Con
questo terzo post da “Il rumore del tempo” (2016) concludo la presentazione di
questo bel romanzo. Qui si narra il Secondo colloquio con il Potere di Dmitrij
Šostakovič, una telefonata con Stalin in persona, che gli chiede di andare a
New York a un Congresso culturale. Quindi il musicista riflette su che cos’è la
tirannia e esprime le sue opinioni su Arturo Toscanini, il celebre direttore d’orchestra
italiana, famoso anche per le sue sfuriate contro gli orchestrali. Da qui, infine,
una riflessione sulla rivoluzione sovietica e sulle meraviglie che ha
introdotto nella storia.
Poi, dopo un anno in disgrazia,
ebbe il Secondo Colloquio con il Potere. «Il rombo del tuono viene dal cielo,
non da un mucchio di sterco», come dice il poeta. Era a casa con Nita e il
compositore Levitin il 16 marzo 1949, quando squillò il telefono. Rispose,
stette in ascolto, assunse un’aria grave e infine disse agli altri due:
- Sta per prendere la linea
Stalin.
Nita si precipitò nella stanza
accanto all’altro apparecchio.
- Dmitrij Dmitrievič, - esordì la
voce del Potere, - come sta?
- Grazie, Iosif Vissarionovič,
tutto bene. Giusto qualche fastidio di stomaco.
- Mi dispiace sentirlo. Dovremo
trovarle un dottore.
- No, grazie. Non mi occorre
nulla. Ho tutto il necessario.
- Tanto meglio -. Ci fu una
pausa. Poi la poderosa cadenza georgiana, la voce trasmessa da un milione di
radio e di altoparlanti, gli domandò se era a conoscenza del prossimo Congresso
culturale e scientifico per la pace nel mondo che si sarebbe tenuto a New York.
Disse che ne era a conoscenza.
- E che cosa ne pensa?
- Penso che la pace è sempre
meglio della guerra, Iosif Vissarionovič.
- Bene. Dunque sarà lieto di
partecipare in nostra rappresentanza.
- No, non posso, temo.
- Non può?
- Me lo ha domandato il compagno
Molotov. Ho risposto che non mi sento abbastanza bene.
- In tal caso, come ho già detto,
le manderemo un dottore per farla stare meglio.
- Non è solo questo. Patisco il
mal d’aria. Non posso volare.
- Non è un problema. Il dottore
le prescriverà qualche pillola.
- È davvero gentile.
- Dunque ci andrà?
Tacque per un momento. Una parte
di lui era consapevole che una sola sillaba sbagliata l’avrebbe portato dritto
in un campo di lavoro, mentre l’altra parte, con sua grande sorpresa, aveva
superato la paura.
- No, Iosif Vissarionovič,
proprio non posso. Per un altro motivo.
- Cioè?
- Non possiedo un frac. Non posso
suonare in pubblico senza il frac. E temo di non potermene permettere uno.
- Beh, Dmitrij Dmitrievič, non
sono io a occuparmi direttamente di queste cose, ma sono certo che la sartoria
dei funzionari d’amministrazione del Comitato centrale non avrà problemi a
confezionargliene uno di suo gradimento.
- La ringrazio. Ma temo rimanga
un’altra ragione.
- Che non mancherà di chiarirmi,
giusto?
Sì, esisteva in effetti una
remota possibilità che Stalin non lo sapesse.
- Il fatto è, vede, che mi trovo
in una posizione molto imbarazzante. In America, la mia musica viene eseguita
spesso, e qui no. Me ne chiederebbero senz’altro conto. Dunque, come dovrei
comportarmi in circostanze del genere?
- In che senso, Dmitrij Dmitrievič,
la sua musica non viene eseguita?
- È proibita. Come quella di
tanti colleghi dell’Unione dei compositori.
- Proibita? E da chi?
- Dalla Commissione centrale per
i repertori. Dal 14 di febbraio dello scorso anno. Esiste un lungo elenco di
opere che non possono essere eseguite. Ma come può immaginare, Iosif
Vissarionovič, il risultato è che i direttori artistici non sono invogliati a
inserire in programma nemmeno altre mie composizioni. E i musicisti hanno paura
di eseguirle. Perciò, di fatto, sono sulla lista nera. Come altri colleghi.
- E chi ha dato un ordine simile?
- Deve essere stato un compagno
ai vertici del Potere.
- No, - rispose la voce. - Da noi
quell’ordine non è partito.
Lasciò al Potere il tempo di
rifletterci su.
- No, non abbiamo mai dato quell’ordine.
Si tratta di uno sbaglio. E come tale deve essere corretto. Nessuna delle sue
opere è stata proibita. Si possono eseguire tutte, tranquillamente. Non è mai
stato vero il contrario. Ci dovrà essere una sanzione ufficiale.
Qualche giorno più tardi, assieme
ad altri compositori, ricevette copia dell’ordine originale di divieto di
esecuzione. Al foglio era stato pinzato un documento che sanciva l’illegalità
della disposizione in oggetto e condannava la Commissione centrale per i
repertori responsabile del divieto. La correzione era firmata «Presidente del
Consiglio dei Ministri dell’Urss, I. Stalin».
E dunque lui era andato a New
York.
Nei suoi pensieri, tirannia e
rozzezza erano state inseparabili. Non gli era sfuggito il fatto che Lenin, al
momento di dettare il proprio testamento politico e di indicare un suo possibile
successore, aveva individuato proprio nella «rozzezza» il difetto peggiore di
Stalin. Quanto al suo mondo specifico, personalmente non gli andavano giù i
direttori d’orchestra definiti in toni encomiastici dei «dittatori». Mostrarsi
sgarbato con un orchestrale che si sforza di fare del proprio meglio era
vergognoso. Ma questi tiranni, questi imperatori della bacchetta, gongolavano
nel sentire utilizzare tale terminologia, quasi che un’orchestra potesse
suonare bene solo se umiliata, irrisa, frustata.
Il peggiore era Toscanini. Non lo
aveva mai visto in azione; lo conosceva solo dalle cronache. Ma in lui era
tutto sbagliato – tempi, spirito, nuance… Toscanini tritava la musica come
fosse un pasticcio di carne e poi ci scucchiaiava sopra una salsa schifosa. Il che
lo faceva infuriare. Una volta, il «maestro» gli aveva mandato una
registrazione della sua Settima sinfonia. Lui aveva risposto sottolineando i
numerosi errori dell’illustre direttore. Non sapeva se Toscanini avesse mai
ricevuto la lettera, né se, in caso affermativo, l’avesse capita. Doveva aver
ritenuto che contenesse soltanto lodi, perché poco tempo dopo a Mosca giunse la
trionfale notizia che lui, Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, era stato eletto
membro onorario dell’Associazione Arturo Toscanini! E ancora qualche tempo
dopo, aveva cominciato a ricevere in dono dischi di musica rigorosamente
diretti dall’insigne negriero. Lui ovviamente non li ascoltava, ma li metteva
da parte per farne futuri regali. Non per gli amici, s’intende, ma per un certo
tipo di conoscenti, quelli di cui era sicuro che ne sarebbero stati entusiasti.
Non era soltanto una questione di
amor proprio; e neppure un problema che riguardasse soltanto la musica. Quei direttori
urlavano e imprecavano, facevano scenate, minacciavano di licenziare il primo
clarinetto per essersi presentato in ritardo. E l’orchestra, costretta a
tollerare un simile trattamento, reagiva raccontando aneddoti alle spalle del
direttore – aneddoti che lo ritraevano come un «autentico personaggio». E
infine arrivavano a convincersi di ciò che credeva l’imperatore della bacchetta
in persona: e cioè che suonavano bene solo in virtù delle frustate ricevute.
Facevano gregge compatto, nel loro masochismo, lanciandosi di quando in quando
un commento sarcastico, ma di fatto ammirando la nobiltà e l’idealismo del loro
maestro, la sua determinazione, la capacità di vedere orizzonti più vasti di
chi si limitava a strimpellare e soffiare dietro un leggio. Il maestro, per quanto
costretto talvolta a mostrarsi duro, era un grande leader e andava seguito. A questo
punto, chi avrebbe ancora potuto negare che un’orchestra fosse un microcosmo
del sistema?
Dunque quando un direttore di
questo tipo, impaziente perfino con la partitura che gli stava di fronte,
ipotizzava un difetto o un errore, lui aveva pronta la garbata risposta formale
messa a punto molto tempo addietro.
Perciò immaginava il seguente
scambio di battute.
Potere: - Guardi che noi abbiamo
fatto la Rivoluzione.
Cittadino Secondo Oboe: - Sì, e
una rivoluzione meravigliosa, naturalmente. Enorme passo avanti rispetto al
passato. Davvero un traguardo importante. Delle volte, però, mi chiedo… mi
posso sbagliare, intendiamoci, ma era necessario in nome della Rivoluzione
fucilare tutti quegli ingegneri, e i generali, gli scienziati, i musicologi?
Spedire milioni di persone nei campi, utilizzare manodopera forzata da
sfruttare fino alla morte, seminare ovunque il Terrore, estorcere false
confessioni? Allestire un sistema nel quale, anche tra i più defilati, sono
centinaia gli uomini che ogni notte si aspettano di essere tirati giù dal letto
e trascinati alla Grande casa o alla Lubjanka (1) per subire torture o essere
costretti ad apporre la propria firma sotto documenti di assoluta e completa
invenzione e finire poi giustiziati con una pallottola alla nuca? Lei capirà,
me lo sto solo chiedendo.
Potere: - Ma sì, ma sì, ho
capito. Ha senz’altro ragione lei. Ma per adesso lasciamo perdere. Di quel
cambiamento ci occuperemo la prossima volta.
[…]
Certamente la Russia aveva
conosciuto altri tiranni in passato; per questo sul territorio era cresciuto
tanto il senso dell’ironia. «La Russia è la patria degli elefanti», come diceva
il proverbio. La Russia ha inventato ogni cosa perché… beh, in primis perché è
la Russia, il paese dove le illusioni sono normale amministrazione; e secondo, perché
adesso era diventata la Russia sovietica, vale a dire la nazione socialmente
più all’avanguardia della storia, nella quale era naturale che si inventasse di
tutto. Dunque, quando la Ford Motor Company (2) interruppe la produzione del
Modello A, le autorità sovietiche rilevarono l’intero impianto manifatturiero
e, meraviglia delle meraviglie, ecco atterrare sul pianeta un autobus da venti
posti o furgone leggero di progetto squisitamente sovietico! Idem dicasi per le
fabbriche di trattori: una linea di produzione americana, importata dall’America
e assemblata da tecnici americani, che all’improvviso sfornava macchine
agricole sovietiche. O ancora: la copia di una macchina fotografica Leica (3) che,
voilà, si trasformava in una Fed, prendendo il nome dal suo fondatore Feliks
Dzeržinskij: più sovietica di così… Chi l’aveva detto che l’era dei miracoli
apparteneva al passato? Il tutto realizzato a suon di parole dal potere di
trasformazione, quello sì davvero rivoluzionario. Prendiamo ad esempio il pane
francese. Come tale lo conoscevano tutti, e così lo chiamavano da anni. Poi un
bel giorno, il pane francese sparì dai negozi. Era invece comparso il «pane di
città» - identico all’altro in tutto e per tutto, ovviamente, ma assurto al
rango di patriottico prodotto della megalopoli sovietica.
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(1) Lubjanka = il nome di un
palazzo di Mosca, famigerato per essere stato la sede dei servizi segreti
sovietici (ancora oggi ospita tali servizi).
(2) Ford Motor Company = Industria
automobilistica statunitense.
(3) Leica = marchio industriale svizzero-tedesco.
Stalin e Toscanini: un accostamento bizzarro, ma neanche tanto
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