venerdì 27 ottobre 2017

121 Carmen Votivum (di Gabriele D'Annunzio)



Non c’è poeta (giustamente) più odiato del D’Annunzio dai liceali italiani; repellente come uomo (a me ricorda un noto e insopportabile critico d’arte col ciuffo dei giorni nostri), come poeta e scrittore è tronfio e illeggibile e andrebbe comunque abolito dai programmi scolastici. Studiarlo ancora, magari solo per far comprendere l’aria del suo tempo o per spiegare la reazione nei suoi confronti che si manifestò in poeti della generazione successiva, è una pura perdita di tempo e uno spreco di energie.
Ne riporto in questo blog questa poesia (non famosa né importante, ma sostanzialmente fedele al suo modo di poetare) solo perché sollecitato da quanto ne dice Luigi Meneghello nei suoi “Fiori italiani” (vedi post 120); naturalmente non intendo né commentarla, né parafrasarla, soltanto invito a leggerla nel modo definito da Meneghello, cioè come se fosse “una lunga barzelletta”. Ricordando che «D'Annunzio è oltre a tutto un pagliaccio».

Elena, è vano il gemito. non odo.
Se forte sii come le schiere achèe,
io giovine ti dómo. non ti lodo
come il vegliardo in su le Porte Scee.
Nell’anelito madida io t’agogno:
nova ti fanno il desiderio e il sogno.

Elena, il tuo madore è una rugiada
stillante sopra uno stillante miele.
Un alito d’amor sopra una spada?
O Spada dell’arcangelo Ariele!
Ma il céspite che l’ìnguine t’infiora
non è come l’ascella dell’Aurora?

Piacente sopra te, quanto mi piaci!
Assai più d’ogni frutto e d’ogni fiore,
assai più d’ogni fonte. ne’ tuoi baci
la musica e il silenzio del sapore
s’avvicendan così che tu m’insegni
l’arte dell’ape ne’ suoi favi pregni.

Frutteto modulato dal mio flauto,
scandito brolo dalla mia misura,
munifico piacere, amore lauto
di freschezza ora acerba ora matura,
Hělěnē, io sono alla divina mensa
una divinità breve et immensa.

Non mi disseto né mi sazio. è scarsa,
ahi, la sorgente della tua saliva.
Non cavo, se la gola m’è riarsa,
gora di sangue dalla carne viva.
Se abbocco i pomi, se i ginocchi lisci
ródo, tanto urli che m’impietosisci.

Così talor m’è l’ìnguine coltello
di furibondo contro furibonda.
Il bene scosso amplesso m’è macello
che non di sangue il vasto letto inonda.
Il non bevuto nèttare si spande
e il non vermiglio eccidio è gaudio grande.

Verso i lavacri, tu ti snodi e t’alzi
e balzi, molle nube ove celato
sia l’arco dèlio. i tuoi be’ piedi scalzi
fanno de’ miei tappeti un fresco prato.
Pur invertita m’ardi in ogni vena,
alta Aphrodita dalla ricca schiena.

Forma che così pura t’arrotondi,
là dalla pura falce delle reni,
e nella man che ti ricerca abbondi
avanzando in tua copia tutti i seni,
la parabola io solva della Cruna
e del Cammello, o specie della Luna!

Via d’oro che nel tuo cominciamento
lanuginosa come l’albicocca
t’avvalli, forse valico al portento
ambiguo t’offri. al dardo che t’imbrocca,
‘Ελένη forse giova il curvo errore,
se il dubbio nel ferir giovi all’Amore.

La tua divinità biforme strazia
il desiderio. fra il tuo mento e il pollice
del tuo piede una melodia si spazia
quasi pimplèa. ma tra la nuca e il poplite
insino al tuo calcagno tinto in minio
la dolosa Pertunda ha il suo dominio.

Bìfora, non tra il ritto et il rovescio
d’alcuna sua medaglia il Pisanello
mai mi partì come tu suoli, a sbiescio
atteggiata nel lepido tranello.
Perché dita sol m’ebbi cinque e cinque
e l’undecimo solo? utrinde, utrinque.

Così con studio strenuo m’ingegno
di circondurti come il chiaro fiume
che te creata levigò per segno
della progenie, o tu color di fiume.
Nella greca mia mente Euclide istesso
tra circolo e triangolo è perplesso.

‘Ω κάλα, ώ χαρίεσσα, ώ χρύσω
χρυσοτέρα la lingua degli Iddii
ti parlo. e tu mi ridi. il tuo sorriso
è un modo eolio che di Psappha udii
in Mitylana, oplìte non fuggiasco.
Μελλιχόμειδε. parlo, e in te mi pasco.

Μελλιχόμειδε. colan nelle vene,
quasi studio d’ancor disgiunte bocche,
le liquefatte sillabe. Παρθένε
τὰν κεφαλάν, o dalle Intonse ciocche
tu, τὰ δ’έ̀νερθε νύμφα . tu m’intendi
e mi ridi e m’eludi, e t’avvicendi.

Io, non oplìte Alceo che targa ed asta
lasci al nemico, io ben da modo eolio
appresi ὰλλ ὰ πα̃ν τόλματον . mi basta
‘Osare l’inosabile’ è il mio scolio
d’eroe, che insano illustra le parole
di Psappha tessitrice di viole.

‘Ελένη Μου̃σα φίλα, non ti sazia
questo mio canto carico di frutti?
Πάγκαρπον ὰοιδάν vico di grazia
Maleagro, per te che non rilutti,
δολόπλοκε per te che mi secondi,
e ti alterni, e m’eludi in dove abbondi.

Ma che val Meleagro avere io vinto
per vincer di freschezza ogni tuo gioco?
Per te non tesso il giglio col giacinto,
non intreccio l’anèmone et il croco.
Spargo il miei freschi frutti al chiaro fiume
del nome tuo, pome color di fiume.

Tu parli: ‘Io generata fui diurna
dal fiume che dà il nome alla mia gente.
Tal fiume non il cubito su l’urna
preme, né torvo guata la corrente.
Con mille volti e senza volto arride
a quel che vede e a quel che mai non vide.

Sovvienti: un tempo era nomata Sangue
la Zancle. sotto il ponte del Crudele
scorre. alle mie due bocche allude? Lambe
le soglie di Sant’Angelo del Mele.
Chiara al sole, s’intorbida alla nube.
E s’increspa più lene del mio pube.’

Io dico: Figlia del chiaro fiume,
‘Ελένη Ζάγκλη, all’ombra dell’alcova
nelle mie braccia sei color di fiume
turbato appena dalla prima piova.
Fatta sei di quell’oro avido e fresco
che passa per Sant’Angelo del Pesco.

Anche passa turbato sotto l’erte
rupi de’ Marsi, ricusando il cielo.
Ma il sasso per te figlia si converte
in quel marmo ineffabile che a Delo
incensatrice unto di flavo unguento
facea le iddie colore di frumento.

Così la mia diversità ti finge
onda di fiume et opra di scarpello.
Così fluisci e induri, se ti stringe
ignuda il mio vigor sempre novello.
O Elena, così tu t’insapori
in ogni frutto, in ogni fior t’infiori.

‘Vostra piacenza tien più di piacere
d’altra piacente, però mi piacete’
ti cantò quel di Lucca antico Sere.
E sol quel canto il mio piacer ripete.
In te, per Bonagiunta di Riccomo,
concilio il fonte e il sasso, il boccio e il pomo.

È il mio marzo natale, ond’io son novo.
Mi riconduci l’alba della sorte.
In te tutto il mio popolo ritrovo.
Di te sono vorace, a te son forte.
O Vària, se tu sii la mia sostanza,
immortale è la vita che m’avanza.

M’appariscon gli ignoti iddii che vidi
co’ miei grandi occhi aperti; e non tremai.
Riodo nel cor giovine i miei gridi
senza eco, in groppa a’ miei puledri bai.
Scàlpito il rosmarino il nardo il timo
la menta. alla prim’alba io sono il primo.

Or, di lungi e da presso, all’alba prima
senza preghiere albeggia la Maiella.
Tutta la neve sembra aulire in cima
de’ miei pensieri, con la tua mammella.
Tutti i frutteti albeggian di rugiada
per le fiumane della mia contrada.

Su tre corde accordate in diapente
ti modulai ne’ modi miei di Ortona
un canto inebriato immortalmente;
che qui ti chiudo a guisa di corona.
Sviene l’alba. ti piaccia, Ἑλένη, ancóra
immortalarmi in grembo all’altra Aurora.




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