Anche
questo sonetto fu scritto (forse nel 1801) per Isabella Roncioni, qui
presentata come causa d’un amore infelice, che provoca una dolente solitudine. Pur
non perfetto (l’ultima terzina è generica e l’ultimo verso è preso tale e quale
da un mediocre poeta contemporaneo, Luigi Lamberti) questo sonetto rispetto ai precedenti
appare più maturo, poiché certi accorgimenti stilistici (l’avverbio che apre il
componimento, il ricorso a numerosi enjambements)
danno al componimento un ritmo continuo, melodico, meditativo, come se la
poesia fosse il risultato di un lungo soliloquio interiore, di una vasta
analisi spirituale, debitrice del Petrarca ma anche originale e decisamente
romantica.
Così gl’interi giorni in lungo
incerto
sonno gemo! ma poi quando la
bruna
notte gli astri nel ciel chiama e
la luna,
e il freddo aer di mute ombre è
coverto;
dove selvoso è il piano e più
deserto
allor lento io vagando, ad una ad
una
palpo le piaghe onde la rea
fortuna,
e amore e il mondo hanno il mio
core aperto.
Stanco mi appoggio or al troncon
d’un pino,
ed or prostrato ove strepitan l’onde,
con le speranze mie parlo e
deliro.
Ma per te le mortali ire e il
destino
spesso obliando, a te, donna, io
sospiro:
luce degli occhi miei, chi mi t’asconde?
PARAFRASI:
Così gemo per giorni interi in un
lungo [in quanto viene a mancare la
nozione del tempo]
incerto sonno! ma poi quando l’oscura
notte richiama in cielo gli astri
e la luna,
e l’aria fredda è piena di mute
ombre;
dove la pianura è selvosa e maggiormente
deserta
vagando io allora lento, ad una
ad una
palpo le ferite che l’avversa
fortuna,
e l’amore e gli uomini hanno
aperto nel mio cuore.
Mi appoggio stanco al tronco d’un
pino,
e sfinito ora dove le onde [del mare] strepitano,
parlo con le mie speranze e
deliro.
Ma spesso dimenticando per te le
ire del mondo
e il mio destino, a te, donna, io
sospiro:
luce degli occhi miei, chi ti
nasconde a me?
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