giovedì 12 ottobre 2017

117 Studenti e insegnanti nel ventennio fascista (di Luigi Meneghello)




Trovi qui una parte del capitolo 2 di “Fiori italiani”, il romanzo del 1976 di Luigi Meneghello: in queste pagine l’autore racconta di ciò che si insegnava e si imparava al ginnasietto, la scuola che sfociava poi nel liceo classico e che, negli anni Trenta del secolo scorso, era il corrispondente dell’attuale Scuola media (o Scuola secondaria di primo grado). Le annotazione di Meneghello sui compagni, sugli insegnanti, sulle poesie di Giacomo Zanella o di Giosuè Carducci che gli venivano somministrate, sono cariche dell’ironia e del ricorso a un linguaggio quanto meno aulico possibile, che sono caratteristici di questo scrittore.

Di una trentina di ragazzetti in quella prima B ce n’era cinque o sei che imparavano qualcosa (non importa ora quanto bene o male, e che cosa), gli altri no. I loro rapporti con la morfologia delle lingue, coi numeri, con l’orografia e l’idrografia, col proclama di Salemi (1), non miglioravano e non peggioravano. Ciò che dovevano leggere o ascoltare passava sulla loro pelle come acqua; uscendo di scuola se la sgocciolavano di dosso. Per lo più si sottoponevano senza proteste a quegli esercizi penitenziali perché così gli era imposto. Sapevano che sarebbe andata avanti in quel modo per un bel pezzo. La vita è dura. L’idea che sotto ci fosse qualcosa da apprendere, magari per poterlo detestare meglio, non li sfiorava.
Dominava la convenzione che gli esseri umani ancora in erba appartengono già a delle categorie naturali, classificabili su una scala numerica. Alle elementari i voti si esprimevano in parole, sufficiente buono lodevole, che non sembrano giudizi ma incoraggiamenti, cose per bambini piccoli. Qui esisteva il “quattro più per incoraggiamento”, a sfondo derisorio: il resto era un lucido sistema di numeri, che rispecchiava la qualità dell’uomo.
In questo – a parte il dettaglio che i figli degli operai e dei contadini non entravano in gara perché mancavano del tutto – non c’era correlazione col ceto sociale. Fatta la distinzione tra i bravi, i normali (una ventina), e gli scarsi, la distribuzione per livello di redditi serpeggiava irregolarmente nei tre settori. Internamente al sistema non c’era traccia di privilegi per i più agiati. In pratica la sola distinzione sociale che si sarebbe potuta fare era tra piccoli borghesi (forse due terzi) e medi borghesi (gli altri); ma nelle ore di scuola non contava. È curioso che nel prodotto finale, a giudicare dai casi che conosco, anche questa distinzione è stata cancellata. Tolti pochi rejects (2), oggi abbiamo un pastone di medi borghesi con due o tre gnocchi di borghesi medio-alti. Forse era questa la vera funzione del ginnasio-liceo: ma si può domandarsi se occorreva star lì otto o dieci anni a non imparare niente per arrivarci.
C’erano quell’anno due “prime”, e se la A era come la B (e lo era), è chiaro che la trasmissione di cultura riflessa che ebbe luogo a Vicenza in quella generazione scolastica investì le teste di non più di una decina di allievi, comprese forse un paio di ragazze. Anche tenendo conto delle altre scuole “medie” di più bassa levatura (3), e dei pochi istituti “pareggiati” o vagamente pareggiabili in provincia, resta che in quell’anno l’insegnamento medio fu impartito in teoria a circa un decimo della gioventù vicentina di leva: ma (se tanto mi dà tanto) in realtà forse a un ragazzo su sessanta, più probabilmente a uno su cento. Non c’è che dire: il lenzuolo unitario destinato a rivestire la Mente degli Italiani era grande come il fazzoletto di una bambola.
Di questo stato di cose S. (4) non avvertì mai l’assurdità. Era parte dello statuto della cultura che essa venisse esposta come la Sindone, non trattata come un servizio pubblico. La cultura vive, splende e minaccia per conto suo: in senso stretto non c’entra con la gente. La cultura è come la Peste, salvo che è molto più ristretta: è fatta solo per gli appestati, gli altri non contano. Come la Grazia, che non ha una dimensione sociale.
In pratica ciò con cui si veniva a contatto non era però la cultura riflessa in generale, ma una sua particolare derivazione specifica, la cultura scolastica. Essa formava un sistema coerente, artificiato, e indiscusso. Aveva come ho detto i suoi numeri magici, e inoltre le sue posture canoniche, i suoi riti, inquisitorii o giudiziari, i suoi skills (5) specializzati: per esempio quello per destreggiarsi tra i due colori dell’errore, il blu e il rosso, erogati da matite a sezione poligonale. Con la cultura scolastica urbana, infatti, s’entrava nel mondo dello sbaglio. In paese non c’erano sbagli seri, se non in quanto scrivere è sempre mettersi a risico di sbagliare; ma si trattava in generale di sbagli meccanici, di ortografia. Qui lo sbaglio era il centro stesso del sistema. Imparare il latino era un metodo per venire a patti con gli sbagli: questi erano sentiti come cose intrinseche alla natura del latino, e si finiva col credere che esistesse una specie di teologia del rosso (veniale) e del blu (mortale).
Alcuni skills, raffinatissimi, erano forme di difesa sviluppate dalle vittime “normali” del sistema: come nelle traduzioni dal latino. Era un esercizio a modo suo rigoroso: si trattava di cucire insieme le formule d’un repertorio, con l’impegno che l’insieme non volesse mai dire qualcosa di comprensibile, altrimenti addio, cascava tutto. Pertinaci rapporti di Labieno (6) con gli accampamenti, dei legati coi ponti! Genuina bravura stilistica che riusciva a comporre pagine intere, plausibili in ogni loro membretto stereotipo, ma senza un solo paragrafo a cui si potesse imputare un senso. Scrivere una pagina così con parole inesistenti, come Lewis Carroll (7), è un gioco: ma scriverla con parole ordinarie, lì è vero impegno!

S. arrivò un giorno, nei dintorni di Vicenza, in uno straordinario paesetto abbandonato. Era circondato da alte mura, che sorgevano imponenti e incongrue in mezzo alla campagna, e dentro era come un giardino fiorito: vialetti tra aiuole di rose, fontanelle, atri di palazzi deserti. In passato era stato un asilo per papi e scrittori. Ora c’erano ambienti vuoti, attrezzi rustici, lampade affumicanti. Mah, tutto passa… S. s’aggirò nervosamente in quel luogo aggraziato e triste, le piccole piazze deserte, piene di rose, il muschio nei sottoportici; e ne fece poi una descrizione dettagliata.
La cultura riflessa, invitandolo, lo aveva perfidamente tradito. Quel paese non c’è. La poesiola dove l’aveva trovato riguardava una villa, non un paese; una villa antica, ora deserta e ridotta a ripostiglio.

     Cricoli, di fontane e di roseti
     bello un dì, sulla fertile pianura
     superbe ancor torreggiano le mura,
     di pontefici asilo e di poeti:

     ma gli atri occupa l’erba… (8)

Ora è chiaro che ciò che aveva fatto il guasto è quel “bello” maschile: a chi può venire in mente di dire che una villa è bello?
Ad ogni modo, questa villa era stata di un conte locale, illustre campione della cultura urbana, e tuttavia, ora lo sappiamo, assassinato da essa; mentre un muratore che lavorava proprio lì da lui, in villa, forse preso un po’ in giro per il suo soprannome così poco nostrano (“ciò, pa-làdio!”), era poi diventato la dimostrazione vivente di come un vicentino, anche di adozione, può sedersi a cavallo della cultura urbana e farla trottare.
S. scrisse per traverso sopra il suo componimento in maiuscole CRICOLI NON È UN PAESE, come parte di un esercizio per trattenere le lagrime. Questo tipo di cosa gli successe poi spesso. Si slanciava troppo.
Anche l’autore della poesia (9), strabico e prete, era un personaggio locale, veniva addirittura da Chiampo, da dove è poco meno che assiomatico che può venire solo roba molto paesana. Anche lui si era fatta una villa, non lontano da quella del conte, e ne parlava in un’altra poesia, ma almeno qui diceva chiaramente che cos’era: “Una villetta fabbricai, che appena / quindici metri si dilata in fronte, / ricca, più che di suol, d’aria serena / e di largo, poetico orizzonte” (10). E fu proprio lì che S. provò per la prima volta lo shock di vedere la nostra parte del mondo rispecchiata in un giro di parole auliche: perché era chiaro che si trattava della corona dei nostri monti domestici: “Quinci dell’Alpe la nevosa schiena / che vien di monte digradando in monte…”. È la legge del quinci, che fa Alpe di Noègno Sumàn e Mución (11) e li trasforma in “largo poetico orizzonte”. Sul frontoncino del sonetto e della casa c’era anche un po’ di latino, Datur hora quieti, che vuol dire “possa qui ber l’oblio”.
Insomma c’era tutto: l’origine paesana, i rapporti con la città, lo sfondo delle montagne, perfino i libri di studio: per il nostro secondo battesimo non si sarebbe potuto trovare un personaggio più adatto di questo prete. Aveva una libreria di ciliegio la quale parlava, e diceva: “Ero ciliegio: cento volte e cento / i miei rubini maturai”. Quei rubini erano senza alcun dubbio le ciliegie, che però qui non volevano saperne di mettersi a scintillare come pietre preziose. Strano, perché effettivamente nella vita le ciliegie usate come orecchini sono gioielli!
Considerato come un modo di scrivere il modo di scrivere dello Zanella è un vero disastro: non è roba che si possa utilmente adoperare. Ma considerato invece come esempio di un sostrato culturale, per darci familiarità con una certa fase dei rapporti degli italiani col mondo, cioè della lingua letteraria degli italiani col mondo, mi pare che quel suo modo di scrivere (che poi non era precipuamente suo, ma che anche lui padroneggiava) abbia avuto un ruolo importante nel costituire le nostre teste.
Non so se gli insegnanti lo sapessero, ma il vero centro dell’educazione che ci era impartita stava proprio lì, nel farci imparare per vie intuitive, a orecchio, l’astrusa lingua della “poesia”.
Ci educavano com’è giusto in queste cose, per gli orecchi e per gli occhi, e insomma arrivando direttamente ai centri intuitivi. Il black box (12) beveva l’Astichello, la mente si nutriva di quell’acqua magra, si metteva a fruttare. Peccato che ciò che s’imparava nella fattispecie fosse di così scarsa rilevanza intrinseca ai fini delle successive avventure linguistiche e intellettuali del secolo: peccato, perché lo s’imparava bene, come per un dono del dio delle lingue, quasi in un processo biologico per il quale sembravamo nati.
Era la lingua aulica della tradizione, nella sua versione ottocentesca: quella di creommi, appo le siepi, mi rimembra, cotanta speme, sarammi allato, risovverrammi (13); che in quanto lingua dell’ottocento italiano esponeva il suo limitato repertorio, ma in quanto lingua aulica era imparentata con ogni altra lingua aulica reale o possibile, e aveva insopprimibili tratti di famiglia. S. si trovò qualche volta da adulto a spiegare qualche passo di Milton a inglesi tanto più esperti di lui che non lo capivano: e sempre in base a ciò che aveva appreso a dieci anni sulle rive dell’Astichello.
Si era incominciato con un dettato. Primo giorno di scuola, prima ora al ginnasio, prima poesiola percepita come un “sonetto”. Raccontava una baruffa tra un falco e un gallo, e il professore ci aveva messo un titolo, “Il falco e il cane”. Così lo enunciò per errore nel dettarlo, ma S. non voleva convincersi che il titolo non fosse proprio quello, come se dietro agli antagonisti della scenetta (un po’ in ghingheri ma veri, non i soliti animali parlanti) ci fosse un cane protagonista, che dominava la scena senza far nulla.
Ogni sonetto aveva i suoi piccoli lampi. Quando viene un acquazzone, dalla terra bagnata esala una fragranza di polvere spenta. Quell’odore aspro e leggero, che fa vibrare corde segrete, era lì, vivo in una formula, spenta polve, e soverchiava l’altro senso (piuttosto rattristante) di pioggia col sole, di animali bagnati… (14)
La patria dell’aulico onesto ci accoglieva; i nostri compatrioti erano suore, che andavano a spasso per l’etra, ed erano nuvole; buoi che si stravaccavano sul declive del fiume orlo fiorente, e la civetta che svolazzava, insidiando dei non piumati rondinini al nido (15). Questi rondinini erano cugini dei passerotti sulla neve dei nostri mini-compiti delle elementari.
Certo, è una sfortuna che testi che entravano così vivamente a far parte di noi non fossero un po’ più importanti: temperata dal fatto che almeno non ci hanno insegnato solo un grumo di sogni!
Nello Zanella un po’ di cose c’erano. In generale non si era nutriti di cose, ma di parole sulle cose. Ci veniva trasmesso un sistema di parole, con una sua sintassi, una sua struttura di armonie, una sua capacità di commuovere. Non interessava farci entrare in una filanda. Non è affare della cultura sapere com’è una filanda; ed era già qualcosa che quel prete osservasse le filandiere che ne sortivano, e si fosse accorto del colore che avevano sul viso: molto simile a quello dei bachi da seta.
S. sentiva ancora abbastanza forte il richiamo delle cose, ma a mano a mano che si addentrava nel territorio degli studi, le cose di cui faceva esperienza gli venivano fornite dai testi stessi che leggeva, erano cose-parole, non cose-cose. Ogni volta che provò a uscire tra le cose-cose, con emozionanti atti di volontà, come nei romanzi il giovanotto che in un determinato momento si risolve a prendere la mano della signora al suo fianco, restò male.
[…]
Qual era veramente il ruolo dell’uomo che fu professore di S. per tre anni al ginnasietto? Baby-sitter intellettuale? Zia putativa con la barba (a due cuspidi, castana)? Forse l’immagine più soddisfacente è quella del pastore. Li pasturava, e loro facevano bèee bèee in italiano e in latino. Alec, alopex… «E queste» disse «sono parole che poi nella vita non troverete mai più.» Naturalmente S. si mise da allora ad aspettarle, col fanatismo con cui faceva le cose inutili; che del resto trattate così si caricano di un loro assurdo significato. Alec venne alcuni decenni dopo in Inghilterra. Salsa di pesce (16).
Insegnava senza solennità, senza formalità e senza retorica. Non aveva l’aria di far lezione, teneva lì i ragazzi a brucare i latinetti, a leggere pezzi nei libri di testo, a recitare poesie o parafrasarle per iscritto. Correggeva i compiti di latino come uno che cerca di abituarti alle buone maniere: senza alcuna tentazione di contraddire le usanze correnti, ma anche senza alcun entusiasmo didattico. Pareva piuttosto inteso a smorzare che ad accendere. Di questo S. gli restò grato per sempre. Non ci sarebbe mancato altro che qualcuno che volesse accenderlo.
Si chiamava Giulio Fasolo; piuttosto basso e tozzo di statura, posato, e con un riflesso di bonario divertimento negli occhi. Dava del tu ai ragazzi, così si usava allora al ginnasietto: il lei veniva in quarta, ma a quella particolare generazione, console Starace (17), lo ritolsero quasi subito; in quinta mi pare.
Era stato il centromediano della squadra di calcio cittadina molti anni prima della guerra, ed era un cultore serio di storia dell’arte locale. Ha lasciato un libretto sulle ville vicentine che conta ancora qualcosa: ne ha lasciato letteralmente una copia a S., rilegata in verde scuro. Era piccolo per il ruolo di centrale, in seguito tenuto a Vicenza da calciatori di eccelsa classe, e assai più alti.
Distrusse, senza programmi, col solo influsso della sua bonomia l’intera parte mitica dell’idea di cultura urbana che s’era annidata nella testa di S. Gli fece sentire che Vicenza, culturalmente, non era un centro urbano nel senso che credeva lui. Era in questo una guida alla verità dei fatti in un senso in cui il più noto e attivo Interprete di cultura che abbiamo poi avuto in Italia, non lo è e non lo sarà mai. Fasolo era in grado di funzionare così proprio perché esisteva fuori dell’ambito scolastico: lui che appariva così quintessenzialmente “professore” (del tipo avuncolare) nell’aspetto, non era invece un professore, ma un uomo. Cosa che a nessuno potrebbe mai venire in mente di dire a proposito di quel grande Interprete: ho sentito dire che è molto sveglio, ed è vero; che è simpatico, e questa a me non la danno da bere; che è robusto nella sua rozzezza; ma non mai, e non è possibile, che è un uomo!
Era un’umanità di stampo molto vicentino. Anche la roba greca del museo pareva vicentina quando se ne occupava lui. C’era un torso di ragazzo, prassitelico (18) ma non so quanto, di cui s’era accorto lui, credo; e se S. vide mai, cioè proprio con gli occhi, com’è la faccenda della texture (19) delle statue greche di quel secolo, il segno, come diavolo si chiamerà?, lo vide allora.
Mancava a Fasolo la capacità creativa o almeno l’improntitudine che deve alimentarla. Una volta gli venne una piccola tentazione. C’era Piva che alzava continuamente la mano, ogni ora. «O caro Piva dalle suste molli…» (20) disse, e fece una rima baciata con un dottore in olli che a quel tempo curava le suste a Vicenza. Era evidente che provava un po’ di imbarazzo, ma insieme sembrava lusingato che gli fosse venuta abbastanza bene.
In pratica S. venne a contatto attraverso di lui con la main stream della cultura vicentina, elaborata nell’ottocento dai tirapiedi dei Lampertico, ecc., ma ora assimilata da una piccola borghesia indipendente di modeste pretese, conservatrice ma scettica intorno a molte più cose che non si creda… l’ambiente culturale che ha poi prodotto buona parte dei nostri poligrafi.
Nei rapporti con S. il professor Fasolo mostrava un riconoscibile tocco di riserbo, certamente di carattere intellettuale. Era come si intravvedesse là dentro, ancora in pupa, un pericoloso adulto: a cui pareva disposto ad augurare buona fortuna, ma con quale non voleva aver niente a che fare. Mi accorgo scrivendo che altri insegnanti bravi non ingenui si comportarono poi in questo modo con S. C’era in lui, come scolaro, qualcosa che la gente non si azzardava a toccare. Penso che in una cultura seria la presenza di roba impupata nei ragazzi non dovrebbe apparire pericolosa. E che questa cultura seria non esiste.
Ci dettava le poesie, segno che se le sceglieva lui. Dettando Te redimito… nel punto dove dice facesti nome uno Italia (21) si fermò e disse: «Questi sono versi molto brutti: certe volte il Carducci scrive da cane». Ripensandoci da adulto S. si scaldava. Ma guarda: pretendiamo di presentarci come vittime di una sorta di plagio, e vien fuori che parlavano così!
Certo a volte ci pare di essere stati immersi a scuola in un gran bagno di agiografia (22) letteraria, tanto più soffocante per essere sottintesa: cioè non occorreva farla, la si dava per fatta. Ma allora, quello che disse lo spregiato Tapanez sulla prosa di E. De Coster? Quei commenti secchi, in dialetto signorile, sulle coloriture, sulla trascrizione lessicale e sintattica delle luci del tramonto in una selva, giustamente sentita come fanatica? Quel pudore di lettore, non di professore, con cui ci venne a riparlare di un Teutobochus (23) sopra il quale Anatole France (24) non aveva osato spiccare il salto (nel Livre de mon Ami: era un salto di trenta piedi) e che lui non aveva identificato bene alla prima lettura in classe? E allora, di cosa ci lamentiamo? Non praticavano lettere umaniori quei nostri vecchi? Non ci hanno insegnato tutto ciò che si poteva?

In generale si può dire che a S. venne a mancare quasi del tutto l’esperienza dell’odio per gli insegnanti, senza della quale forse uno non può essere un uomo completo. Non bisogna pensare però che in chi lo aveva, quell’odio fosse l’espressione di un rapporto tra oppressi e oppressori: anzi di uno stato d’indipendenza, con perfetta parità in fatto di potenziale persecutorio. Nella terribile faida tra Gigi il Ghiro (come si firmava) e l’ometto che insegnava francese, non è facile dire quale dei due si deva commemorare come la vittima principale. Gigi, che poi diventò un giornalista famoso, era già giornalista a scuola. Scriveva su Enea, non le solite scipitaggini sulla malinconia di avere un destino, anzi con l’aria di un inviato speciale al seguito di quella casinistica crociera: descriveva il cappello da lupo di mare del capitano al timone, le sue spalle curve sotto gli scrosci; intervistava Acate, Palinuro… C’era un sottinteso in quelle corrispondenze. Gigi contestava qualcosa, come continuò poi a fare, ma cos’era di preciso? Forse l’esistenza e l’idea stessa di una società scolastica che non mettesse al primo posto il giornalismo, tutto il resto gli pareva pedanteria, malignità; e detestava l’ometto di francese che pretendeva invece di insegnare il francese.
Credo sia stato Gigi a dargli quel nome più duraturo del bronzo, Tapanez (per irridere alla vocetta nasale, metallizzata), che si abbreviava in TZ, una sorta di marchio d’infamia che invase le lavagne, i banchi, i muri, la vita stessa dell’uomo.
S. assisteva perplesso. Aveva anche lui un suo oscuro compito non canonico su Enea, ma non gli pareva possibile nonché scriverlo in classe, neanche metterlo in parole. La pioggia improvvisa, la corsa alla grotta, la donna tutta bagnata che sorride, Enea che la guarda impensierito, umido, gentile (25). E tutto a un tratto le mostra la tega (26)! La grande tega troiana!
Quanto a Tapanez, certo parlava nel naso. Era piccolino, nervoso, arcigno, introverso, stridulo. Ma era tagliente quella vocetta; stringata la figuretta; e (ora lo so) onesta la sua concezione del proprio mestiere. E quella petulante, quasi pettegola, devozione alla morfologia e alla fraseologia forse immaginaria del francese era seria!
Veniva a scuola in bicicletta, una bicicletta col manubrio sportivo (non quello “da corsa”, l’altro, quello dritto), ben curata in un suo modo bizzarro, sostanzialmente umanistico, e con la meraviglia d’un gigantesco, luccicante, futuristico freno a contropedale. Aveva un temperamento litigioso, in seguito ho pensato più volte a lui studiando Francesco Filelfo (27). Era un asceta dell’insegnamento medio inferiore, e insieme una zitella, e insieme un dandy. C’era anche una vena istrionica, faceva palco, per natura credo: che è come dire che non lo faceva. In certi momenti pareva il più meschino dei pedanti, prigioniero delle sue formulette, della sua stessa dedizione a ciò che considerava il lessico e la grammatica delle lingue neolatine. Ma all’occasione era capace di slanciarsi, e una volta accettò perfino j’ai été malé (28) (prima frase francese utilizzata da S. ai fini pratici; era stato veramente malé) senza scomporsi, anzi con segni di affettuoso interessamento.
A les, un giorno S. forse per effetto di quello stesso stato patologico, gli scrisse perfino à les: e lui non ci diede alcun peso, lo trattò per quello che era, uno degli abitatori delle zone oscure della sotto-coscienza che risalgono a sbeffeggiarci quando la ragione cade in preda al sonno. Fu per S. un’esperienza interessante. Intravvide qualcosa della condizione in cui deve essere abituata a vivere la gente sgrammaticata; e ne portò un rossore interno, probabilmente malposto e diseducativo, ma forse connesso con una fibra morale che quel mondo ridicolo doveva pur avere. S. fu sempre ipnotizzato dall’idea di liberarsi un giorno dai rossori di tipo morfologico, ma forse (come diceva Oriani) è solo questione di arrossire più in alto.
Il francese si studiava nello stesso modo del latino, con le regolette, le eccezioni, ecc. Ma qui al piacere di generare di slancio il condizionale di désirer col suo assurdo rèrè finale (nevicava, S. arrivò in ritardo, la classe non sapeva o non osava arrischiarsi; e lui con le guance accese, un po’ di neve sulle soprascarpe, si mise a fare rèrè! come un arcangeletto), a questo innocente piacere si sposarono quasi subito gli altri, della lettura o perfino della composizione in proprio.
Viaggiando in corriera, che si chiamava allora il postale, S. più volte si abbandonò a una sorta di poetare indistinto. Chi gli aveva messo in testa che è naturale poetare? La domestica cresta dei colli di Monteviale venne a iscriversi un pomeriggio sul margine di un libro in forma di frase francese ora estinta; S. aggiunse a mo’ di data l’indicazione leggibile “avec le postal neuf”. Sentiva come maccheronico, e tuttavia oscuramente lirico, sia il dialetto sottostante a postal, sia l’italiano che c’è dentro a quell’avec, e ne gioiva. Tutto diventa maccheronico nel confronto col francese. Percepiva la differenza tra neuf e nouveau con una vividezza non fondata sulla realtà, esattamente come in vif e vivant, o in quel piccolo capolavoro fraseologico, “la bouche béante” usato come un ablativo assoluto, che i francesi dicono oggi che non esiste. Peggio per loro!

________________________________________________________________

(1) Il proclama di Salemi è una solenne dichiarazione fatta da Garibaldi nel 1860 durante la spedizione dei Mille, con la quale dichiarava di assumere la dittatura della Sicilia in nome di Vittorio Emanuele II; qui l’episodio è usato per indicare lo studio della storia, come i termini precedenti indicano la grammatica, la matematica e la geografia.
(2) Rejects = emarginati, reietti.
(3) All’epoca il ginnasio-liceo era considerato la più formativa delle scuole post-elementari; modificato nel 1923 con la riforma Gentile, aveva un’impostazione tipicamente umanistico-classicista, privilegiando la letteratura, la storia e la filosofia; oggi corrisponderebbe ai 3 anni della scuola secondaria di primo grado e al liceo classico. Le altre scuole esistenti, compreso il liceo scientifico, erano considerate meno formative e impegnative.
(4) Si deve intendere la sigla S. come l’autore stesso.
(5) Skills = abilità, oggi sarebbe di moda dire “competenze”.
(6) Tito Labieno, comandante di Giulio Cesare in Gallia, le cui imprese sono raccontate nel De bello Gallico.
(7) L’autore di Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie.
(8) Cricoli è la località vicentina, dove sorge la villa Trissino, appartenuta all’umanista Giangiorgio Trissino e tradizionalmente legata all’architetto Palladio (citato ironicamente qualche riga più avanti), il quale proprio qui avrebbe manifestato il suo talento che il Trissino si curò di far maturare. I versi riportati nel testo sono di Giacomo Zanella e si leggono ancora all’ingresso della villa.
(9) Giacomo Zanella, poeta vicentino (1820-1888), molto conosciuto un tempo (come si evince anche da questo testo di Meneghello), oggi poco conosciuto.
(10) Versi tratti da uno dei sonetti della raccolta intitolata Astichello, il fiume di cui Meneghello parla anche più avanti.
(11) Si tratta di località prossime a Malo, il comune in cui nacque Meneghello.
(12) Black box = scatola nera; qui impiegato dall’autore in senso ironico per “cervello”.
(13) Creommi, appo le siepi, mi rimembra, cotanta speme, sarammi allato, risovverrammi = sono tutte espressioni presenti nella poesia Le ricordanze di Giacomo Leopardi.
(14) Meneghello fa riferimento qui al sonetto dello Zanella intitolato Il suo stridor sospeso ha la cicala.
(15) Il riferimento è sempre ad altre poesie dello Zanella.
(16) Ovviamente Alec in inglese è diminutivo di Alexander, non salsa di pesce come in latino.
(17) Achille Starace (1889-1945), politico fascista, noto per alcune ridicole riforme, tra cui la sostituzione del lei con il voi, in quanto nell’antica Roma ci si dava del tu e del voi (per segnalare un gerarchico rispetto). Meneghello lo definisce (con sfumatura ironica) console, in quanto ufficiale della Milizia fascista.
(18) Prassitelico = vicino ai modi del famoso Prassitele, scultore del IV secolo a.C.
(19) Texture = trama, composizione; o segno, come aggiunge poco dopo Meneghello.
(20) In dialetto veneto “avere le suste molli” si dice di chi soffre di problemi di incontinenza o deve andare spesso in bagno.
(21) Il verso è tratto da L’annuale della fondazione di Roma.
(22) Agiografia = esaltazione di una personalità.
(23) Teutobochus = leggendario gigante, le cui presunte ossa vennero rinvenute nel XVII secolo (naturalmente si trattava di un falso).
(24) Anatole France (1844-1924), un tempo celebre scrittore francese, insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1921, oggi assai poco conosciuto.
(25) Il riferimento è all’episodio, raccontato nel libro IV dell’Eneide, in cui Enea e Didone, sorpresi dal temporale, si rifugiano in una grotta e si uniscono in un amplesso; ma il ragazzetto Meneghello trasforma la scena poetica in un volgare-divertito gesto del protagonista.
(26) Tega = in dialetto veneto è l’organo sessuale maschile.
(27) Francesco Filelfo (1398-1481), umanista italiano che ebbe fama di iniziare facilmente accese dispute contro i suoi avversari.
(28) J’ai été malé è francese maccheronico per dire “sono stato ammalato”; così come poco dopo è scorretto à les.

Villa Trissino a Cricoli (Vicenza)







Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.