Anche
questo sonetto è probabilmente dedicato a Isabella Roncioni, presentata ancora
come una dea (divine sono le sue membra, immortale il suo sguardo), capace di
placare i tormenti amorosi del poeta, che egli descrive a un solitario ruscello
(reminiscenza petrarchesca), a cui si accosta ogni notte. Ma questi tormenti
trovano infine la consolazione che tutti gli innamorati conoscono bene: il
pianto liberatorio causato dall’amore, anch’esso dono divino, poiché giunge
dalla donna amata.
Perché taccia il rumor di mia
catena
di lagrime, di speme, e di amor
vivo,
e di silenzio; ché pietà mi
affrena
se con lei parlo, o di lei penso
e scrivo.
Tu sol mi ascolti, o solitario
rivo,
ove ogni notte amor seco mi mena,
qui affido il pianto e i miei danni
descrivo,
qui tutta verso del dolor la
piena.
E narro come i grandi occhi
ridenti
arsero d’immortal raggio il mio
core,
come la rosea bocca, e i
rilucenti
odorati capelli, ed il candore
delle divine membra, e i cari
accenti
m’insegnarono alfin pianger d’amore.
PARAFRASI:
Affinché taccia il rumore della
mia catena [cioè della mia sofferenza]
vivo di lacrime, di speranza e di
amore
e di silenzio; perché la pietà mi
trattiene [cioè provo meno pietà di me
stesso]
se parlo con lei, o penso e
scrivo di lei.
Solo tu mi ascolti, rivo
solitario,
dove l’amore mi conduce con sé ogni
notte,
qui io affido [ad esso] il mio pianto e ragiono sulle
mie sofferenze,
qui verso tutta la piena del mio
dolore.
E narro come i suoi grandi occhi
ridenti
bruciarono il mio cuore con il
loro sguardo immortale,
come la rosea bocca e i lucenti
capelli odorosi e il candore
delle membra divine e il caro
suono delle sue parole
mi hanno infine insegnato a
piangere d’amore.
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