Nel 1940 S. (lo stesso Meneghello) vince una gara fascista per giovani studenti universitari e diventa così un littore: ciò gli permette di entrare a “lavorare” in un giornale di Padova e di conoscerne il direttore molisano, che, dopo gli insegnanti conosciuti negli anni precedenti, diventa il primo adulto non paesano che in qualche modo gli fa da maestro. Meneghello ne fa qui (capitolo 6 del romanzo Fiori italiani, del 1976) un ritratto a tutto tondo, come uomo e come esponente del fascismo: un “piccolo maestro” nell’insieme, ma senza alcuna cattiveria nel giudizio complessivo.
Ai “littori” del ’40 era stata offerta la possibilità di farsi assumere da un giornale, in veste di apprendisti soprannumerari di mezzo-lusso, cioè con un sussidio un po’ più alto dello stipendio di un praticante vero e proprio: mille lire al mese, metà di un professore universitario in cattedra, il doppio di una maestra elementare. Sotto c’era forse l’idea che imparassero davvero a fare i giornalisti, ma questo aspetto della faccenda non interessava a S. “Imparare a fare” gli pareva una nozione illusoria: se uno non sa già d’istinto come si fa una certa cosa, è inutile che provi a imparare. È come dare lezioni private: è sottinteso che si sa farlo, e non si cambia certo idea se gli allievi non passano gli esami.
Nella lettera d’avviso che ricevette, quasi una circolare, c’era uno spazio punteggiato in cui era stato inserito il nome di un giornale di Genova. Pareva robetta, ma decise di andare a vedere. Rimase a Genova tre giorni, girando da solo per le stradine, come nei libri di fantascienza quando si arriva in una di quelle straordinarie capitali di un altro pianeta, Trantor. A un certo punto andò anche al giornale, ma la tetraggine del luogo, i discorsi di quella gente sospettosa e deperita, la loro evidente mancanza di eccitazione per la fortuna che stava per toccargli, lo risospinsero fuori nel glamour delle stradine e delle latterie; e dopo tre giorni a pane e latte tornò a casa.
Un giorno fu mandato a chiamare dal direttore del giornale di Padova. Lo trovò in tipografia, davanti a un bancone su cui si componevano dei titoli, e fu accolto con risate e parolacce (tra cui un paragone con «una grande puttana») di trasparente, iperbolico apprezzamento. S. fece il saluto romano e arrossì. Non considerava “puttana”, in italiano, una parola che si usa in conversazione. La cosa piacque molto al direttore che in seguito gliene parlò più volte. «Ti facesti tutto rosso» diceva: perché diceva “farsi rosso”. Era di Campobasso («sannita» dichiarò in quel primo incontro, con l’aria di esserne orgoglioso e insieme di raccontare una barzelletta), ma romano per vocazione e formazione: un personaggio metropolitano, il primo che S. avesse mai incontrato.
S. gli spiegò che giudicava mortificante il lavoro dei giornalisti veri e propri, il “lavoro di redazione”. C’è qualcosa di meschino nello stare ogni giorno a compilare un giornale, di trito…
Il direttore assentì, e disse che sarebbe stato assurdo fargli fare lavoro di redazione. Era la vigilia di una ricorrenza patriottica, forse il 4 novembre. Se gli garbava, poteva scrivere un “pezzo”, così per prova. Lo portarono di sopra, e lo lasciarono solo in una stanza: e lì su delle strisce bislunghe fece un compito, tale e quale quelli di scuola, una serie di frasi su degli assiomi presi per sottintesi, con qualche ricercatezza verbale sparsa qua e là. Il giorno dopo il pezzo figurava stampato sul giornale come fondo di prima pagina.
S. restò piacevolmente disorientato. Il pezzo era tanto bruttino: legnoso nella stesura e insulso nel sugo. S. non aveva dubbi di saper scrivere delle cose abbastanza straordinarie sul 4 novembre, ma non poteva certo credere di averle già scritte. Invece il direttore pareva soddisfatto, anzi piuttosto colpito.
Gli fu assegnata una sua stanza, come ai redattori più importanti, e da un giorno all’altro si trovò diventato giornalista, se questa è la parola giusta. L’incarico più preciso era quello di prosatore anonimo di prima e di terza (1), ma anch’esso non era molto preciso. Scriveva quando voleva, quanto voleva e come voleva. Se andava a prendere ordini il direttore gli diceva: «Non ordini… preghiere…» e rideva di gusto.
I “pezzi” veri e propri gli creavano delle difficoltà, ma di carattere personale, non politico, ne parlerò in seguito. Il resto era piuttosto interessante. Gli piaceva fare i sottoclichés. Sono cose astratte (parole) intorno a cose concrete (immagini): in teoria servono a spiegarle, in realtà le cambiano. C’è di mezzo uno stimolo creativo, anche se non si sa bene che cosa si crei, e del resto la gente non se ne accorge. Qualche cosa di simile accadeva coi titoli, col loro complemento di “occhielli” e “sommari”. Andavano fatti naturalmente con «sensibbilità (2) giornalistica» che S. non aveva mai saputo che esistesse, ma erano inoltre atti a ricevere un certo grado di inventività linguistica e letteraria. Di nuovo, è un piccolo processo creativo, benché ristretto entro una cerchia predeterminata. Tu parti da una cosa indiscussa (s’intende che allora il conformismo era, oltre che nelle teste, conformismo di stato; oggi è solo nelle teste) e la elabori in modo breve, vistoso, memorabile, su otto colonne.
I DIFENSORI DI BARDIA ORGOGLIO DELLA PATRIA
Questa gliel’aveva suggerito suo fratello, allora quindicenne; naturalmente serviva ad annunciare che i difensori di Bardia (3) si erano arresi. Il direttore lodò il titolo, e mormorò: «Quegli sciagurati…». Anche questo suo sentimento sembrava autentico e ben fondato, ma non per questo il titolo perdeva fondatezza e verità. È uno strano avventore la Patria.
L’INVIOLABILE GIBILTERRA VIOLATA (4)
Per questa il direttore gli porse solennemente la mano, e S. ebbe la netta impressione di aver fatto una cosa, nel suo piccolo, perfetta.
In pratica veniva assumendo la funzione di un assistente personale del direttore. Assisteva, in principio, solo nel senso che stava a vedere il direttore dirigere, ma in questo senso assisteva sul serio. Se non imparava a fare il giornalista (ci vuol altro), imparava però “come si fa un giornale”. Lo imparava con un certo distacco, ma dall’interno, in modo pratico e indiscutibilmente autentico. Il direttore era bravissimo, a modo suo un giornalista di genio. Si era poco meno che innamorato di S. (e un giorno glielo disse, cominciando: «Premesso che sono assolutamente normale…») ed era evidente che lo considerava un giovane intellettualmente distinto. Lo istruiva e lo consultava con buonumore ironico, ma anche con un riflesso di amichevole reverenza. Benché non avesse stima degli intellettuali come categoria (di solito è gente così da poco) teneva però in gran conto l’intelletto, la “preparazione”, la literacy (5), e attribuiva a S. una familiarità naturale con queste cose, press’a poco nel modo in cui ascoltiamo i bambini stranieri parlare la loro lingua con divertente e inquietante autorità. Insomma il ruolo di damina di compagnia (perché a essere giusti era cominciata un po’ così) si trasformava in qualcosa di più strano. La damina era assai curiosamente programmata, vagamente oracolare, una sorta di bamboccio semi-sacro.
Il direttore era immerso in un processo produttivo estremamente concreto, si trattava di fare un oggetto ben determinato, una volta al giorno, entro le cinque di mattina. C’era di mezzo una tecnica complessa e fortemente caratterizzata; una parte dell’impianto era artigianale e antiquata, ma altrove c’era del nuovo. Non mi ricordo se si usasse già la parola tecnologia, ma è proprio questo che S. vedeva, la dimensione tecnologica di un processo produttivo, la necessità di fondere insieme le cose più disparate, in un giro fisso di ore, con una punta critica tra mezzanotte e l’una, passando dal livello dei fatti del mondo esterno e delle notizie in arrivo, ai vari livelli della loro trascrizione: prima in strilli, sgorbi, ticchettii; poi in cartelle, poi in piombi, in bozze, in “pagine” di metallo, in calchi pieghevoli, in zinchi piegati, in fogli scorrenti tra i cilindri delle rotative, nella prima copia umida del giornale di oggi. Mentre uno la prende in mano, con un sentimento che davvero non ha paragone in alcuna altra forma di produzione di parole scritte, già le copie si ammucchiano, sono pacchi di giornali in partenza.
Tutto questo è fatto da gente di disparate capacità. Tu devi lavorare con loro, collaborare, fidarti: si tratta realmente di un lavoro collettivo, basta che il correttore delle bozze corregga male il testo di un sottocliché e il podestà bacia la mona (6) alla Regina (era il refuso del secolo; era successo a Trieste; il direttore lo citava con un’ulteriore deformazione fonica della parola principale, quasi ri-ambientandola a Campobasso).
Il direttore aveva una speciale sensibilità per gli effetti di un accostamento incauto dei titoli: Il segretario del partito a Padova / Gravi danni alle colture. Era uno dei tanti aspetti dell’arte di fare una pagina, che a sua volta è una delle basi del mestiere. Se la pagina non è armonica, mossa, chiara, sensata, invogliante, il materiale che c’è dentro è sprecato. Né può esserci un giornale ben fatto con le singole pagine fatte male. Qualcosa di simile valeva per ogni altra fase e aspetto del lavoro, e a tutto il direttore portava la stessa attenzione minuta e unificatrice. Senza rendersene ben conto, S. si trovò a una specie di scuola professionale. Era l’allievo del direttore. Non aveva mai osservato così da vicino un’altra persona nell’atto stesso di fare il suo mestiere, tranne i professori che non contavano, e a cui del resto non si è vicini.
Anche sul piano personale emergeva qualcosa di significativo e imprevisto. Per la prima volta S. partecipava veramente alla vita di un adulto non paesano. La consuetudine quotidiana creava un rapporto di tipo familiare: era come aver acquistato un padre (un po’ troppo giovane quanto agli anni, ma perfettamente stagionato nel sentimento), oppure un fratello maggiore, o diciamo un padrino, di cui non si sente il bisogno ma che a un certo punto ci si trova ad avere. C’era, con l’affetto, un distacco ideologico e intellettuale assoluto, come può accadere appunto con un parente, salva l’animosità raramente assente nelle parentele vere, e che qui mancava del tutto.
Il direttore era un adulto vero, non immaginato. Fuori del paese, S. aveva pratica di una classe di adulti irreali, quelli dei libri, tutti con una gran tendenza a declamare, a “pensare”, a compiere “azioni” in astratto: ora vedeva come viveva e che cos’era nella realtà dei fatti un adulto italiano.
Si trattava inoltre di un uomo che (questo si capiva subito) apparteneva alla classe dirigente italiana, e la conosceva a fondo. Tutto ciò che diceva e raccontava a questo proposito era palesemente basato sui fatti. Si apriva uno spiraglio, lì a Padova, sulle realtà del fascismo e dell’Italia: e si vedeva com’era fatto il regime e (si sarebbe detto) il paese.
C’era nel direttore un piglio scherzoso, in primo luogo nei suoi propri confronti: scherzava sulla sua piccola statura (era un ometto, e quando incontrava un altro ometto raramente mancava di dirgli: «Viva gli uomini di giusta statura»), sul berrettone da gerarca - lo chiamava «l’uccello» - che doveva indossare quando si metteva in divisa, e che gli dava un’aria abbastanza grottesca. Con esso diceva di aver toccato una volta l’uccello di Goebbels (7), anche lui uomo di giusta statura. Fu alla presentazione: entrambi si fecero un violento inchino simultaneo e per un attimo parve certo che le teste si sarebbero spaccate una contro l’altra; invece si toccarono solo i berrettoni. Aveva tuttavia una sua ironica prestanza nel portamento e nel muovere energico delle gambette. Parlava lento, come aspettando le parole a una a una; ma imprimeva una particolare forza gnomica a frasi come «violento abbuso dei piaceri venerei»: vera causa della morte di uno sconsigliato personaggio del mondo romano. In quell’ambiente si sapeva sempre la causa vera delle cose, e del resto mi pare che la nostra cultura metropolitana sia ancora così: sa sempre le cause, anche se forse non direbbe più violento abbuso.
Aveva tutta una sua mitologia di personaggi assurdi: il noto giornalista che scriveva “d’orato” non per ignoranza ma per intima convinzione; la contessa Ciano (8) che ne aveva visti più di un orinatoio pubblico, molti di più; il solenne critico teatrale che non voleva mai sbilanciarsi sul conto dei giovani di primo pelo:
«Maestro che ve ne pare di Gogol’?»
«Bu-ono, bu-ono.»
Divideva la gente in categorie: le lenze, le radiche, i poveretti, i teorici-fessi (tra i quali poneva affettuosamente il suo giovane pupillo padovano: ma se sono amici tuoi si può anche farli contenti, lasciarli teorizzare), e ancora le persone in malaffede, i filoni, i giovani ben-preparati, e parecchi altri.
Conosceva a fondo le cricche in cui era diviso il mondo ufficiale del governo e del partito, e considerava assurda l’idea che dietro di esse ci fosse un qualsiasi contenuto oltre agli interessi e alle passioni private. Uno poteva per esempio essere stato «un uomo di Starace», poi essere diventato «un uomo di Ciano», anzi Ci-ano, anzi «il conte Ci-ano, di Cortellazzo», con la giunta canonica sul diverso grado di bellezza delle due rime. La necessità di schierarsi rispetto alle cricche era assoluta, e talvolta bisognava ottemperarvi piuttosto spietatamente. Questo non escludeva che si potesse essere sinceri nell’ammirazione, e fedeli nella stima. Al protettore caduto uno è fiero di poter testimoniare rispetto, salutandolo con un energico saluto romano se ci si trova a vederlo passare a cavallo al Pincio (escursione a Roma, 1942). Si trattava di Starace, in quel momento esautorato e deriso. Era di prima mattina, e non c’era quasi nessuno lì attorno. Quel saluto non era una sfida ai nemici di Starace: questa non sarebbe fedeltà alle amicizie, ma stupidaggine, quell’essere fessi che non si deplora mai abbastanza.
Naturalmente ci sono delle cose a cui si concede, in privato, un’ammirazione incondizionata e inamovibile: il dono professionale di Concetto Pettinato, l’irreprensibilità comica ma innegabile dei repubblicani storici, l’ingegno della gente del Sud, amici o avversari, Giustino Fortunato, quel mariolo di Nitti… (9)
A Mussolini, che chiamava il Professore, riconosceva una dote suprema, di essere sempre stato «un grande regista»: ma ora gli era capitata la sventura di cadere in mano a una donna che gli succhiava le energie, letteralmente, con la bocca; diceva che questa donna chiamava il Duce Lulù. Ogni volta che cadevano Tobruk, Bardia, inveiva brevemente contro di lei.
Una sera in via San Francesco in mezzo alla strada vuota gli disse: «Ma allora tu credi che la Marcia su Roma ci sia stata?» e rideva. All’improvviso uscì una macchina da via del Santo coi fari grandi accesi, sbandando un po’. Il direttore fece un piccolo salto di terrore che per un momento lo trasfigurò: una cosa animale, da gatto. Gli passò subito. Disse: «Sai io non ho coraggio fisico». La nozione del coraggio-fisico gli dava una soddisfazione intellettuale quasi visibile. Così era con ogni formula in cui sentiva una carica culturale. Gli piaceva adoperarle come formule, strumentalizzarle.
Aveva un profondo riguardo per la parola scritta, che pareva procedere da una forma di umiltà, forse eccessiva, una specie di nevrosi, sopportata del resto con ammirevole buonumore. Aveva invece il culto dell’aggiunta fatta bene, cioè inserita tra le righe e nei margini di un manoscritto in modo chiaro, con un complicato ma limpido apparato di graffe e strisci di richiamo; e qui sfogava un po’ del suo istinto naturale di polemista. Le aggiunte tendevano ad allungarsi per righe e righe con una forma di vitalità paratattica.
Non si credeva degno di essere contato tra le persone veramente colte: ma ci teneva invece alla sua «sensibbilità culturale» che (diceva) è ciò che davvero occorre, nel giornalismo e nella vita; e irrideva alla gente che non l’aveva, l’uomo di d’orato per esempio. D’orato, Pollaiuolo (10), Gogol’… Come si fa a non sentir suonare un campanello d’avvertimento?
«Di là abbiamo un Pollaiuolo…»
«Per carità, che non lo veda il Ministro!»
Come si rallegrava all’idea che questo era veramente accaduto, quando Bottai (in quegli anni di orticelli di guerra e allevamenti di fortuna) visitò gli Uffizi!
Gli piaceva dichiararsi «fazioso», gli pareva una civetteria. Era verbalmente spietato con gli avversari di parte (e in quegli anni spaventevoli un simile capriccio comportava conseguenze non civettuole): ma la cosa contrastava crudamente col suo carattere generoso e affettuoso.
Canticchiava molto intonato, con voce calda e poco meno che bella,
Passiflora passiflora / che di spine hai la corona…
Parlava delle gioie della gioventù e della vita con l’affettuosa nostalgia di un vecchio (aveva di poco passato i trenta), le delizie del venticello che si leva a Roma non ricordo a che ora; le altre meraviglie di quella sua città adottiva, delle quali era sinceramente orgoglioso; oppure un bel mare, una bella cerimonia, un bel ricordo, quell’estate di favola ad Abbazia, passata a ballare nella camera dell’albergo in penombra, con una donna gigantesca, nudi, a una musica velata di violini… Non era solo “nudi”, era “ballare”, “musica”, those foolish things… (11)
Aveva un senso antico degli affetti familiari, del modo come ci si deve far strada nella vita, delle cose che si devono fare per gli occhi del mondo, che sono assurde, ma danno la misura di ciò che è un uomo nella società. Era fiero della gente che era andata al suo matrimonio a Roma, e delle spese eccessive ed eccitanti. Viaggio di nozze viaggio di nozze (recitava sospirando)… quanti danari spesi in carrozze… treni battelli funicolari… quanti danari quanti danari…
Nell’uso del telegramma, dell’Albergo, del Fattorino, della Donna, dell’Urgentissima di stato, era sicuro e sereno; e veramente brillava nelle cene coi ministri e i sottosegretari, scherzando, stuzzicando e lusingando a getto continuo. Bisanzio era venuta a Padova, e faceva apparire il nostro clima rigido e feroce.
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(1) S’intende la prima pagina di un giornale (che conteneva – e contiene – oltre ai titoli dei fatti principali del giorno i commenti del direttore o di altri giornalisti) e la terza pagina, che dall’inizio del Novecento era tradizionalmente dedicata agli eventi culturali.
(2) La grafia ortograficamente scorretta (anche in altre parti del testo) è nell’autore, che sottolinea così la cadenza dialettale molisana del direttore.
(3) Si riferisce alla battaglia di Bardia (Libia, gennaio 1941), nella quale l’esercito italiano dovette arrendersi alle forze alleate, che poterono poi occupare tutta la Cirenaica. Circa 36.000 italiani vennero fatti prigionieri, insomma, non proprio un’azione orgogliosa!
(4) Il riferimento è a qualche operazione militare condotta dagli italiani contro la roccaforte inglese tra Mediterraneo e Atlantico.
(5) Literacy = grado d’istruzione di una persona.
(6) Anziché la “mano”: errore grossolano ma assai foriero di sollazzo o di sventure.
(7) Joseph Goebbels, uno dei principali gerarchi nazisti: si suicidò il 1° maggio 1945 assieme alla moglie, dopo aver ucciso i sei figli.
(8) Edda Mussolini, figlia di Benito, che sposò Galeazzo Ciano, fatto fucilare dal Duce nel 1944.
(9) Concetto Pettinato (1886-1975) fu un giornalista italiano fascista; Giustino Fortunato (1848-1832) fu un politico e storico del Mezzogiorno; Francesco Saverio Nitti (1868-1953) fu un politico e anch’egli storico del Sud d’Italia, ma antifascista e costretto all’esilio.
(10) Pollaiuolo anziché Pollaiolo, famoso pittore e scultore del Quattrocento.
(11) Those foolish things = letteralmente significa “queste strane/ridicole cose”, ma è anche il titolo di una celebre canzone americana degli anni Trenta, interpretata per prima dalla magnifica Billie Holiday. Credo che Meneghello abbia fatto questa citazione anche in senso ironico, considerando che le canzoni statunitensi era severamente vietate dal regima fascista.
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