Ugo Foscolo pubblicò a Pisa nel
1802 otto sonetti, a cui ne aggiunse altri quattro nell’edizione definitiva del
1803: questi ultimi (Alla sera, A Zacinto, Alla Musa, In morte del
fratello Giovanni) sono considerati i migliori della raccolta e tra i più
belli della letteratura italiana.
I primi otto riconducono alle
atmosfere del romanzo epistolare “Ultime lettere di Jacopo Ortis” e alle
vicende autobiografiche del poeta, cariche di passione politica e sentimentale;
numerose sono le reminiscenze classiche (Petrarca e Alfieri in particolare). Gli
ultimi quattro si sottraggono alle suggestioni immediate della passione, per
aprirsi alla meditazione su sentimenti universali ed eterni.
Il primo sonetto fu scritto tra
il 1797 e il 1801: è uno dei più immaturi della raccolta, troppo ricercato nell’espressione,
ma comunque psicologicamente sincero nella sua esposizione del crollo degli
ideali, che inducono il poeta a considerare vana ogni cosa.
Non son chi fui; perì di noi gran
parte:
questo che avanza è sol languore
e pianto.
E secco è il mirto, e son le
foglie sparte
del lauro, speme al giovenil mio
canto.
Perché dal dì ch’empia licenza e
Marte
vestivan me del lor sanguineo
manto,
cieca è la mente e guasto il
core, ed arte
l’umana strage, arte è in me
fatta, e vanto.
Che se pur sorge di morir
consiglio,
a mia fiera ragion chiudon le
porte
furor di gloria, e carità di
figlio.
Tal di me schiavo, e d’altri, e della
sorte,
conosco il meglio ed al peggior
mi appiglio,
e so invocare e non darmi la
morte.
PARAFRASI:
Non sono più colui che ero; gran
parte di me è morta:
quel che mi resta è solo
struggimento e pianto.
E il mirto [la pianta sacra a Venere, simbolo dell’amore] è secco, e le foglie
dell’alloro [simbolo della gloria poetica],
primo incentivo alla mia poesia giovanile, sono avvizzite.
Perché dal giorno in cui un’empia
licenza [la violenza rivoluzionaria che
rende lecito l’assassinio] e Marte [la
guerra]
mi rivestirono del loro manto di
sangue,
la mia mente è divenuta cieca, e
guasto il cuore, e l’uccidere
altri uomini è diventato per me
arte [mestiere] e vanto.
Che se anche mi viene il pensiero
di morire [con il suicidio],
da questo proposito crudele mi
distolgono
l’ardente desiderio di gloria e l’affetto
di figlio.
Così schiavo di me stesso, e d’altri,
e del destino,
so qual è la cosa migliore da
fare [cioè morire] eppure mi aggrappo
a quella peggiore [cioè vivere],
e so invocare la morte ma non so
darmela.
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