Trovi qui una parte del capitolo 2 di “Fiori italiani”, il romanzo del 1976 di Luigi
Meneghello: in queste pagine l’autore racconta di ciò che si insegnava e si
imparava al ginnasietto, la scuola che sfociava poi nel liceo classico e che,
negli anni Trenta del secolo scorso, era il corrispondente dell’attuale Scuola
media (o Scuola secondaria di primo grado). Le annotazione di Meneghello sui
compagni, sugli insegnanti, sulle poesie di Giacomo Zanella o di Giosuè
Carducci che gli venivano somministrate, sono cariche dell’ironia e del ricorso
a un linguaggio quanto meno aulico possibile, che sono caratteristici di questo
scrittore.
Di una trentina di ragazzetti in
quella prima B ce n’era cinque o sei che imparavano qualcosa (non importa ora
quanto bene o male, e che cosa), gli altri no. I loro rapporti con la morfologia
delle lingue, coi numeri, con l’orografia e l’idrografia, col proclama di
Salemi (1), non miglioravano e non peggioravano. Ciò che dovevano leggere o
ascoltare passava sulla loro pelle come acqua; uscendo di scuola se la
sgocciolavano di dosso. Per lo più si sottoponevano senza proteste a quegli
esercizi penitenziali perché così gli era imposto. Sapevano che sarebbe andata
avanti in quel modo per un bel pezzo. La vita è dura. L’idea che sotto ci fosse
qualcosa da apprendere, magari per poterlo detestare meglio, non li sfiorava.
Dominava la convenzione che gli
esseri umani ancora in erba appartengono già a delle categorie naturali,
classificabili su una scala numerica. Alle elementari i voti si esprimevano in
parole, sufficiente buono lodevole, che non sembrano giudizi ma
incoraggiamenti, cose per bambini piccoli. Qui esisteva il “quattro più per
incoraggiamento”, a sfondo derisorio: il resto era un lucido sistema di numeri,
che rispecchiava la qualità dell’uomo.
In questo – a parte il dettaglio
che i figli degli operai e dei contadini non entravano in gara perché mancavano
del tutto – non c’era correlazione col ceto sociale. Fatta la distinzione tra i
bravi, i normali (una ventina), e gli scarsi, la distribuzione per livello di
redditi serpeggiava irregolarmente nei tre settori. Internamente al sistema non
c’era traccia di privilegi per i più agiati. In pratica la sola distinzione
sociale che si sarebbe potuta fare era tra piccoli borghesi (forse due terzi) e
medi borghesi (gli altri); ma nelle ore di scuola non contava. È curioso che
nel prodotto finale, a giudicare dai casi che conosco, anche questa distinzione
è stata cancellata. Tolti pochi rejects (2), oggi abbiamo un pastone di medi
borghesi con due o tre gnocchi di borghesi medio-alti. Forse era questa la vera
funzione del ginnasio-liceo: ma si può domandarsi se occorreva star lì otto o
dieci anni a non imparare niente per arrivarci.
C’erano quell’anno due “prime”, e
se la A era come la B (e lo era), è chiaro che la trasmissione di cultura
riflessa che ebbe luogo a Vicenza in quella generazione scolastica investì le
teste di non più di una decina di allievi, comprese forse un paio di ragazze.
Anche tenendo conto delle altre scuole “medie” di più bassa levatura (3), e dei
pochi istituti “pareggiati” o vagamente pareggiabili in provincia, resta che in
quell’anno l’insegnamento medio fu impartito in teoria a circa un decimo della gioventù vicentina di leva: ma
(se tanto mi dà tanto) in realtà
forse a un ragazzo su sessanta, più probabilmente a uno su cento. Non c’è che
dire: il lenzuolo unitario destinato a rivestire la Mente degli Italiani era
grande come il fazzoletto di una bambola.
Di questo stato di cose S. (4) non
avvertì mai l’assurdità. Era parte dello statuto della cultura che essa venisse
esposta come la Sindone, non trattata come un servizio pubblico. La cultura
vive, splende e minaccia per conto suo: in senso stretto non c’entra con la
gente. La cultura è come la Peste, salvo che è molto più ristretta: è fatta
solo per gli appestati, gli altri non contano. Come la Grazia, che non ha una
dimensione sociale.
In pratica ciò con cui si veniva
a contatto non era però la cultura riflessa in generale, ma una sua particolare
derivazione specifica, la cultura scolastica. Essa formava un sistema coerente,
artificiato, e indiscusso. Aveva come ho detto i suoi numeri magici, e inoltre
le sue posture canoniche, i suoi riti, inquisitorii o giudiziari, i suoi skills
(5) specializzati: per esempio quello per destreggiarsi tra i due colori
dell’errore, il blu e il rosso, erogati da matite a sezione poligonale. Con la
cultura scolastica urbana, infatti, s’entrava nel mondo dello sbaglio. In paese
non c’erano sbagli seri, se non in quanto scrivere è sempre mettersi a risico
di sbagliare; ma si trattava in generale di sbagli meccanici, di ortografia.
Qui lo sbaglio era il centro stesso del sistema. Imparare il latino era un
metodo per venire a patti con gli sbagli: questi erano sentiti come cose
intrinseche alla natura del latino, e si finiva col credere che esistesse una
specie di teologia del rosso (veniale) e del blu (mortale).
Alcuni skills, raffinatissimi,
erano forme di difesa sviluppate dalle vittime “normali” del sistema: come
nelle traduzioni dal latino. Era un esercizio a modo suo rigoroso: si trattava
di cucire insieme le formule d’un repertorio, con l’impegno che l’insieme non
volesse mai dire qualcosa di comprensibile, altrimenti addio, cascava tutto.
Pertinaci rapporti di Labieno (6) con gli accampamenti, dei legati coi ponti!
Genuina bravura stilistica che riusciva a comporre pagine intere, plausibili in
ogni loro membretto stereotipo, ma senza un solo paragrafo a cui si potesse
imputare un senso. Scrivere una pagina così con parole inesistenti, come Lewis
Carroll (7), è un gioco: ma scriverla con parole ordinarie, lì è vero impegno!
S. arrivò un giorno, nei dintorni
di Vicenza, in uno straordinario paesetto abbandonato. Era circondato da alte
mura, che sorgevano imponenti e incongrue in mezzo alla campagna, e dentro era
come un giardino fiorito: vialetti tra aiuole di rose, fontanelle, atri di
palazzi deserti. In passato era stato un asilo per papi e scrittori. Ora
c’erano ambienti vuoti, attrezzi rustici, lampade affumicanti. Mah, tutto
passa… S. s’aggirò nervosamente in quel luogo aggraziato e triste, le piccole
piazze deserte, piene di rose, il muschio nei sottoportici; e ne fece poi una
descrizione dettagliata.
La cultura riflessa, invitandolo,
lo aveva perfidamente tradito. Quel paese non c’è. La poesiola dove l’aveva
trovato riguardava una villa, non un
paese; una villa antica, ora deserta e ridotta a ripostiglio.
Cricoli, di fontane e di roseti
bello un dì, sulla fertile pianura
superbe ancor torreggiano le mura,
di pontefici asilo e di poeti:
ma gli atri occupa l’erba… (8)
Ora è chiaro che ciò che aveva
fatto il guasto è quel “bello” maschile: a chi può venire in mente di dire che
una villa è bello?
Ad ogni modo, questa villa era
stata di un conte locale, illustre campione della cultura urbana, e tuttavia,
ora lo sappiamo, assassinato da essa; mentre un muratore che lavorava proprio
lì da lui, in villa, forse preso un po’ in giro per il suo soprannome così poco
nostrano (“ciò, pa-làdio!”), era poi
diventato la dimostrazione vivente di come un vicentino, anche di adozione, può
sedersi a cavallo della cultura urbana e farla trottare.
S. scrisse per traverso sopra il
suo componimento in maiuscole CRICOLI NON È UN PAESE, come parte di un
esercizio per trattenere le lagrime. Questo tipo di cosa gli successe poi
spesso. Si slanciava troppo.
Anche l’autore della poesia (9),
strabico e prete, era un personaggio locale, veniva addirittura da Chiampo, da
dove è poco meno che assiomatico che può venire solo roba molto paesana. Anche
lui si era fatta una villa, non lontano da quella del conte, e ne parlava in
un’altra poesia, ma almeno qui diceva chiaramente che cos’era: “Una villetta
fabbricai, che appena / quindici metri si dilata in fronte, / ricca, più che di
suol, d’aria serena / e di largo, poetico orizzonte” (10). E fu proprio lì che
S. provò per la prima volta lo shock di vedere la nostra parte del mondo
rispecchiata in un giro di parole auliche: perché era chiaro che si trattava
della corona dei nostri monti domestici: “Quinci dell’Alpe la nevosa schiena /
che vien di monte digradando in monte…”. È la legge del quinci, che fa Alpe di
Noègno Sumàn e Mución (11) e li trasforma in “largo poetico orizzonte”. Sul
frontoncino del sonetto e della casa c’era anche un po’ di latino, Datur hora quieti, che vuol dire “possa
qui ber l’oblio”.
Insomma c’era tutto: l’origine
paesana, i rapporti con la città, lo sfondo delle montagne, perfino i libri di
studio: per il nostro secondo battesimo non si sarebbe potuto trovare un
personaggio più adatto di questo prete. Aveva una libreria di ciliegio la quale
parlava, e diceva: “Ero ciliegio: cento volte e cento / i miei rubini maturai”.
Quei rubini erano senza alcun dubbio le ciliegie, che però qui non volevano
saperne di mettersi a scintillare come pietre preziose. Strano, perché
effettivamente nella vita le ciliegie usate come orecchini sono gioielli!
Considerato come un modo di
scrivere il modo di scrivere dello Zanella è un vero disastro: non è roba che
si possa utilmente adoperare. Ma considerato invece come esempio di un sostrato
culturale, per darci familiarità con una certa fase dei rapporti degli italiani
col mondo, cioè della lingua letteraria degli italiani col mondo, mi pare che
quel suo modo di scrivere (che poi non era precipuamente suo, ma che anche lui padroneggiava) abbia avuto un ruolo importante
nel costituire le nostre teste.
Non so se gli insegnanti lo
sapessero, ma il vero centro dell’educazione che ci era impartita stava proprio
lì, nel farci imparare per vie intuitive, a orecchio, l’astrusa lingua della
“poesia”.
Ci educavano com’è giusto in
queste cose, per gli orecchi e per gli occhi, e insomma arrivando direttamente
ai centri intuitivi. Il black box (12) beveva l’Astichello, la mente si nutriva
di quell’acqua magra, si metteva a fruttare. Peccato che ciò che s’imparava
nella fattispecie fosse di così scarsa rilevanza intrinseca ai fini delle
successive avventure linguistiche e intellettuali del secolo: peccato, perché
lo s’imparava bene, come per un dono del dio delle lingue, quasi in un processo
biologico per il quale sembravamo nati.
Era la lingua aulica della
tradizione, nella sua versione ottocentesca: quella di creommi, appo le siepi,
mi rimembra, cotanta speme, sarammi allato, risovverrammi (13); che in quanto
lingua dell’ottocento italiano esponeva il suo limitato repertorio, ma in
quanto lingua aulica era imparentata con ogni altra lingua aulica reale o
possibile, e aveva insopprimibili tratti di famiglia. S. si trovò qualche volta
da adulto a spiegare qualche passo di Milton a inglesi tanto più esperti di lui
che non lo capivano: e sempre in base a ciò che aveva appreso a dieci anni
sulle rive dell’Astichello.
Si era incominciato con un
dettato. Primo giorno di scuola, prima ora al ginnasio, prima poesiola
percepita come un “sonetto”. Raccontava una baruffa tra un falco e un gallo, e
il professore ci aveva messo un titolo, “Il falco e il cane”. Così lo enunciò
per errore nel dettarlo, ma S. non voleva convincersi che il titolo non fosse
proprio quello, come se dietro agli antagonisti della scenetta (un po’ in
ghingheri ma veri, non i soliti animali parlanti) ci fosse un cane
protagonista, che dominava la scena senza far nulla.
Ogni sonetto aveva i suoi piccoli
lampi. Quando viene un acquazzone, dalla terra bagnata esala una fragranza di
polvere spenta. Quell’odore aspro e leggero, che fa vibrare corde segrete, era
lì, vivo in una formula, spenta polve, e soverchiava l’altro senso (piuttosto
rattristante) di pioggia col sole, di animali bagnati… (14)
La patria dell’aulico onesto ci
accoglieva; i nostri compatrioti erano suore, che andavano a spasso per l’etra,
ed erano nuvole; buoi che si stravaccavano sul declive del fiume orlo fiorente,
e la civetta che svolazzava, insidiando dei non piumati rondinini al nido (15).
Questi rondinini erano cugini dei passerotti sulla neve dei nostri mini-compiti
delle elementari.
Certo, è una sfortuna che testi
che entravano così vivamente a far parte di noi non fossero un po’ più
importanti: temperata dal fatto che almeno non ci hanno insegnato solo un grumo
di sogni!
Nello Zanella un po’ di cose c’erano.
In generale non si era nutriti di cose, ma di parole sulle cose. Ci veniva
trasmesso un sistema di parole, con una sua sintassi, una sua struttura di
armonie, una sua capacità di commuovere. Non interessava farci entrare in una
filanda. Non è affare della cultura sapere com’è una filanda; ed era già
qualcosa che quel prete osservasse le filandiere che ne sortivano, e si fosse
accorto del colore che avevano sul viso: molto simile a quello dei bachi da
seta.
S. sentiva ancora abbastanza
forte il richiamo delle cose, ma a mano a mano che si addentrava nel territorio
degli studi, le cose di cui faceva esperienza gli venivano fornite dai testi
stessi che leggeva, erano cose-parole, non cose-cose. Ogni volta che provò a
uscire tra le cose-cose, con emozionanti atti di volontà, come nei romanzi il
giovanotto che in un determinato momento si risolve a prendere la mano della
signora al suo fianco, restò male.
[…]
Qual era veramente il ruolo
dell’uomo che fu professore di S. per tre anni al ginnasietto? Baby-sitter
intellettuale? Zia putativa con la barba (a due cuspidi, castana)? Forse
l’immagine più soddisfacente è quella del pastore. Li pasturava, e loro
facevano bèee bèee in italiano e in latino. Alec,
alopex… «E queste» disse «sono parole che poi nella vita non troverete mai
più.» Naturalmente S. si mise da allora ad aspettarle, col fanatismo con cui
faceva le cose inutili; che del resto trattate così si caricano di un loro
assurdo significato. Alec venne alcuni decenni dopo in Inghilterra. Salsa di
pesce (16).
Insegnava senza solennità, senza
formalità e senza retorica. Non aveva l’aria di far lezione, teneva lì i
ragazzi a brucare i latinetti, a leggere pezzi nei libri di testo, a recitare
poesie o parafrasarle per iscritto. Correggeva i compiti di latino come uno che
cerca di abituarti alle buone maniere: senza alcuna tentazione di contraddire
le usanze correnti, ma anche senza alcun entusiasmo didattico. Pareva piuttosto
inteso a smorzare che ad accendere. Di questo S. gli restò grato per sempre.
Non ci sarebbe mancato altro che qualcuno che volesse accenderlo.
Si chiamava Giulio Fasolo;
piuttosto basso e tozzo di statura, posato, e con un riflesso di bonario
divertimento negli occhi. Dava del tu ai ragazzi, così si usava allora al
ginnasietto: il lei veniva in quarta, ma a quella particolare generazione,
console Starace (17), lo ritolsero quasi subito; in quinta mi pare.
Era stato il centromediano della
squadra di calcio cittadina molti anni prima della guerra, ed era un cultore
serio di storia dell’arte locale. Ha lasciato un libretto sulle ville vicentine
che conta ancora qualcosa: ne ha lasciato letteralmente una copia a S.,
rilegata in verde scuro. Era piccolo per il ruolo di centrale, in seguito
tenuto a Vicenza da calciatori di eccelsa classe, e assai più alti.
Distrusse, senza programmi, col
solo influsso della sua bonomia l’intera parte mitica dell’idea di cultura
urbana che s’era annidata nella testa di S. Gli fece sentire che Vicenza,
culturalmente, non era un centro urbano nel senso che credeva lui. Era in
questo una guida alla verità dei fatti in un senso in cui il più noto e attivo
Interprete di cultura che abbiamo poi avuto in Italia, non lo è e non lo sarà
mai. Fasolo era in grado di funzionare così proprio perché esisteva fuori
dell’ambito scolastico: lui che appariva così quintessenzialmente “professore”
(del tipo avuncolare) nell’aspetto, non era invece un professore, ma un uomo.
Cosa che a nessuno potrebbe mai venire in mente di dire a proposito di quel
grande Interprete: ho sentito dire che è molto sveglio, ed è vero; che è
simpatico, e questa a me non la danno da bere; che è robusto nella sua
rozzezza; ma non mai, e non è possibile, che è un uomo!
Era un’umanità di stampo molto
vicentino. Anche la roba greca del museo pareva vicentina quando se ne occupava
lui. C’era un torso di ragazzo, prassitelico (18) ma non so quanto, di cui
s’era accorto lui, credo; e se S. vide
mai, cioè proprio con gli occhi, com’è la faccenda della texture (19) delle
statue greche di quel secolo, il segno, come diavolo si chiamerà?, lo vide
allora.
Mancava a Fasolo la capacità
creativa o almeno l’improntitudine che deve alimentarla. Una volta gli venne
una piccola tentazione. C’era Piva che alzava continuamente la mano, ogni ora.
«O caro Piva dalle suste molli…» (20) disse, e fece una rima baciata con un
dottore in olli che a quel tempo curava le suste a Vicenza. Era evidente che
provava un po’ di imbarazzo, ma insieme sembrava lusingato che gli fosse venuta
abbastanza bene.
In pratica S. venne a contatto
attraverso di lui con la main stream della cultura vicentina, elaborata
nell’ottocento dai tirapiedi dei Lampertico, ecc., ma ora assimilata da una
piccola borghesia indipendente di modeste pretese, conservatrice ma scettica
intorno a molte più cose che non si creda… l’ambiente culturale che ha poi
prodotto buona parte dei nostri poligrafi.
Nei rapporti con S. il professor
Fasolo mostrava un riconoscibile tocco di riserbo, certamente di carattere
intellettuale. Era come si intravvedesse là dentro, ancora in pupa, un
pericoloso adulto: a cui pareva disposto ad augurare buona fortuna, ma con
quale non voleva aver niente a che fare. Mi accorgo scrivendo che altri
insegnanti bravi non ingenui si comportarono poi in questo modo con S. C’era in
lui, come scolaro, qualcosa che la gente non si azzardava a toccare. Penso che
in una cultura seria la presenza di roba impupata nei ragazzi non dovrebbe
apparire pericolosa. E che questa cultura seria non esiste.
Ci dettava le poesie, segno che
se le sceglieva lui. Dettando Te redimito…
nel punto dove dice facesti nome uno
Italia (21) si fermò e disse: «Questi sono versi molto brutti: certe volte
il Carducci scrive da cane». Ripensandoci da adulto S. si scaldava. Ma guarda:
pretendiamo di presentarci come vittime di una sorta di plagio, e vien fuori
che parlavano così!
Certo a volte ci pare di essere
stati immersi a scuola in un gran bagno di agiografia (22) letteraria, tanto
più soffocante per essere sottintesa: cioè non occorreva farla, la si dava per
fatta. Ma allora, quello che disse lo spregiato Tapanez sulla prosa di E. De
Coster? Quei commenti secchi, in dialetto signorile, sulle coloriture, sulla
trascrizione lessicale e sintattica delle luci del tramonto in una selva,
giustamente sentita come fanatica? Quel pudore di lettore, non di professore,
con cui ci venne a riparlare di un Teutobochus (23) sopra il quale Anatole
France (24) non aveva osato spiccare il salto (nel Livre de mon Ami: era un salto di trenta piedi) e che lui non aveva
identificato bene alla prima lettura in classe? E allora, di cosa ci
lamentiamo? Non praticavano lettere umaniori quei nostri vecchi? Non ci hanno
insegnato tutto ciò che si poteva?
In generale si può dire che a S.
venne a mancare quasi del tutto l’esperienza dell’odio per gli insegnanti,
senza della quale forse uno non può essere un uomo completo. Non bisogna
pensare però che in chi lo aveva, quell’odio fosse l’espressione di un rapporto
tra oppressi e oppressori: anzi di uno stato d’indipendenza, con perfetta
parità in fatto di potenziale persecutorio. Nella terribile faida tra Gigi il
Ghiro (come si firmava) e l’ometto che insegnava francese, non è facile dire
quale dei due si deva commemorare come la vittima principale. Gigi, che poi
diventò un giornalista famoso, era già giornalista a scuola. Scriveva su Enea,
non le solite scipitaggini sulla malinconia di avere un destino, anzi con
l’aria di un inviato speciale al seguito di quella casinistica crociera:
descriveva il cappello da lupo di mare del capitano al timone, le sue spalle
curve sotto gli scrosci; intervistava Acate, Palinuro… C’era un sottinteso in
quelle corrispondenze. Gigi contestava qualcosa,
come continuò poi a fare, ma cos’era di preciso? Forse l’esistenza e l’idea
stessa di una società scolastica che non mettesse al primo posto il
giornalismo, tutto il resto gli pareva pedanteria, malignità; e detestava
l’ometto di francese che pretendeva invece di insegnare il francese.
Credo sia stato Gigi a dargli
quel nome più duraturo del bronzo, Tapanez (per irridere alla vocetta nasale,
metallizzata), che si abbreviava in TZ, una sorta di marchio d’infamia che
invase le lavagne, i banchi, i muri, la vita stessa dell’uomo.
S. assisteva perplesso. Aveva
anche lui un suo oscuro compito non canonico su Enea, ma non gli pareva
possibile nonché scriverlo in classe, neanche metterlo in parole. La pioggia
improvvisa, la corsa alla grotta, la donna tutta bagnata che sorride, Enea che
la guarda impensierito, umido, gentile (25). E tutto a un tratto le mostra la
tega (26)! La grande tega troiana!
Quanto a Tapanez, certo parlava
nel naso. Era piccolino, nervoso, arcigno, introverso, stridulo. Ma era
tagliente quella vocetta; stringata la figuretta; e (ora lo so) onesta la sua
concezione del proprio mestiere. E quella petulante, quasi pettegola, devozione
alla morfologia e alla fraseologia forse immaginaria del francese era seria!
Veniva a scuola in bicicletta,
una bicicletta col manubrio sportivo (non quello “da corsa”, l’altro, quello
dritto), ben curata in un suo modo bizzarro, sostanzialmente umanistico, e con
la meraviglia d’un gigantesco, luccicante, futuristico freno a contropedale.
Aveva un temperamento litigioso, in seguito ho pensato più volte a lui
studiando Francesco Filelfo (27). Era un asceta dell’insegnamento medio
inferiore, e insieme una zitella, e insieme un dandy. C’era anche una vena
istrionica, faceva palco, per natura credo: che è come dire che non lo faceva.
In certi momenti pareva il più meschino dei pedanti, prigioniero delle sue
formulette, della sua stessa dedizione a ciò che considerava il lessico e la
grammatica delle lingue neolatine. Ma all’occasione era capace di slanciarsi, e
una volta accettò perfino j’ai été malé (28) (prima frase francese utilizzata
da S. ai fini pratici; era stato veramente malé) senza scomporsi, anzi con
segni di affettuoso interessamento.
A les, un giorno S. forse per
effetto di quello stesso stato patologico, gli scrisse perfino à les: e lui non
ci diede alcun peso, lo trattò per quello che era, uno degli abitatori delle
zone oscure della sotto-coscienza che risalgono a sbeffeggiarci quando la
ragione cade in preda al sonno. Fu per S. un’esperienza interessante.
Intravvide qualcosa della condizione in cui deve essere abituata a vivere la
gente sgrammaticata; e ne portò un rossore interno, probabilmente malposto e
diseducativo, ma forse connesso con una fibra morale che quel mondo ridicolo
doveva pur avere. S. fu sempre ipnotizzato dall’idea di liberarsi un giorno dai
rossori di tipo morfologico, ma forse (come diceva Oriani) è solo questione di
arrossire più in alto.
Il francese si studiava nello
stesso modo del latino, con le regolette, le eccezioni, ecc. Ma qui al piacere
di generare di slancio il condizionale di désirer col suo assurdo rèrè finale (nevicava, S. arrivò in
ritardo, la classe non sapeva o non osava arrischiarsi; e lui con le guance
accese, un po’ di neve sulle soprascarpe, si mise a fare rèrè! come un arcangeletto), a questo innocente piacere si
sposarono quasi subito gli altri, della lettura o perfino della composizione in
proprio.
Viaggiando in corriera, che si
chiamava allora il postale, S. più volte si abbandonò a una sorta di poetare
indistinto. Chi gli aveva messo in testa che è naturale poetare? La domestica
cresta dei colli di Monteviale venne a iscriversi un pomeriggio sul margine di
un libro in forma di frase francese ora estinta; S. aggiunse a mo’ di data
l’indicazione leggibile “avec le postal neuf”. Sentiva come maccheronico, e
tuttavia oscuramente lirico, sia il dialetto sottostante a postal, sia l’italiano che c’è dentro a quell’avec, e ne gioiva. Tutto diventa maccheronico nel confronto col
francese. Percepiva la differenza tra neuf
e nouveau con una vividezza non
fondata sulla realtà, esattamente come in vif
e vivant, o in quel piccolo
capolavoro fraseologico, “la bouche
béante” usato come un ablativo assoluto, che i francesi dicono oggi che non
esiste. Peggio per loro!
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(1) Il proclama di Salemi è una solenne dichiarazione fatta da Garibaldi nel 1860 durante la spedizione dei Mille, con la quale dichiarava di assumere la dittatura della Sicilia in nome di Vittorio Emanuele II; qui l’episodio è usato per indicare lo studio della storia, come i termini precedenti indicano la grammatica, la matematica e la geografia.
(2) Rejects = emarginati, reietti.
(3) All’epoca il ginnasio-liceo era considerato la più formativa delle scuole post-elementari; modificato nel 1923 con la riforma Gentile, aveva un’impostazione tipicamente umanistico-classicista, privilegiando la letteratura, la storia e la filosofia; oggi corrisponderebbe ai 3 anni della scuola secondaria di primo grado e al liceo classico. Le altre scuole esistenti, compreso il liceo scientifico, erano considerate meno formative e impegnative.
(4) Si deve intendere la sigla S. come l’autore stesso.
(5) Skills = abilità, oggi sarebbe di moda dire “competenze”.
(6) Tito Labieno, comandante di Giulio Cesare in Gallia, le cui imprese sono raccontate nel De bello Gallico.
(7) L’autore di Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie.
(8) Cricoli è la località vicentina, dove sorge la villa Trissino, appartenuta all’umanista Giangiorgio Trissino e tradizionalmente legata all’architetto Palladio (citato ironicamente qualche riga più avanti), il quale proprio qui avrebbe manifestato il suo talento che il Trissino si curò di far maturare. I versi riportati nel testo sono di Giacomo Zanella e si leggono ancora all’ingresso della villa.
(9) Giacomo Zanella, poeta vicentino (1820-1888), molto conosciuto un tempo (come si evince anche da questo testo di Meneghello), oggi poco conosciuto.
(10) Versi tratti da uno dei sonetti della raccolta intitolata Astichello, il fiume di cui Meneghello parla anche più avanti.
(11) Si tratta di località prossime a Malo, il comune in cui nacque Meneghello.
(12) Black box = scatola nera; qui impiegato dall’autore in senso ironico per “cervello”.
(13) Creommi, appo le siepi, mi rimembra, cotanta speme, sarammi allato, risovverrammi = sono tutte espressioni presenti nella poesia Le ricordanze di Giacomo Leopardi.
(14) Meneghello fa riferimento qui al sonetto dello Zanella intitolato Il suo stridor sospeso ha la cicala.
(15) Il riferimento è sempre ad altre poesie dello Zanella.
(16) Ovviamente Alec in inglese è diminutivo di Alexander, non salsa di pesce come in latino.
(17) Achille Starace (1889-1945), politico fascista, noto per alcune ridicole riforme, tra cui la sostituzione del lei con il voi, in quanto nell’antica Roma ci si dava del tu e del voi (per segnalare un gerarchico rispetto). Meneghello lo definisce (con sfumatura ironica) console, in quanto ufficiale della Milizia fascista.
(18) Prassitelico = vicino ai modi del famoso Prassitele, scultore del IV secolo a.C.
(19) Texture = trama, composizione; o segno, come aggiunge poco dopo Meneghello.
(20) In dialetto veneto “avere le suste molli” si dice di chi soffre di problemi di incontinenza o deve andare spesso in bagno.
(21) Il verso è tratto da L’annuale della fondazione di Roma.
(22) Agiografia = esaltazione di una personalità.
(23) Teutobochus = leggendario gigante, le cui presunte ossa vennero rinvenute nel XVII secolo (naturalmente si trattava di un falso).
(24) Anatole France (1844-1924), un tempo celebre scrittore francese, insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1921, oggi assai poco conosciuto.
(25) Il riferimento è all’episodio, raccontato nel libro IV dell’Eneide, in cui Enea e Didone, sorpresi dal temporale, si rifugiano in una grotta e si uniscono in un amplesso; ma il ragazzetto Meneghello trasforma la scena poetica in un volgare-divertito gesto del protagonista.
(26) Tega = in dialetto veneto è l’organo sessuale maschile.
(27) Francesco Filelfo (1398-1481), umanista italiano che ebbe fama di iniziare facilmente accese dispute contro i suoi avversari.
(28) J’ai été malé è francese maccheronico per dire “sono stato ammalato”; così come poco dopo è scorretto à les.
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(1) Il proclama di Salemi è una solenne dichiarazione fatta da Garibaldi nel 1860 durante la spedizione dei Mille, con la quale dichiarava di assumere la dittatura della Sicilia in nome di Vittorio Emanuele II; qui l’episodio è usato per indicare lo studio della storia, come i termini precedenti indicano la grammatica, la matematica e la geografia.
(2) Rejects = emarginati, reietti.
(3) All’epoca il ginnasio-liceo era considerato la più formativa delle scuole post-elementari; modificato nel 1923 con la riforma Gentile, aveva un’impostazione tipicamente umanistico-classicista, privilegiando la letteratura, la storia e la filosofia; oggi corrisponderebbe ai 3 anni della scuola secondaria di primo grado e al liceo classico. Le altre scuole esistenti, compreso il liceo scientifico, erano considerate meno formative e impegnative.
(4) Si deve intendere la sigla S. come l’autore stesso.
(5) Skills = abilità, oggi sarebbe di moda dire “competenze”.
(6) Tito Labieno, comandante di Giulio Cesare in Gallia, le cui imprese sono raccontate nel De bello Gallico.
(7) L’autore di Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie.
(8) Cricoli è la località vicentina, dove sorge la villa Trissino, appartenuta all’umanista Giangiorgio Trissino e tradizionalmente legata all’architetto Palladio (citato ironicamente qualche riga più avanti), il quale proprio qui avrebbe manifestato il suo talento che il Trissino si curò di far maturare. I versi riportati nel testo sono di Giacomo Zanella e si leggono ancora all’ingresso della villa.
(9) Giacomo Zanella, poeta vicentino (1820-1888), molto conosciuto un tempo (come si evince anche da questo testo di Meneghello), oggi poco conosciuto.
(10) Versi tratti da uno dei sonetti della raccolta intitolata Astichello, il fiume di cui Meneghello parla anche più avanti.
(11) Si tratta di località prossime a Malo, il comune in cui nacque Meneghello.
(12) Black box = scatola nera; qui impiegato dall’autore in senso ironico per “cervello”.
(13) Creommi, appo le siepi, mi rimembra, cotanta speme, sarammi allato, risovverrammi = sono tutte espressioni presenti nella poesia Le ricordanze di Giacomo Leopardi.
(14) Meneghello fa riferimento qui al sonetto dello Zanella intitolato Il suo stridor sospeso ha la cicala.
(15) Il riferimento è sempre ad altre poesie dello Zanella.
(16) Ovviamente Alec in inglese è diminutivo di Alexander, non salsa di pesce come in latino.
(17) Achille Starace (1889-1945), politico fascista, noto per alcune ridicole riforme, tra cui la sostituzione del lei con il voi, in quanto nell’antica Roma ci si dava del tu e del voi (per segnalare un gerarchico rispetto). Meneghello lo definisce (con sfumatura ironica) console, in quanto ufficiale della Milizia fascista.
(18) Prassitelico = vicino ai modi del famoso Prassitele, scultore del IV secolo a.C.
(19) Texture = trama, composizione; o segno, come aggiunge poco dopo Meneghello.
(20) In dialetto veneto “avere le suste molli” si dice di chi soffre di problemi di incontinenza o deve andare spesso in bagno.
(21) Il verso è tratto da L’annuale della fondazione di Roma.
(22) Agiografia = esaltazione di una personalità.
(23) Teutobochus = leggendario gigante, le cui presunte ossa vennero rinvenute nel XVII secolo (naturalmente si trattava di un falso).
(24) Anatole France (1844-1924), un tempo celebre scrittore francese, insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1921, oggi assai poco conosciuto.
(25) Il riferimento è all’episodio, raccontato nel libro IV dell’Eneide, in cui Enea e Didone, sorpresi dal temporale, si rifugiano in una grotta e si uniscono in un amplesso; ma il ragazzetto Meneghello trasforma la scena poetica in un volgare-divertito gesto del protagonista.
(26) Tega = in dialetto veneto è l’organo sessuale maschile.
(27) Francesco Filelfo (1398-1481), umanista italiano che ebbe fama di iniziare facilmente accese dispute contro i suoi avversari.
(28) J’ai été malé è francese maccheronico per dire “sono stato ammalato”; così come poco dopo è scorretto à les.
Villa Trissino a Cricoli (Vicenza)
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