giovedì 8 settembre 2016

7 La peste del 1348 (di Giovanni Boccaccio)



Il Decameron narra che, per sfuggire alla peste che imperversa a Firenze, sette giovani donne, di età compresa tra 18 e 28 anni, trovatesi a pregare nella chiesa di Santa Maria Novella, decidono di fuggire dalla città e riparare in una casa di campagna, assieme a tre giovani, fidanzati a tre di loro. Assieme, i dieci giovani passeranno in campagna dieci giorni (Decameron significa appunto “dieci giorni”) e trascorreranno il tempo raccontandosi dieci novelle al giorno, cosicché alla fine le storie narrate saranno cento. Giovanni Boccaccio nelle prime pagine della sua opera descrive l’epidemia di peste che ha colpito Firenze e che spinge i dieci giovani ad abbandonare la città.
Ne trovi di seguito la versione originale, nell’edizione curata da Vittore Branca (Einaudi, 1980), e una mia trascrizione in italiano moderno, con qualche lieve licenza.

Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn'altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza: la quale, per operazion de' corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d'inumerabile quantità de' viventi avendo private, senza ristare d'un luogo in uno altro continuandosi, verso l'Occidente miserabilmente s'era ampliata. E in quella non valendo alcuno senno né umano provedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati e vietato l'entrarvi dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazion della sanità, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte e in processioni ordinate, in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell'anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare. E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue del naso era manifesto segno di inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d'essa a' maschi e alle femine parimente o nella anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcun' altre meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli. E dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire: e da questo appresso s'incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno.
A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto: anzi, o che natura del malore nol patisse o che la ignoranza de' medicanti (de' quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d'uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo) non conoscesse da che si movesse e per consequente debito argomento non vi prendesse, non solamente pochi ne guarivano, anzi quasi tutti infra 'l terzo giorno dalla apparizione de' sopra detti segni, chi più tosto e chi meno e i più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano. E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagli infermi di quella per lo comunicare insieme s'avventava a' sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto gli sono avvicinate. E più avanti ancora ebbe di male: ché non solamente il parlare e l'usare cogli infermi dava a' sani infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale infermità nel toccator transportare. Maravigliosa cosa è da udire quello che io debbo dire: il che, se dagli occhi di molti e da' miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fededegna udito l'avessi. Dico che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno a altro, che non solamente l'uomo all'uomo, ma questo, che è molto più, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell'uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell'uomo, non solamente della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse. Di che gli occhi miei, sì come poco davanti è detto, presero tra l'altre volte un dì così fatta esperienza: che, essendo gli stracci d'un povero uomo da tale infermità morto gittati nella via publica e avvenendosi a essi due porci, e quegli secondo il lor costume prima molto col grifo e poi co' denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra.
Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure e immaginazioni in quegli che rimanevano vivi, e tutti quasi a un fine tiravano assai crudele era di schifare e di fuggire gl'infermi e le lor cose; e così faccendo, si credeva ciascuno medesimo salute acquistare. E erano alcuni, li quali avvisavano che il viver moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità avesse molto a così fatto accidente resistere; e fatta brigata, da ogni altro separati viveano, e in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi, dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando e ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare a alcuno o volere di fuori di morte o d'infermi alcuna novella sentire, con suoni e con quegli piaceri che aver poteano si dimovano. Altri, in contraria oppinion tratti, affermavano il bere assai e il godere e l'andar cantando attorno e sollazzando e il sodisfare d'ogni cosa all'appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male; e così come il dicevano mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto più ciò per l'altrui case faccendo, solamente che cose vi sentissero che lor venissero a grado o in piacere E ciò potevan far di leggiere, per ciò che ciascun, quasi non più viver dovesse, aveva, sì come sé, le sue cose messe in abbandono; di che le più delle case erano divenute comuni, e così l'usava lo straniere, pure che ad esse s'avvenisse, come l'avrebbe il proprio signore usate; e con tutto questo proponimento bestiale sempre gl'infermi fuggivano a lor potere. E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda autorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri e esecutori di quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o sì di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare; per la qual cosa era a ciascun licito quanto a grado gli era d'adoperare. Molti altri servavano, tra questi due di sopra detti, una mezzana via, non strignendosi nelle vivande quanto i primi né nel bere e nell'altre dissoluzioni allargandosi quanto i secondi, ma a sofficienza secondo gli appetiti le cose usavano e senza rinchiudersi andavano a torno, portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere e chi diverse maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso, estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare, con ciò fosse cosa che l'aere tutto paresse dal puzzo de' morti corpi e delle infermità e delle medicine compreso e puzzolente. Alcuni erano di più crudel sentimento, come che per avventura più fosse sicuro, dicendo niuna altra medicina essere contro alle pestilenze migliore né così buona come il fuggir loro davanti; e da questo argomento mossi, non curando d'alcuna cosa se non di sé, assai e uomini e donne abbandonarono la propia città, le propie case, i lor luoghi e i lor parenti e le lor cose, e cercarono l'altrui o almeno il lor contado, quasi l'ira di Dio a punire le iniquità degli uomini con quella pestilenza non dove fossero procedesse, ma solamente a coloro opprimere li quali dentro alle mura della lor città si trovassero, commossa intendesse; o quasi avvisando niuna persona in quella dover rimanere e la sua ultima ora esser venuta.
E come che questi così variamente oppinanti non morissero tutti, non per ciò tutti campavano: anzi, infermandone di ciascuna molti e in ogni luogo, avendo essi stessi, quando sani erano, essemplo dato a coloro che sani rimanevano, quasi abbandonati per tutto languieno. E lasciamo stare che l'uno cittadino l'altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell'altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata né petti degli uomini e delle donne, che l'un fratello l'altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano. Per la qual cosa a coloro, de' quali era la moltitudine inestimabile, e maschi e femine, che infermavano, niuno altro sussidio rimase che o la carità degli amici (e di questi fur pochi) o l'avarizia de' serventi, li quali da grossi salari e sconvenevoli tratti servieno, quantunque per tutto ciò molti non fossero divenuti: e quelli cotanti erano uomini o femine di grosso ingegno, e i più di tali servigi non usati, li qual niuna altra cosa servieno che di porgere alcune cose dagl'infermi addomandate o di riguardare quando morieno; e, servendo in tal servigio, sé molte volte col guadagno perdeano. E da questo essere abbandonati gli infermi da' vicini, da' parenti e dagli amici e avere scarsità di serventi, discorse uno uso quasi davanti mai non udito: che niuna, quantunque leggiadra o bella o gentil donna fosse, infermando, non curava d'avere a' suoi servigi uomo, egli si fosse o giovane o altro, e a lui senza alcuna vergogna ogni parte del corpo aprire non altrimenti che a una femina avrebbe fatto, solo che la necessità della sua infermità il richiedesse; il che, in quelle che ne guerirono, fu forse di minore onestà, nel tempo che succedette, cagione. E oltre a questo ne seguio la morte di molti che per avventura, se stati fossero atati, campati sarieno; di che, tra per lo difetto degli opportuni servigi, li quali gl'infermi aver non poteano, e per la forza della pestilenza, era tanta nella città la moltitudine che di dì e di notte morieno, che uno stupore era a udir dire, non che a riguardarlo. Per che, quasi di necessità, cose contrarie a' primi costumi de' cittadini nacquero tra quali rimanean vivi.
Era usanza (sì come ancora oggi veggiamo usare) che le donne parenti e vicine nella casa del morto si ragunavano e quivi con quelle che più gli appartenevano piagnevano; e d'altra parte dinanzi alla casa del morto co' suoi prossimi si ragunavano i suoi vicini e altri cittadini assai, e secondo la qualità del morto vi veniva il chericato; ed egli sopra gli omeri sé suoi pari, con funeral pompa di cera e di canti, alla chiesa da lui prima eletta anzi la morte n'era portato. Le quali cose, poi che a montar cominciò la ferocità della pestilenza tutto o in maggior parte quasi cessarono e altre nuove in lor luogo ne sopravennero. Per ciò che, non solamente senza aver molte donne da torno morivan le genti, ma assai n'erano di quelli che di questa vita senza testimonio trapassavano; e pochissimi erano coloro a' quali i pietosi pianti e l'amare lagrime de' suoi congiunti fossero concedute, anzi in luogo di quelle s'usavano per li più risa e motti e festeggiar compagnevole; la quale usanza le donne, in gran parte proposta la donnesca pietà per la salute di loro, avevano ottimamente appresa. Ed erano radi coloro, i corpi de' quali fosser più che da un diece o dodici de' suoi vicini alla chiesa acompagnati; li quali non gli orrevoli e cari cittadini sopra gli omeri portavano, ma una maniera di beccamorti sopravenuti di minuta gente, che chiamar si facevan becchini, la quale questi servigi prezzolata faceva, sottentravano alla bara; e quella con frettolosi passi, non a quella chiesa che esso aveva anzi la morte disposto ma alla più vicina le più volte il portavano, dietro a quattro o a sei cherici con poco lume e tal fiata senza alcuno; li quali con l'aiuto de' detti becchini, senza faticarsi in troppo lungo uficio o solenne, in qualunque sepoltura disoccupata trovavano più tosto il mettevano.
Della minuta gente, e forse in gran parte della mezzana, era il ragguardamento di molto maggior miseria pieno; per ciò che essi, il più o da speranza o da povertà ritenuti nelle lor case, nelle lor vicinanze standosi, a migliaia per giorno infermavano; e non essendo né serviti né atati d'alcuna cosa, quasi senza alcuna redenzione, tutti morivano. E assai n'erano che nella strada pubblica o di dì o di notte finivano, e molti, ancora che nelle case finissero, prima col puzzo de lor corpi corrotti che altramenti facevano a' vicini sentire sé esser morti; e di questi e degli altri che per tutto morivano, tutto pieno. Era il più da' vicini una medesima maniera servata, mossi non meno da tema che la corruzione de' morti non gli offendesse, che da carità la quale avessero a' trapassati. Essi, e per sé medesimi e con l'aiuto d'alcuni portatori, quando aver ne potevano, traevano dalle lor case li corpi de' già passati, e quegli davanti alli loro usci ponevano, dove, la mattina spezialmente, n'avrebbe potuti veder senza numero chi fosse attorno andato: e quindi fatte venir bare, (e tali furono, che, per difetto di quelle, sopra alcuna tavole) ne portavano. Né fu una bara sola quella che due o tre ne portò insiememente, né avvenne pure una volta, ma se ne sarieno assai potute annoverare di quelle che la moglie e 'l marito, di due o tre fratelli, o il padre e il figliuolo, o così fattamente ne contenieno. E infinite volte avvenne che, andando due preti con una croce per alcuno, si misero tre o quatro bare, dà portatori portate, di dietro a quella: e, dove un morto credevano avere i preti a sepellire, n'avevano sei o otto e tal fiata più. Né erano per ciò questi da alcuna lagrima o lume o compagnia onorati; anzi era la cosa pervenuta a tanto, che non altramenti si curava degli uomini che morivano, che ora si curerebbe di capre; per che assai manifestamente apparve che quello che il naturale corso delle cose non avea potuto con piccoli e radi danni a' savi mostrare doversi con pazienza passare, la grandezza de' mali eziandio i semplici far di ciò scorti e non curanti. Alla gran moltitudine de' corpi mostrata, che a ogni chiesa ogni dì e quasi ogn'ora concorreva portata, non bastando la terra sacra alle sepolture, e massimamente volendo dare a ciascun luogo proprio secondo l'antico costume, si facevano per gli cimiterii delle chiese, poi che ogni parte era piena, fosse grandissime nelle quali a centinaia si mettevano i sopravegnenti: e in quelle stivati, come si mettono le mercatantie nelle navi a suolo a suolo, con poca terra si ricoprieno infino a tanto che la fossa al sommo si pervenia.
E acciò che dietro a ogni particularità le nostre passate miserie per la città avvenute più ricercando non vada, dico che, così inimico tempo correndo per quella, non per ciò meno d' alcuna cosa risparmiò il circustante contado, nel quale, (lasciando star le castella, che erano nella loro piccolezza alla città) per le sparte ville e per li campi i lavoratori miseri e poveri e le loro famiglie, senza alcuna fatica di medico o aiuto di servidore, per le vie e per li loro colti e per le case, di dì e di notte indifferentemente, non come uomini ma quasi come bestie morieno. Per la qual cosa essi, così nelli loro costumi come i cittadini divenuti lascivi, di niuna lor cosa o faccenda curavano; anzi tutti, quasi quel giorno nel quale si vedevano esser venuti la morte aspettassero, non d'aiutare i futuri frutti delle bestie e delle terre e delle loro passate fatiche, ma di consumare quegli che si trovavano presenti si sforzavano con ogni ingegno. Per che adivenne i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli e i cani medesimi fedelissimi agli uomini, fuori delle proprie case cacciati, per li campi (dove ancora le biade abbandonate erano, senza essere, non che raccolte ma pur segate) come meglio piaceva loro se n'andavano. E molti, quasi come razionali, poi che pasciuti erano bene il giorno, la notte alle lor case senza alcuno correggimento di pastore si tornavano satolli.
Che più si può dire (lasciando stare il contado e alla città ritornando) se non che tanta e tal fu la crudeltà del cielo, e forse in parte quella degli uomini, che infra 'l marzo e il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità e per l'esser molti infermi mal serviti o abbandonati né lor bisogni per la paura ch'aveono i sani, oltre a centomilia creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti, che forse, anzi l'accidente mortifero, non si saria estimato tanti avervene dentro avuti? O quanti gran palagi, quante belle case, quanti nobili abituri per adietro di famiglie pieni, di signori e di donne, infino al menomo fante rimaser voti! O quante memorabili schiatte, quante ampissime eredità, quante famose ricchezze si videro senza successor debito rimanere! Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ipocrate o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co' lor parenti, compagni e amici, che poi la sera vegnente appresso nell'altro mondo cenaron con li lor passati!

TRASCRIZIONE IN ITALIANO MODERNO

Or dunque dico che eravamo nel 1348, quando nell’egregia città di Firenze, bellissima più di ogni altra città italiana, giunse la peste mortale: la quale, o per qualche congiuntura astrologica o perché mandata agli uomini dalla giusta ira di Dio a correzione delle nostre inique azioni, incominciata alcuni anni prima in Oriente, che fu privato di una innumerevole quantità di viventi, propagandosi da un luogo all’altro, si era miserabilmente diffusa verso l’Occidente. E non valendo contro di essa né senno né umano provvedimento, come fu quello operato da speciali ufficiali di pulire la città dalle molte immondizie, o quello di proibire l’ingresso in città a qualunque infermo e molti altri consigli dati per la salute pubblica, né le umili suppliche fatte più volte in forma di processioni, o come personali preghiere a Dio dalle persone devote, all’incirca all’inizio della primavera dell’anno detto in precedenza essa cominciò a mostrare orribilmente i suoi dolorosi effetti, e in maniera straordinaria. E non come aveva fatto in Oriente, dove a chiunque uscisse del sangue dal naso era segno di morte inevitabile: ma all’inizio del contagio spuntavano sia ai maschi sia alle femmine, o nell’inguine o sotto le ascelle, certi rigonfiamenti, che potevano crescere alcuni quanto una mela di media grossezza, altri quanto un uovo, e pure di più o di meno, che la gente del popolo chiamava gavaccioli (1). E dalle due parti del corpo che abbiamo detto in breve tempo cominciavano i gavaccioli mortiferi a nascere e a crescere in ogni parte: dopo di che tali sintomi si tramutavano in macchie nere o lividi, che comparivano a molti nelle braccia, nelle cosce e in qualsiasi altra parte del corpo, ad alcuni grandi ad altri piccoli ma numerosi. E come il gavacciolo inizialmente era stato indizio certissimo di morte, così lo erano questi a chiunque venissero.
Per curare tali infermità pareva che non valesse e non servisse alcun consiglio medico, né capacità di alcuna medicina: anzi, o che la natura del male non lo consentisse, o che l’ignoranza dei curatori (dei quali, oltre ai medici veri e propri, era cresciuto enormemente il numero, sia maschi sia femmine, i quali non avevano mai avuto alcuna conoscenza medica) non conoscesse le cause e di conseguenza i rimedi adatti, non solamente pochi guarivano, ma al contrario quasi tutti verso il terzo giorno dall’apparire dei sintomi descritti, chi prima e chi dopo e i più senza alcuna febbre o altra complicazione, morivano. E questa pestilenza fu di maggior forza in quanto essa dagli ammalati si propagava ai sani per il semplice vivere assieme, non diversamente da quanto fa il fuoco con le cose secche o unte che gli siano molto vicine. E peggio ancora: perché non solo parlare o stare con gli infermi dava ai sani infermità o causa di morte, ma anche il toccare i panni o qualunque altra cosa fosse stata toccata o adoperata dagli infermi sembrava portare con sé quell’infermità a colui che avesse toccato quella qualunque altra cosa. È spaventoso udire ciò che devo dire: il che, se non fosse stato veduto dagli occhi di molti e dai miei stessi, farei fatica a crederlo, nonché scriverlo, anche se l’avessi udito da persona degna di fede. Dico che fu tale l’efficacia della pestilenza nel propagarsi dall’uno all’altro, che non solamente da uomo a uomo, ma anche, e questo è molto più straordinario, accadde che una cosa appartenuta a un infermo, o a un morto di tale infermità, se toccata da un animale, non solo lo contaminava di tale infermità, ma addirittura lo uccidesse in poco tempo. Della qual cosa io stesso con i miei occhi, come ho detto prima, ho fatto esperienza: essendo stati gettati sulla pubblica via gli stracci d’un pover’uomo morto di peste e imbattendosi in essi due porci, i quali secondo il loro costume presili prima con il muso e strofinatili poi con i denti sulle proprie guance, poco appresso, dopo qualche contorsione, come se avessero preso del veleno, entrambi sopra quegli stracci buttati in strada per loro sventura caddero morti in terra.
Da questi fatti e da altri assai a questi simili o peggiori nacquero in coloro che rimanevano vivi diverse paure e immaginazioni, le quali tendevano tutte a un fine assai crudele, cioè quello di schifare ed evitare gli infermi e le loro cose; e così facendo, ciascuno credeva di non ammalarsi. C’erano alcuni, che erano del parere che il vivere moderatamente evitando ogni cosa superflua avrebbe loro permesso di resistere alla malattia: riunitisi tra loro, vivevano separati da tutti gli altri, radunati e rinchiusi in quelle case in cui non ci fosse alcun malato e si potesse vivere meglio, dimoravano in esse nutrendosi con temperanza di cibi delicatissimi e ottimi vini, fuggendo ogni stravizio, senza farsi raccontare da alcuno e senza voler sentire da fuori alcuna notizia di morti o di infermi, godendo dei suoni e di quei pochi piaceri che riuscivano a procurarsi. Altri, di opinione contraria, affermavano che bere assai e godere e andare in giro cantando e divertirsi e soddisfare ogni appetito che si potesse e ridere di ciò che accadeva e beffarsene fosse la medicina più sicura per tanto male: e così come lo affermavano, lo facevano per quanto potevano, di giorno e di notte, ora andando in una taverna ora in un’altra, bevendo senza freni e senza misura, soprattutto nelle case altrui, solamente che avessero udito che v’erano cose che potevano piacer loro. E potevano farlo facilmente, dato che ciascuno, quasi non dovesse più vivere, aveva messo in abbandono le sue cose, oltre sé stesso: per la qual cosa la maggior parte delle case erano divenute comuni e poteva farne uso lo straniero, solo che vi capitasse, come l’avrebbe fatto il padrone; e nonostante questo proponimento bestiale fuggivano sempre gli infermi per quanto potevano. E in tanta afflizione e miseria della nostra città la reverenda autorità delle leggi, sia quelle divine che quelle umane, era quasi caduta e distrutta tutta per i ministri e gli esecutori di esse, i quali, così come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi, o erano rimasti sprovvisti di dipendenti, cosicché non potevano svolgere alcun ufficio; per la qual cosa a ciascuno era lecito fare ciò che era in grado di fare. Molti altri seguivano, tra le due sopra descritte, una via di mezzo, non limitandosi nelle vivande quanto i primi, né abbondando nel bere e nelle altre dissolutezze quanto i secondi, ma usando le cose a sufficienza secondo gli appetiti e senza chiudersi in casa andavano in giro, portando in mano dei fiori, o erbe odorose e spezie di tipi diversi, annusandole spesso, poiché stimavano che era un’ottima cosa confortare il cervello con quegli odori, essendo che tutta l’aria pareva impregnata e puzzolente per l’odore dei morti e della malattia e delle medicine. Alcuni erano di sentimenti ancora più crudeli, sebbene più sicuri, e dicevano che nessun’altra medicina era migliore contro le pestilenze che il fuggire davanti a loro: e mossi da questi argomenti, non curandosi di niente se non di sé, molti uomini e donne abbandonarono la propria città, le proprie case, i loro luoghi e i loro parenti e le loro cose, cercando la campagna, quella di altre città o almeno quella di Firenze, quasi l’ira di Dio non potesse seguirli per punire le iniquità degli uomini con quella pestilenza, ma colpisse solo coloro che si trovavano dentro le mura della loro città, pensando che nessuno sarebbe sopravvissuto e fosse giunta per loro l’ultima ora.
E se questi che avevano opinioni diverse non morivano tutti, non per questo tutti sopravvivevano: anzi, molti si ammalavano e ovunque, avendo essi stessi, quand’erano sani, datone l’esempio a coloro che rimanevano sani, languivano abbandonati. Lasciamo stare che un cittadino avesse schifo dell’altro e che nessun vicino avesse cura dell’altro e che i parenti si facessero visita rare volte, se non mai e di lontano: questa tribolazione era entrata nei petti di uomini e donne con tale spavento, che un fratello abbandonava l’altro, e lo zio il nipote, e la sorella il fratello e spesse volte la donna il marito; e, cosa ancor più grave e quasi incredibile, i padri e le madri i figlioli, quasi non fossero loro, schifavano di visitare e servire. Per cui a coloro, ed erano una moltitudine inestimabile, di maschi e di femmine, che si ammalavano, non rimaneva altro sussidio che la carità degli amici (ma questi furono pochi) o l’avarizia di servitori, i quali, attratti da grossi e sconvenienti salari, servivano quantunque non l’avessero mai fatto prima: la maggioranza di essi erano uomini e donne di indole rozza, e i più non pratici a tali servizi, tanto che il loro servizio si limitava a porgere qualcosa che l’infermo chiedesse o a guardarlo morire; e molte volte tale servizio procurava loro un guadagno, ma anche la morte. Dal fatto che gli infermi fossero abbandonati dai vicini, dai parenti e dagli amici e ci fosse scarsità di servitori, si diffuse un’usanza prima di allora quasi mai udita: quella che nessuna donna, quantunque leggiadra o bella o gentile, ammalandosi non si curasse d’avere ai suoi servizi un uomo, di qualunque tipo o giovane o altro, e a lui senza alcuna vergogna non lasciasse vedere ogni parte del corpo come avrebbe fatto con un’altra donna, solo che la necessità della sua infermità lo richiedesse; il che, in quelle che guarirono, fu motivo forse di minore onestà, nei giorni che sarebbero seguiti. E oltre a questo ne conseguì la morte di molti che, se fossero stati aiutati, sarebbero rimasti vivi; sta di fatto che, a causa dell’insufficienza di servizi, che gli infermi non poterono avere, e a causa della forza della pestilenza, era tanta in città la moltitudine di quelli che morivano di giorno e di notte, che era incredibile sentirlo dire, nonché a vedersi. Perché, quasi necessariamente, tra coloro che rimanevano vivi nacquero abitudini contrarie a quelle prime dei cittadini.
Era usanza un tempo, così come vediamo ancora oggi, che le donne, parenti o vicine, si radunassero nella casa di un morto e lo piangessero assieme alle parenti più prossime; e che d’altra parte davanti alla casa del morto si radunassero coi parenti stretti i vicini di casa e molti altri cittadini, e, secondo il rango del morto, vi venissero i chierici; e che il morto fosse poi portato, in spalla dai suoi pari, con un funerale di candele e canti, nella chiesa da lui scelta prima di morire. Ma queste usanze, quando la ferocia della pestilenza cominciò a dilagare, scomparvero del tutto o in maggior parte e nuove usanze sopravvennero al loro posto. Per cui, non solo le persone morivano senza avere molte donne attorno, ma ce n’erano molte che trapassavano da questa vita senza alcun testimone: e pochissimi erano coloro ai quali fossero concessi i pianti pietosi e le lacrime amare dei congiunti, anzi, al loro posto, si usavano per molti risa e motti e festeggiare di lieta compagnia; usanza che le donne, dimentiche della pietà femminile, avevano appreso per la propria salute. Ed erano rari coloro i cui corpi fossero accompagnati in chiesa da dieci o dodici dei suoi vicini; e a portare la bara non erano i cari e stimati concittadini del defunto, bensì un insieme di beccamorti di gente plebea (che si facevano chiamare becchini e facevano questo servizio a pagamento); e costoro, con frettolosi passi, conducevano il morto non alla chiesa che egli aveva disposto prima di morire, ma a quella più vicina il più delle volte, dietro a quattro o a sei chierici con pochi ceri e a volte senza alcuno; i quali chierici, con l’aiuto dei detti becchini, senza faticarsi troppo in offici lunghi e solenni, lo mettevano in qualunque sepoltura trovassero libera.
Per gli appartenenti alle classi più basse, e forse in gran parte anche per quelle di mezzo, lo spettacolo era molto più miserevole: in quanto costoro, costretti nelle loro case o da speranza o da povertà, rimanendo tutti vicini, si ammalavano a migliaia ogni giorno e, non avendo alcun servizio o aiuto, quasi senza scampo, morivano tutti. E ce n’erano molti che morivano nella pubblica strada, di giorno e di notte, e molti che, se morivano in casa, facevano capire ai vicini di essere morti prima con la puzza dei loro cadaveri che altrimenti: tutto era pieno di costoro e degli altri che morivano ovunque. Nella maggior parte dei casi i vicini si comportavano allo stesso modo, spinti non meno dalla paura di essere contagiati, che dalla carità verso i deceduti. Essi, da sé stessi o con l’aiuto di alcuni portatori, quando ne trovassero, traevano dalle loro case i corpi dei morti e li deponevano davanti ai loro usci, dove, specialmente di mattina, avrebbero potuto vederli, e in gran numero, coloro che passavano: quindi, fatte venire delle bare, o in mancanza di esse delle tavole, ve li deponevano. E spesso accadde, e non una volta sola, che una bara portasse insieme due o tre cadaveri, la moglie col marito, due o tre fratelli, il padre con il figlio, e altri gruppi di tal genere. E infinite volte accadde che, mentre due preti con una croce ciascuno camminavano davanti, dietro seguissero tre o quattro bare, portate da dei portatori: e mentre i preti credevano di andare a seppellire un morto, in realtà ne avevano sei o otto e talvolta anche di più. E questi morti non erano onorati né da una lacrima, né da un lume, né da un compagno, anzi la cosa era giunta a tal punto, che non ci si curava degli uomini che morivano, più di quanto oggi si farebbe con le capre: perché apparve molto chiaramente che la grandezza dei mali aveva reso accorti e rassegnati anche gli ignoranti, di fronte a quelle disgrazie le quali i piccoli e rari danni del corso naturale delle cose non avevano potuto insegnare neppure ai savi a sopportare con pazienza. Poiché alla moltitudine dei cadaveri, che venivano portati in ogni chiesa ogni giorno e a qualunque ora, non bastava la terra consacrata ove seppellirli, soprattutto se si fosse voluto dare a ciascuno un posto proprio secondo l’antico costume, si cominciò a costruire nei cimiteri delle chiese, dato che ogni parte era occupata, fosse grandissime, nelle quali si mettevano i morti a centinaia: e stipati in esse, come nelle navi si mettono le mercanzie strato su strato, si ricoprivano con poca terra fino a giungere al sommo della fossa.
E per non andare cercando ogni particolare delle miserie passate accadute per la città, dico solo che, se un così nemico tempo corse per quella, non diversamente avvenne nelle campagne. Dove, lasciando stare i castelli, che in piccolo erano simili alla città, nei cascinali isolati e nei campi i lavoratori miseri e poveri e le loro famiglie, senza alcuna fatica di medico o aiuto di servitore, per le vie e nei loro campi coltivati e nelle case, indifferentemente di giorno e di notte, non come uomini ma quasi come bestie morivano; per cui essi, divenuti trascurati nei loro costumi come gli abitanti della città, non si curavano più di alcuna loro cosa o faccenda: anzi, tutti, quasi aspettassero la morte, si sforzavano con ogni mezzo non di aiutare i frutti futuri delle bestie e delle terre e delle loro passate fatiche, ma di consumare quelli presenti. Perciò accadde che i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli e gli stessi cani fedelissimi agli uomini, cacciati fuori dalle loro case, se ne andassero come meglio piaceva a loro per i campi, dove i foraggi erano abbandonati, senza essere non dico raccolti ma neppure mietuti; e molti di questi animali, come se fossero forniti di raziocinio, dove essersi ben pasciuti di giorno, se ne tornavano sazi la notte alle loro case senza che un pastore li guidasse.
Che si può dire di più, lasciando stare il contado e ritornando alla città, se non che tanta e tale fu la crudeltà del cielo, e forse in parte quella degli uomini, che tra il marzo e il luglio seguente, vuoi per la forza della pestifera infermità, vuoi per il fatto che molti infermi furono mal curati o abbandonati nei loro bisogni per la paura che avevano i sani, oltre centomila esseri umani si stima siano stati privati della vita per certo dentro le mura della città di Firenze, che forse, prima di questo mortale avvenimento, non si sarebbe nemmeno pensato che ci vivessero? O quanti grandi palazzi, quante belle case, quante nobili abitazioni prima piene di famiglie, rimasero vuoti fino al più umile servo! O quante memorabili stirpi, quante enormi eredità, quante famose ricchezze si videro restare senza il debito successore! Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, che non altri, ma addirittura Galeno, Ippocrate o Esculapio (2) avrebbero giudicati sanissimi, la mattina desinarono con i loro parenti, compagni e amici, e la sera successiva cenarono con i loro defunti nell’altro mondo!
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(1) Oggi li chiamiamo bubboni
(2) Galeno e Ippocrate furono due famosi medici greci dell’antichità; Esculapio (o Asclepio) è un personaggio della mitologia greca, che si diceva esperto di medicina

La peste nera in una incisione forse ottocentesca



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