Scritto nel 1803, questo sonetto venne collocato dal Foscolo come primo nell’edizione definitiva delle poesie. L’invocazione alla sera non è un tema nuovo nella tradizione letteraria, ma il Foscolo lo rende personale, sia con il riferimento alla propria contemporaneità (il “reo tempo”, cioè il secolo in cui vive), sia con il richiamo esplicito al materialismo (il “nulla eterno”) che faceva parte della formazione ideologica del poeta. È considerato il più bel sonetto foscoliano e uno dei maggiori della letteratura italiana, malgrado il tema doloroso della morte, vista però come il raggiungimento di una suprema pace spirituale.
Forse perché della fatal quïete
tu sei l’immago, a me sì cara
vieni,
o Sera! E quando ti corteggian
liete
le nubi estive e i zeffiri
sereni,
e quando dal nevoso aere inquïete
tenebre e lunghe all’universo
meni,
sempre scendi invocata, e le
secrete
vie del mio cor söavemente tieni.
Vagar mi fai co’ miei pensier su
l’orme
che vanno al nulla eterno; e
intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui
le torme
delle cure onde meco egli si
strugge;
e mentre io guardo la tua pace,
dorme
quello spirto guerrier ch’entro
mi rugge.
PARAFRASI:
Forse perché tu sei l’immagine
della quiete
fatale [la morte], a me vieni
così cara,
o Sera! Sia quanto ti fanno lieto
corteggio
le nubi estive e i zeffiri
sereni,
sia quando dall’aria satura di
neve porti
all’universo tenebre inquietanti
e durature,
sempre scendi invocata, e le
segrete
vie del mio cuore pervadi
soavemente.
Mi fai vagare con i miei pensieri
sulle orme
che conducono al nulla eterno; e
intanto questo tempo
doloroso fugge, e con lui se ne
vanno le schiere
delle angosce con le quali esso
si consuma assieme a me;
e mentre io guardo la tua pace,
dorme
quello spirito guerriero che mi
ruggisce dentro.
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