero di come fare per poterlo trarre dalle
mani del popolo; il quale sicuramente l’avrebbe ucciso, se non fosse che
Marchese prese subitamente una decisione; essendoci di fuori la famiglia tutta
della signoria [ossia le guardie del
podestà], Marchese, come più in fretta poté, andò da colui che
rappresentava il podestà e disse: «Mercé per Dio! Vi è qua un malvagio uomo che
m’ha tagliata la borsa [cioè mi ha
derubato] con ben cento fiorini d’oro; io vi prego che voi lo pigliate, così
che io riabbia il mio».
Subitamente, udito questo, ben
dodici sergenti corsero là dove il misero Martellino era senza pettine pettinato
[cioè battuto], e con le maggiori
fatiche del mondo, rotta la calca, tutto pesto e tutto rotto lo afferrarono e
lo portarono al palazzo del podestà; dove molti che da lui si sentivano
scherniti lo seguirono e avendo udito che era stato arrestato in quanto
tagliaborse, non parendo loro avere alcuno altro più giusto titolo per fargli
del male, similmente cominciarono a dire tutti di essere stati derubati da lui.
Udendo questo il giudice del podestà, il quale era un ruvido uomo, portatolo prestamente
da parte, sopra ciò incominciò a esaminarlo. Ma Martellino rispondeva
motteggiando, quasi tenesse in nessun conto quell’arresto: di che il giudice
turbato, fattolo legare alla fune, gli fece dare parecchie tratte di quelle
buone con animo di fargli confessare ciò che coloro dicevano, per farlo poi impiccare
per la gola.
Ma allorché egli fu posto in
terra, domandandogli il giudice se fosse vero ciò che coloro dicevano contro di
lui, non essendogli d’aiuto dir di no, disse: «Signor mio, io son pronto a
confessarvi il vero, ma fatevi dire da ciascun che mi accusa quando e dove io
gli tagliai la borsa, e io vi dirò quello che io avrò fatto e quel che no».
Disse il giudice: «Questo mi
piace»; e fatti chiamare alquanti degli accusatori, uno diceva che era stato
derubato otto giorni prima, un altro sei, un altro quattro, e alcuni dicevano
quel dì stesso.
Udendo questo Martellino disse:
«Signor mio, essi mentono tutti per la gola [sfacciatamente]! e che io dica il vero, questa prova ve ne posso
fare: così io non fossi mai in questa terra entrato, come io mai non ci fui se
non da poco fa; e come io giunsi, per mia disavventura andai a vedere questo
corpo santo, dove io sono stato pettinato come voi potete vedere; e che questo
che io dico sia vero, ve lo può confermare l’ufficiale del signore che sta alle
presentagioni [cioè l’incaricato al quale
dovevano presentarsi i forestieri, al loro arrivo in una città, per far
registrare il loro nome] e il suo libro e ancora l’oste [l’albergatore] mio. Perciò, se così
trovate come io vi dico, non mi vogliate come questi malvagi uomini straziare e
uccidere».
Mentre le cose erano in questi
termini, Marchese e Stecchi, i quali avevano sentito che il giudice del podestà
fieramente contro lui procedeva, e già l’aveva legato alla corda, temettero
assai, dicendo tra sé: «Male abbiam procacciato; noi abbiamo tratto costui dalla
padella e l’abbiamo gettato nel fuoco». Per cui, dandosi da fare con ogni
sollecitudine e avendo ritrovato il loro oste, gli raccontarono quello che era
successo; ed egli ridendo del fatto, li portò da un certo Sandro Agolanti [appartenente ad una nobile famiglia cacciata
da Firenze nella seconda metà del Duecento; alcuni documenti di inizio Trecento
parlano di Agolanti risiedenti a Treviso e a Venezia, dove erano prestatori di
denaro, ossia usurai] , il quale abitava a
Treviso e appresso al signore [che
in realtà nel 1315 non esisteva a Treviso, essendo stato l’ultimo dei Caminesi
cacciato nel 1312; quindi qui, come più sopra, Boccaccio si riferisce al
podestà] aveva grande autorità; e ogni cosa per ordine dettagli, insieme
con loro lo pregò che dei fatti di Martellino si prendesse cura.
Sandro, dopo molte risa, recatosi
dal signore impetrò di mandare qualcuno a favore di Martellino; e così fu. Lo
trovarono ancora in camicia dinanzi al giudice e tutto smarrito e pauroso
forte, dato che il giudice nessuna cosa voleva udire a sua scusa; anzi, per
avventura avendo egli alcuno odio contro i fiorentini, del tutto era disposto a
volerlo far impiccar per la gola e in nessun modo voleva consegnarlo al
signore, finché non fu costretto a farlo a suo dispetto. Quando gli fu davanti
e gli ebbe detta ogni cosa, lo pregò con somma grazia che lo lasciasse andare
via, dato che, finché non fosse a Firenze, sempre gli sarebbe sembrato di avere
il capestro attorno alla gola. Il signore fece grandissime risa di così fatto
accidente; e fatto donare un abito a ciascuno, oltre alla speranza che tutti e
tre erano usciti da così gran pericolo, sani e salvi se ne tornarono a casa
loro.
Miniatura raffigurante in successione alcuni momenti di questa novella
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