Dmitrij
Šostakovič, dopo che la sua opera Una
Lady Macbeth del distretto di Mcensk è stat stroncata dalla Pravda come “Caos
anziché musica”, viene convocato per un colloquio dal Potere sovietico in un
tetro palazzo di Leningrado. L’interrogatorio lo coinvolgerà provvisoriamente
in un complotto per l’assassinio di Stalin e il grande compositore immagina già
le conseguenze di quell’accusa.
Il brano
è tratto da “Il rumore del tempo” del 2016: l’edizione italiana è stata pubblicata
da Einaudi nella traduzione di Susanna Basso.
Nella primavera del ’37, ebbe il
suo Primo Colloquio con il Potere. Non era certo la prima volta che comunicava
con il Potere, o che il Potere comunicava con lui: c’erano stati funzionari,
burocrati, membri del Partito con i loro suggerimenti, le proposte, gli
ultimatum. Il Potere gli aveva parlato attraverso gli organi di stampa, a
livello pubblico, e gli aveva sussurrato all’orecchio, a livello privato. Di
recente, il Potere lo aveva umiliato, sottraendogli energia vitale e
ingiungendogli di pentirsi. Il Potere gli aveva chiarito come ci si aspettava
che componesse, e che vivesse. Ora forse insinuava l’ipotesi che, tutto
considerato, fosse a questo punto più auspicabile che non vivesse affatto. Il
Potere aveva optato per un faccia a faccia con lui. Il nome in rappresentanza
del Potere era quello di Zakrevskij, e la sede presso la quale il Potere si
rivolgeva a individui come lui a Leningrado era la Grande casa. Molti di coloro
che entravano alla Grande casa sulla Liteinij Prospekt non ne uscivano più.
L’appuntamento era per un sabato
mattina. Con famigliari e amici sostenne che si trattava senza dubbio di una
formalità, forse una conseguenza automatica degli articoli contro di lui che
continuavano a uscire sulla «Pravda». Personalmente non ci credeva, e dubitava
che ci credessero gli altri. Non capitava a tanti di essere convocati alla
Grande casa per discutere di teoria della musica. Va da sé che si presentò
puntuale. E da principio, il Potere si mostrò civile e cortese. Zakrevskij gli
chiese del suo lavoro, di come procedesse la sua vita professionale, di cosa
avesse in mente di comporre nel prossimo futuro. In risposta, quasi sulla
spinta di un riflesso condizionato, lui disse che stava preparando una sinfonia
sul compagno Lenin, cosa peraltro del tutto plausibile. Ritenne poi prudente
far cenno alla campagna di stampa contro di lui, e fu incoraggiato dal tono di quasi
superficiale nonchalance dell’interrogatore sull’argomento. Poi vennero le
domande sugli amici e sulle persone che frequentava con regolarità. Non sapeva
che tipo di risposta fornire. Zakrevskij gli venne in soccorso.
- Ho sentito che lei conosce bene
il Maresciallo Tuchačevskij. È così?
- Sì, lo conosco.
- Mi racconti come l’ha
conosciuto.
Riferì dell’incontro avvenuto
dietro il palco nella Sala piccola del Conservatorio di Mosca. Spiegò che il
Maresciallo era un noto appassionato di musica, che aveva assistito a numerosi
suoi concerti, che suonava il violino e addirittura costruiva violini per
passatempo. Il Maresciallo lo aveva invitato a casa; avevano perfino suonato
qualche pezzo insieme. Era un buon violinista dilettante. «Buono» davvero?
Capace, sicuramente. E capace di migliorare.
- È stato a casa sua in molte
occasioni?
- Di quando in quando, sì.
- Di quando in quando per un
periodo di quanti anni? Otto, nove, dieci?
- Sì, più o meno.
- Dunque, diciamo quattro o
cinque visite l’anno? Per un totale di quaranta, cinquanta visite?
- Meno, direi. Non ho mai tenuto
il conto. Ma direi di meno.
- Ma lei è un amico intimo del
Maresciallo Tuchačevskij, giusto?
Tacque per riflettere. - No,
intimo no, un buon amico.
Non accennò al fatto che il
Maresciallo lo avesse sostenuto finanziariamente, gli avesse offerto consigli,
che avesse scritto a Stalin prendendo le sue difese. I casi erano due, o
Zakrevskij lo sapeva già oppure non sapeva.
- E chi altri era presente in
queste quaranta o cinquanta occasioni, a casa del suo buon amico?
- Non molte persone. Tutti membri
della famiglia.
- Tutti membri della famiglia -.
Il tono dell’interrogatore si era fatto comprensibilmente scettico.
- E qualche musicista. Qualche
musicologo.
- Qualche politico per caso?
- No, nessun politico.
- Ne è proprio sicuro?
- Beh, vede, si trattava di
riunioni talvolta piuttosto affollate. Non è che io… A dirla tutta, io ero
spesso al pianoforte a suonare…
- E di cosa si parlava?
- Di musica.
- E di politica.
- No.
- Andiamo, andiamo, come si fa a
non toccare l’argomento politica con un uomo dello stampo del Maresciallo
Tuchačevskij?
- Diciamo che era… fuori
servizio. Circondato da musicisti e da amici.
- E le risulta che fossero
presenti altri uomini politici… fuori servizio?
- No, mai. In mia presenza
nessuno parlò mai di politica.
L’interrogatore gli rivolse un
lunghissimo sguardo. Poi la sua voce subì un cambiamento, quasi a costruire la
serietà minacciosa consona al ruolo.
- Allora, io credo che le
convenga rinfrescarsi bene la memoria. Non può essere che in veste di «buon
amico», come si definisce, lei sia stato in casa del Maresciallo Tuchačevskij
regolarmente per un arco di tempo che copre gli ultimi dieci anni senza mai
parlare di politica. Prendiamo ad esempio il complotto per assassinare il
compagno Stalin. Che cosa sentì dire in proposito?
Fu a quel punto che seppe di
essere un uomo morto. «Ed ecco avvicinarsi l’ora di un altro», solo che questa
volta era la sua. Ripeté, il più pacatamente possibile, che non si era mai
parlato di politica dal Maresciallo Tuchačevskij; si trattava di serate
dedicate esclusivamente alla musica; le questioni di stato restavano fuori
dalla porta insieme a cappelli e cappotti. Non era certo che fosse il modo
migliore per dirlo. Del resto Zakrevskij non gli prestava più ascolto.
- Le suggerisco di ripensarci
bene, - disse l’interrogatore. - Sulla questione del complotto abbiamo già la
testimonianza di altri ospiti.
Si rese conto che Tuchačevskij
doveva essere stato arrestato, che la carriera, e la vita stessa del
Maresciallo, erano agli sgoccioli; che l’indagine era appena iniziata e che
chiunque orbitasse intorno al Maresciallo sarebbe presto scomparso dalla faccia
della terra. La sua personale innocenza era irrilevante. Quanto era stato
deciso era stato deciso. E se agli interrogatori occorreva dimostrare che la
cospirazione appena scoperta o appena inventata si era già così perniciosamente
diffusa da coinvolgere perfino il più celebre – ancorché di recente disonorato
– compositore della nazione, ebbene, lo avrebbero dimostrato. Il che dava conto
del tono sicuro con cui Zakrevskij concluse il colloquio.
- Molto bene. Oggi è sabato. In
questo momento sono le dodici e lei può andare. Ma le concedo solo quarantotto
ore. Entro lunedì alle dodici lei avrà senz’altro ricordato. Deve farsi tornare
in mente ogni dettaglio di tutte le discussioni a proposito del complotto
contro il compagno Stalin, delle quali lei è stato uno dei più importanti
testimoni.
Era un uomo morto. Raccontò a
Nita (1) quanto era stato detto e, al di là delle sue parole rassicuranti, capì
che lei pure lo considerava un uomo morto. Sapeva di dover proteggere le
persone più vicine a sé e, per farlo, aveva bisogno di restare calmo, ma
riusciva solo a essere agitatissimo. Bruciò tutto ciò che potesse risultare
incriminante anche se, una volta che eri stato etichettato come nemico del
popolo e complice di un noto assassino, non c’era più nulla che non lo fosse.
Tanto valeva appiccare il fuoco all’intero appartamento. Aveva paura per Nita,
per sua madre, per Galja (2), per chiunque fosse mai entrato o uscito da casa
sua.
«Al proprio destino non si
sfugge». E dunque, a lui sarebbe toccato morire a trent’anni. Più di Pergolesi,
in effetti, ma meno perfino di Schubert. E dello stesso Puškin (3), tra
l’altro. Il suo nome e la sua musica sarebbero stati cancellati. Non avrebbe
solo cessato di esistere, non sarebbe proprio mai esistito. Era stato un
errore, prontamente corretto; un volto in una foto scomparso alla successiva
stampa della stessa immagine. E se anche in futuro lo avessero riesumato, che
cosa avrebbero trovato? Quattro sinfonie, un concerto per pianoforte, qualche
suite per orchestra, due brani per quartetto d’archi ma non un solo quartetto
terminato, alcuni pezzi per pianoforte, una sonata per violoncello, due opere,
e qualche composizione per il cinema e per il balletto. Per che cosa lo
avrebbero ricordato? Per l’opera che lo aveva compromesso, per la sinfonia che
lui stesso aveva saggiamente ritirato? Forse la sua Prima sinfonia si sarebbe
prestata a fare da lieto preludio ai concerti di compositori maturi che
avessero avuto la fortuna di sopravvivergli.
Ma anche quella, si rese conto,
era una ben magra consolazione. Quel che pensava lui era del tutto irrilevante.
Al futuro decidere che decisione avrebbe preso il futuro. Ad esempio, che la
sua musica non aveva alcuna importanza. O che lui avrebbe potuto affermarsi
come compositore, se, per superbia, non si fosse lasciato trascinare in una
proditoria cospirazione contro il capo dello stato. Chi poteva sapere come
l’avrebbe pensata il futuro? Ci aspettiamo troppo dal domani, sperando che
sappia contrastare l’oggi. E chi poteva prevedere quale ombra la sua morte
avrebbe gettato sulla sua famiglia? Immaginava una Galja sedicenne uscire da un
orfanotrofio siberiano, convinta che i suoi genitori l’avessero crudelmente
abbandonata e ignara che suo padre avesse mai scritto anche una sola nota di
musica.
Alle prime minacce contro di lui
aveva detto agli amici: «Se anche mi dovessero mozzare tutte e due le mai, continuerò
a comporre, tenendo la penna tra i denti». Parole di sfida, pronunciate per
tenere alti gli animi di tutti, compreso il suo. Ma nessuno intendeva mozzargli
le mani, le sue piccole mani «non-pianistiche». Forse intendevano torturarlo, e
lui avrebbe ceduto all’istante su ogni cosa, perché non aveva la minima
resistenza al dolore. Gli avrebbero mostrato un elenco di nomi, e lui avrebbe
tradito tutti. No, avrebbe provato brevemente a dire, per passare subito a Sì,
Sì, Sì e ancora Sì. Sì, ero presente in quella circostanza in casa del
Maresciallo; Sì gli sentii dire tutto ciò che ritenete abbia detto; Sì il tal
generale e il tal politico presero parte alla cospirazione, li aveva visti e
uditi personalmente. Ma non ci sarebbe stata nessuna cruenta e teatrale
amputazione delle mani, giusto un pratico colpo di pistola alla nuca.
Quelle parole erano state da
parte sua nient’altro che una sciocca bravata, o alla peggio un tanto per dire.
E dei tanto per dire il Potere non sapeva che farsene. Il Potere badava solo ai
fatti, e parlava una lingua composta di espressioni ed eufemismi adatti ora a
mettere in luce ora a nascondere i fatti stessi. Nella Russia di Stalin non c’era
posto per compositori costretti a scrivere con la penna tra i denti. D’ora in
poi ci sarebbero state solo due categorie di musicisti: quelli vivi e
terrorizzati, e quelli morti.
Era passato così poco tempo dall’ultima
volta che si era sentito dentro l’indistruttibilità della giovinezza. La sua
incorruttibilità, addirittura. E al di là di ogni cosa, sullo sfondo di ogni
cosa, la certezza della verità e della rettitudine di qualunque talento gli
fosse toccato, di qualsiasi musica avesse scritto. Tutto questo non risultava
in alcun modo sconfessato. Era solo, al momento, di una irrilevanza assoluta.
Quel sabato notte, come pure la
domenica, prese sonno bevendo. Non era difficile. Non reggeva l’alcol, e un
paio di bicchieri di vodka spesso bastavano a stenderlo. Tale debolezza aveva i
suoi vantaggi. Mentre gli altri andavano avanti a bere, lui era costretto a
dormire. E il mattino dopo si ritrovava più riposato, più in forma per il
lavoro.
Anapa (4) era stata un centro
famoso per la Cura dell’uva. Una volta, scherzando, aveva detto a Tanja che
personalmente preferiva la Cura della vodka. E a essa dunque affidò quelle che
potevano rivelarsi le ultime due notti della sua vita.
Il lunedì mattina salutò Nita con
un bacio, prese Galja in braccio un’ultima volta e montò poi sull’autobus
diretto al tetro edificio grigio sulla Liteinij Prospekt. Persona da sempre
puntuale, sarebbe arrivato puntuale anche all’appuntamento con la sua morte. Contemplò
per un istante il fiume Neva, che avrebbe continuato a scorrere dopo tutti
loro. Giunto alla Grande casa si presentò alla guardia dell’ingresso. Il milite
controllò l’elenco ma non ci trovò il suo nome. Gli chiese di ripeterglielo. E quando
l’ebbe risentito, tornò a scorrere la lista.
- Perché è qui? Chi deve vedere?
- L’interrogatore Zakrevskij.
Il milite annuì lentamente. Poi,
senza alzare gli occhi, disse: - Beh, può andarsene a casa. Lei non risulta in
elenco. Oggi Zakrevskij non verrà, perciò nessuno la può ricevere.
E così ebbe fine il suo Primo
Colloquio con il Potere.
Se ne tornò a casa. Immaginò
dovesse trattarsi di una trappola: lo lasciavano andare per poterlo seguire e
arrestare con lui tutti i suoi amici e colleghi. Scoprì invece che la vita gli
aveva riservato un improvviso colpo di fortuna. Tra il sabato e il lunedì, lo
stesso Zakrevskij era finito nell’elenco dei sospettati. Il suo interrogatore
interrogato. L’arrestatore arrestato.
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(1) Nita = la moglie.
(2) Galja = la figlia.
(3) Pergolesi, Schubert, Puškin =
Giovanni Battista Pergolesi (1710-1736), compositore italiano; Franz Schubert
(1797-1828), compositore austriaco; Aleksandr Sergeevič Puškin (1799-1837),
scrittore russo.
(4) Anapa = città della Russia
caucasica, dove Šostakovič trascorre una vacanza con Tanja (nominata subito
dopo), il suo primo amore.
Dmitrij Šostakovič da giovane
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