Il Decameron narra che, per sfuggire alla
peste che imperversa a Firenze, sette giovani donne, di età compresa tra 18 e
28 anni, trovatesi a pregare nella chiesa di Santa Maria Novella, decidono di
fuggire dalla città e riparare in una casa di campagna, assieme a tre giovani,
fidanzati a tre di loro. Assieme, i dieci giovani passeranno in campagna dieci
giorni (Decameron significa appunto “dieci giorni”) e trascorreranno il tempo
raccontandosi dieci novelle al giorno, cosicché alla fine le storie narrate
saranno cento. Giovanni Boccaccio nelle prime pagine della sua opera descrive
l’epidemia di peste che ha colpito Firenze e che spinge i dieci giovani ad
abbandonare la città.
Ne trovi di seguito la versione originale,
nell’edizione curata da Vittore Branca (Einaudi, 1980), e una mia trascrizione
in italiano moderno, con qualche lieve licenza.
Dico adunque che già erano gli anni della
fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto,
quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn'altra italica bellissima,
pervenne la mortifera pestilenza: la quale, per operazion de' corpi superiori o
per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra
i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle
d'inumerabile quantità de' viventi avendo private, senza ristare d'un luogo in
uno altro continuandosi, verso l'Occidente miserabilmente s'era ampliata. E in
quella non valendo alcuno senno né umano provedimento, per lo quale fu da molte
immondizie purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati e vietato l'entrarvi
dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazion della sanità, né
ancora umili supplicazioni non una volta ma molte e in processioni ordinate, in
altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della
primavera dell'anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e
in miracolosa maniera, a dimostrare. E non come in Oriente aveva fatto, dove a
chiunque usciva il sangue del naso era manifesto segno di inevitabile morte: ma
nascevano nel cominciamento d'essa a' maschi e alle femine parimente o nella
anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano
come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcun' altre meno,
le quali i volgari nominavan gavoccioli. E dalle due parti del corpo predette
infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero
indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire: e da questo
appresso s'incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in
macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna
altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e
spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo
indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno.
A cura delle quali infermità né consiglio
di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto:
anzi, o che natura del malore nol patisse o che la ignoranza de' medicanti (de'
quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d'uomini senza
avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto
grandissimo) non conoscesse da che si movesse e per consequente debito
argomento non vi prendesse, non solamente pochi ne guarivano, anzi quasi tutti
infra 'l terzo giorno dalla apparizione de' sopra detti segni, chi più tosto e
chi meno e i più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano. E fu questa
pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagli infermi di quella per lo
comunicare insieme s'avventava a' sani, non altramenti che faccia il fuoco alle
cose secche o unte quando molto gli sono avvicinate. E più avanti ancora ebbe
di male: ché non solamente il parlare e l'usare cogli infermi dava a' sani
infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque
altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale
infermità nel toccator transportare. Maravigliosa cosa è da udire quello che io
debbo dire: il che, se dagli occhi di molti e da' miei non fosse stato veduto,
appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da
fededegna udito l'avessi. Dico che di tanta efficacia fu la qualità della
pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno a altro, che non solamente l'uomo
all'uomo, ma questo, che è molto più, assai volte visibilmente fece, cioè che
la cosa dell'uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro
animale fuori della spezie dell'uomo, non solamente della infermità il
contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse. Di che gli occhi
miei, sì come poco davanti è detto, presero tra l'altre volte un dì così fatta
esperienza: che, essendo gli stracci d'un povero uomo da tale infermità morto
gittati nella via publica e avvenendosi a essi due porci, e quegli secondo il
lor costume prima molto col grifo e poi co' denti presigli e scossiglisi alle
guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento, come se veleno
avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra.
Dalle quali cose e da assai altre a queste
simiglianti o maggiori nacquero diverse paure e immaginazioni in quegli che
rimanevano vivi, e tutti quasi a un fine tiravano assai crudele era di schifare
e di fuggire gl'infermi e le lor cose; e così faccendo, si credeva ciascuno
medesimo salute acquistare. E erano alcuni, li quali avvisavano che il viver
moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità avesse molto a così fatto
accidente resistere; e fatta brigata, da ogni altro separati viveano, e in
quelle case ricogliendosi e racchiudendosi, dove niuno infermo fosse e da viver
meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando e ogni
lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare a alcuno o volere di fuori di morte
o d'infermi alcuna novella sentire, con suoni e con quegli piaceri che aver
poteano si dimovano. Altri, in contraria oppinion tratti, affermavano il bere
assai e il godere e l'andar cantando attorno e sollazzando e il sodisfare
d'ogni cosa all'appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e
beffarsi esser medicina certissima a tanto male; e così come il dicevano
mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora
a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto più ciò per
l'altrui case faccendo, solamente che cose vi sentissero che lor venissero a
grado o in piacere E ciò potevan far di leggiere, per ciò che ciascun, quasi non
più viver dovesse, aveva, sì come sé, le sue cose messe in abbandono; di che le
più delle case erano divenute comuni, e così l'usava lo straniere, pure che ad
esse s'avvenisse, come l'avrebbe il proprio signore usate; e con tutto questo
proponimento bestiale sempre gl'infermi fuggivano a lor potere. E in tanta
afflizione e miseria della nostra città era la reverenda autorità delle leggi,
così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri e
esecutori di quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti o morti o
infermi o sì di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare; per
la qual cosa era a ciascun licito quanto a grado gli era d'adoperare. Molti
altri servavano, tra questi due di sopra detti, una mezzana via, non strignendosi
nelle vivande quanto i primi né nel bere e nell'altre dissoluzioni allargandosi
quanto i secondi, ma a sofficienza secondo gli appetiti le cose usavano e senza
rinchiudersi andavano a torno, portando nelle mani chi fiori, chi erbe
odorifere e chi diverse maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso,
estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare, con ciò
fosse cosa che l'aere tutto paresse dal puzzo de' morti corpi e delle infermità
e delle medicine compreso e puzzolente. Alcuni erano di più crudel sentimento,
come che per avventura più fosse sicuro, dicendo niuna altra medicina essere
contro alle pestilenze migliore né così buona come il fuggir loro davanti; e da
questo argomento mossi, non curando d'alcuna cosa se non di sé, assai e uomini
e donne abbandonarono la propia città, le propie case, i lor luoghi e i lor
parenti e le lor cose, e cercarono l'altrui o almeno il lor contado, quasi
l'ira di Dio a punire le iniquità degli uomini con quella pestilenza non dove fossero
procedesse, ma solamente a coloro opprimere li quali dentro alle mura della lor
città si trovassero, commossa intendesse; o quasi avvisando niuna persona in
quella dover rimanere e la sua ultima ora esser venuta.
E come che questi così variamente oppinanti
non morissero tutti, non per ciò tutti campavano: anzi, infermandone di
ciascuna molti e in ogni luogo, avendo essi stessi, quando sani erano, essemplo
dato a coloro che sani rimanevano, quasi abbandonati per tutto languieno. E
lasciamo stare che l'uno cittadino l'altro schifasse e quasi niuno vicino
avesse dell'altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero
e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata né petti
degli uomini e delle donne, che l'un fratello l'altro abbandonava e il zio il
nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che
maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi
loro non fossero, di visitare e di servire schifavano. Per la qual cosa a
coloro, de' quali era la moltitudine inestimabile, e maschi e femine, che
infermavano, niuno altro sussidio rimase che o la carità degli amici (e di
questi fur pochi) o l'avarizia de' serventi, li quali da grossi salari e
sconvenevoli tratti servieno, quantunque per tutto ciò molti non fossero
divenuti: e quelli cotanti erano uomini o femine di grosso ingegno, e i più di
tali servigi non usati, li qual niuna altra cosa servieno che di porgere alcune
cose dagl'infermi addomandate o di riguardare quando morieno; e, servendo in
tal servigio, sé molte volte col guadagno perdeano. E da questo essere
abbandonati gli infermi da' vicini, da' parenti e dagli amici e avere scarsità
di serventi, discorse uno uso quasi davanti mai non udito: che niuna, quantunque
leggiadra o bella o gentil donna fosse, infermando, non curava d'avere a' suoi
servigi uomo, egli si fosse o giovane o altro, e a lui senza alcuna vergogna
ogni parte del corpo aprire non altrimenti che a una femina avrebbe fatto, solo
che la necessità della sua infermità il richiedesse; il che, in quelle che ne
guerirono, fu forse di minore onestà, nel tempo che succedette, cagione. E
oltre a questo ne seguio la morte di molti che per avventura, se stati fossero
atati, campati sarieno; di che, tra per lo difetto degli opportuni servigi, li
quali gl'infermi aver non poteano, e per la forza della pestilenza, era tanta
nella città la moltitudine che di dì e di notte morieno, che uno stupore era a
udir dire, non che a riguardarlo. Per che, quasi di necessità, cose contrarie
a' primi costumi de' cittadini nacquero tra quali rimanean vivi.
Era usanza (sì come ancora oggi veggiamo
usare) che le donne parenti e vicine nella casa del morto si ragunavano e quivi
con quelle che più gli appartenevano piagnevano; e d'altra parte dinanzi alla
casa del morto co' suoi prossimi si ragunavano i suoi vicini e altri cittadini
assai, e secondo la qualità del morto vi veniva il chericato; ed egli sopra gli
omeri sé suoi pari, con funeral pompa di cera e di canti, alla chiesa da lui
prima eletta anzi la morte n'era portato. Le quali cose, poi che a montar
cominciò la ferocità della pestilenza tutto o in maggior parte quasi cessarono
e altre nuove in lor luogo ne sopravennero. Per ciò che, non solamente senza
aver molte donne da torno morivan le genti, ma assai n'erano di quelli che di
questa vita senza testimonio trapassavano; e pochissimi erano coloro a' quali i
pietosi pianti e l'amare lagrime de' suoi congiunti fossero concedute, anzi in
luogo di quelle s'usavano per li più risa e motti e festeggiar compagnevole; la
quale usanza le donne, in gran parte proposta la donnesca pietà per la salute
di loro, avevano ottimamente appresa. Ed erano radi coloro, i corpi de' quali
fosser più che da un diece o dodici de' suoi vicini alla chiesa acompagnati; li
quali non gli orrevoli e cari cittadini sopra gli omeri portavano, ma una
maniera di beccamorti sopravenuti di minuta gente, che chiamar si facevan
becchini, la quale questi servigi prezzolata faceva, sottentravano alla bara; e
quella con frettolosi passi, non a quella chiesa che esso aveva anzi la morte
disposto ma alla più vicina le più volte il portavano, dietro a quattro o a sei
cherici con poco lume e tal fiata senza alcuno; li quali con l'aiuto de' detti
becchini, senza faticarsi in troppo lungo uficio o solenne, in qualunque
sepoltura disoccupata trovavano più tosto il mettevano.
Della minuta gente, e forse in gran parte
della mezzana, era il ragguardamento di molto maggior miseria pieno; per ciò
che essi, il più o da speranza o da povertà ritenuti nelle lor case, nelle lor
vicinanze standosi, a migliaia per giorno infermavano; e non essendo né serviti
né atati d'alcuna cosa, quasi senza alcuna redenzione, tutti morivano. E assai
n'erano che nella strada pubblica o di dì o di notte finivano, e molti, ancora che
nelle case finissero, prima col puzzo de lor corpi corrotti che altramenti
facevano a' vicini sentire sé esser morti; e di questi e degli altri che per
tutto morivano, tutto pieno. Era il più da' vicini una medesima maniera
servata, mossi non meno da tema che la corruzione de' morti non gli offendesse,
che da carità la quale avessero a' trapassati. Essi, e per sé medesimi e con
l'aiuto d'alcuni portatori, quando aver ne potevano, traevano dalle lor case li
corpi de' già passati, e quegli davanti alli loro usci ponevano, dove, la
mattina spezialmente, n'avrebbe potuti veder senza numero chi fosse attorno
andato: e quindi fatte venir bare, (e tali furono, che, per difetto di quelle,
sopra alcuna tavole) ne portavano. Né fu una bara sola quella che due o tre ne
portò insiememente, né avvenne pure una volta, ma se ne sarieno assai potute
annoverare di quelle che la moglie e 'l marito, di due o tre fratelli, o il
padre e il figliuolo, o così fattamente ne contenieno. E infinite volte avvenne
che, andando due preti con una croce per alcuno, si misero tre o quatro bare,
dà portatori portate, di dietro a quella: e, dove un morto credevano avere i
preti a sepellire, n'avevano sei o otto e tal fiata più. Né erano per ciò
questi da alcuna lagrima o lume o compagnia onorati; anzi era la cosa pervenuta
a tanto, che non altramenti si curava degli uomini che morivano, che ora si
curerebbe di capre; per che assai manifestamente apparve che quello che il
naturale corso delle cose non avea potuto con piccoli e radi danni a' savi
mostrare doversi con pazienza passare, la grandezza de' mali eziandio i
semplici far di ciò scorti e non curanti. Alla gran moltitudine de' corpi
mostrata, che a ogni chiesa ogni dì e quasi ogn'ora concorreva portata, non
bastando la terra sacra alle sepolture, e massimamente volendo dare a ciascun
luogo proprio secondo l'antico costume, si facevano per gli cimiterii delle
chiese, poi che ogni parte era piena, fosse grandissime nelle quali a centinaia
si mettevano i sopravegnenti: e in quelle stivati, come si mettono le
mercatantie nelle navi a suolo a suolo, con poca terra si ricoprieno infino a
tanto che la fossa al sommo si pervenia.
E acciò che dietro a ogni particularità le
nostre passate miserie per la città avvenute più ricercando non vada, dico che,
così inimico tempo correndo per quella, non per ciò meno d' alcuna cosa
risparmiò il circustante contado, nel quale, (lasciando star le castella, che
erano nella loro piccolezza alla città) per le sparte ville e per li campi i
lavoratori miseri e poveri e le loro famiglie, senza alcuna fatica di medico o
aiuto di servidore, per le vie e per li loro colti e per le case, di dì e di
notte indifferentemente, non come uomini ma quasi come bestie morieno. Per la
qual cosa essi, così nelli loro costumi come i cittadini divenuti lascivi, di
niuna lor cosa o faccenda curavano; anzi tutti, quasi quel giorno nel quale si
vedevano esser venuti la morte aspettassero, non d'aiutare i futuri frutti
delle bestie e delle terre e delle loro passate fatiche, ma di consumare quegli
che si trovavano presenti si sforzavano con ogni ingegno. Per che adivenne i
buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli e i cani medesimi
fedelissimi agli uomini, fuori delle proprie case cacciati, per li campi (dove
ancora le biade abbandonate erano, senza essere, non che raccolte ma pur
segate) come meglio piaceva loro se n'andavano. E molti, quasi come razionali,
poi che pasciuti erano bene il giorno, la notte alle lor case senza alcuno
correggimento di pastore si tornavano satolli.
Che più si può dire (lasciando stare il
contado e alla città ritornando) se non che tanta e tal fu la crudeltà del
cielo, e forse in parte quella degli uomini, che infra 'l marzo e il prossimo
luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità e per l'esser molti
infermi mal serviti o abbandonati né lor bisogni per la paura ch'aveono i sani,
oltre a centomilia creature umane si crede per certo dentro alle mura della
città di Firenze essere stati di vita tolti, che forse, anzi l'accidente
mortifero, non si saria estimato tanti avervene dentro avuti? O quanti gran
palagi, quante belle case, quanti nobili abituri per adietro di famiglie pieni,
di signori e di donne, infino al menomo fante rimaser voti! O quante memorabili
schiatte, quante ampissime eredità, quante famose ricchezze si videro senza
successor debito rimanere! Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti
leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ipocrate o Esculapio
avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co' lor parenti, compagni e
amici, che poi la sera vegnente appresso nell'altro mondo cenaron con li lor
passati!
TRASCRIZIONE IN ITALIANO MODERNO
Or dunque dico che eravamo nel 1348,
quando nell’egregia città di Firenze, bellissima più di ogni altra città italiana,
giunse la peste mortale: la quale, o per qualche congiuntura astrologica o
perché mandata agli uomini dalla giusta ira di Dio a correzione delle nostre
inique azioni, incominciata alcuni anni prima in Oriente, che fu privato di una
innumerevole quantità di viventi, propagandosi da un luogo all’altro, si era
miserabilmente diffusa verso l’Occidente. E non valendo contro di essa né senno
né umano provvedimento, come fu quello operato da speciali ufficiali di pulire
la città dalle molte immondizie, o quello di proibire l’ingresso in città a
qualunque infermo e molti altri consigli dati per la salute pubblica, né le
umili suppliche fatte più volte in forma di processioni, o come personali
preghiere a Dio dalle persone devote, all’incirca all’inizio della primavera
dell’anno detto in precedenza essa cominciò a mostrare orribilmente i suoi
dolorosi effetti, e in maniera straordinaria. E non come aveva fatto in
Oriente, dove a chiunque uscisse del sangue dal naso era segno di morte
inevitabile: ma all’inizio del contagio spuntavano sia ai maschi sia alle
femmine, o nell’inguine o sotto le ascelle, certi rigonfiamenti, che potevano
crescere alcuni quanto una mela di media grossezza, altri quanto un uovo, e
pure di più o di meno, che la gente del popolo chiamava gavaccioli (1). E dalle
due parti del corpo che abbiamo detto in breve tempo cominciavano i gavaccioli
mortiferi a nascere e a crescere in ogni parte: dopo di che tali sintomi si
tramutavano in macchie nere o lividi, che comparivano a molti nelle braccia,
nelle cosce e in qualsiasi altra parte del corpo, ad alcuni grandi ad altri
piccoli ma numerosi. E come il gavacciolo inizialmente era stato indizio
certissimo di morte, così lo erano questi a chiunque venissero.
Per curare tali infermità pareva che non
valesse e non servisse alcun consiglio medico, né capacità di alcuna medicina:
anzi, o che la natura del male non lo consentisse, o che l’ignoranza dei
curatori (dei quali, oltre ai medici veri e propri, era cresciuto enormemente
il numero, sia maschi sia femmine, i quali non avevano mai avuto alcuna
conoscenza medica) non conoscesse le cause e di conseguenza i rimedi adatti,
non solamente pochi guarivano, ma al contrario quasi tutti verso il terzo giorno
dall’apparire dei sintomi descritti, chi prima e chi dopo e i più senza alcuna
febbre o altra complicazione, morivano. E questa pestilenza fu di maggior forza
in quanto essa dagli ammalati si propagava ai sani per il semplice vivere
assieme, non diversamente da quanto fa il fuoco con le cose secche o unte che
gli siano molto vicine. E peggio ancora: perché non solo parlare o stare con
gli infermi dava ai sani infermità o causa di morte, ma anche il toccare i
panni o qualunque altra cosa fosse stata toccata o adoperata dagli infermi
sembrava portare con sé quell’infermità a colui che avesse toccato quella
qualunque altra cosa. È spaventoso udire ciò che devo dire: il che, se non
fosse stato veduto dagli occhi di molti e dai miei stessi, farei fatica a crederlo,
nonché scriverlo, anche se l’avessi udito da persona degna di fede. Dico che fu
tale l’efficacia della pestilenza nel propagarsi dall’uno all’altro, che non
solamente da uomo a uomo, ma anche, e questo è molto più straordinario, accadde
che una cosa appartenuta a un infermo, o a un morto di tale infermità, se
toccata da un animale, non solo lo contaminava di tale infermità, ma
addirittura lo uccidesse in poco tempo. Della qual cosa io stesso con i miei
occhi, come ho detto prima, ho fatto esperienza: essendo stati gettati sulla
pubblica via gli stracci d’un pover’uomo morto di peste e imbattendosi in essi
due porci, i quali secondo il loro costume presili prima con il muso e strofinatili
poi con i denti sulle proprie guance, poco appresso, dopo qualche contorsione,
come se avessero preso del veleno, entrambi sopra quegli stracci buttati in
strada per loro sventura caddero morti in terra.
Da questi fatti e da altri assai a questi
simili o peggiori nacquero in coloro che rimanevano vivi diverse paure e
immaginazioni, le quali tendevano tutte a un fine assai crudele, cioè quello di
schifare ed evitare gli infermi e le loro cose; e così facendo, ciascuno
credeva di non ammalarsi. C’erano alcuni, che erano del parere che il vivere
moderatamente evitando ogni cosa superflua avrebbe loro permesso di resistere
alla malattia: riunitisi tra loro, vivevano separati da tutti gli altri,
radunati e rinchiusi in quelle case in cui non ci fosse alcun malato e si
potesse vivere meglio, dimoravano in esse nutrendosi con temperanza di cibi
delicatissimi e ottimi vini, fuggendo ogni stravizio, senza farsi raccontare da
alcuno e senza voler sentire da fuori alcuna notizia di morti o di infermi,
godendo dei suoni e di quei pochi piaceri che riuscivano a procurarsi. Altri,
di opinione contraria, affermavano che bere assai e godere e andare in giro
cantando e divertirsi e soddisfare ogni appetito che si potesse e ridere di ciò
che accadeva e beffarsene fosse la medicina più sicura per tanto male: e così
come lo affermavano, lo facevano per quanto potevano, di giorno e di notte, ora
andando in una taverna ora in un’altra, bevendo senza freni e senza misura,
soprattutto nelle case altrui, solamente che avessero udito che v’erano cose
che potevano piacer loro. E potevano farlo facilmente, dato che ciascuno, quasi
non dovesse più vivere, aveva messo in abbandono le sue cose, oltre sé stesso:
per la qual cosa la maggior parte delle case erano divenute comuni e poteva
farne uso lo straniero, solo che vi capitasse, come l’avrebbe fatto il padrone;
e nonostante questo proponimento bestiale fuggivano sempre gli infermi per
quanto potevano. E in tanta afflizione e miseria della nostra città la
reverenda autorità delle leggi, sia quelle divine che quelle umane, era quasi
caduta e distrutta tutta per i ministri e gli esecutori di esse, i quali, così
come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi, o erano rimasti
sprovvisti di dipendenti, cosicché non potevano svolgere alcun ufficio; per la
qual cosa a ciascuno era lecito fare ciò che era in grado di fare. Molti altri
seguivano, tra le due sopra descritte, una via di mezzo, non limitandosi nelle
vivande quanto i primi, né abbondando nel bere e nelle altre dissolutezze
quanto i secondi, ma usando le cose a sufficienza secondo gli appetiti e senza
chiudersi in casa andavano in giro, portando in mano dei fiori, o erbe odorose
e spezie di tipi diversi, annusandole spesso, poiché stimavano che era
un’ottima cosa confortare il cervello con quegli odori, essendo che tutta
l’aria pareva impregnata e puzzolente per l’odore dei morti e della malattia e
delle medicine. Alcuni erano di sentimenti ancora più crudeli, sebbene più
sicuri, e dicevano che nessun’altra medicina era migliore contro le pestilenze
che il fuggire davanti a loro: e mossi da questi argomenti, non curandosi di
niente se non di sé, molti uomini e donne abbandonarono la propria città, le
proprie case, i loro luoghi e i loro parenti e le loro cose, cercando la
campagna, quella di altre città o almeno quella di Firenze, quasi l’ira di Dio
non potesse seguirli per punire le iniquità degli uomini con quella pestilenza,
ma colpisse solo coloro che si trovavano dentro le mura della loro città,
pensando che nessuno sarebbe sopravvissuto e fosse giunta per loro l’ultima
ora.
E se questi che avevano opinioni diverse
non morivano tutti, non per questo tutti sopravvivevano: anzi, molti si
ammalavano e ovunque, avendo essi stessi, quand’erano sani, datone l’esempio a
coloro che rimanevano sani, languivano abbandonati. Lasciamo stare che un
cittadino avesse schifo dell’altro e che nessun vicino avesse cura dell’altro e
che i parenti si facessero visita rare volte, se non mai e di lontano: questa
tribolazione era entrata nei petti di uomini e donne con tale spavento, che un
fratello abbandonava l’altro, e lo zio il nipote, e la sorella il fratello e
spesse volte la donna il marito; e, cosa ancor più grave e quasi incredibile, i
padri e le madri i figlioli, quasi non fossero loro, schifavano di visitare e
servire. Per cui a coloro, ed erano una moltitudine inestimabile, di maschi e
di femmine, che si ammalavano, non rimaneva altro sussidio che la carità degli
amici (ma questi furono pochi) o l’avarizia di servitori, i quali, attratti da
grossi e sconvenienti salari, servivano quantunque non l’avessero mai fatto
prima: la maggioranza di essi erano uomini e donne di indole rozza, e i più non
pratici a tali servizi, tanto che il loro servizio si limitava a porgere
qualcosa che l’infermo chiedesse o a guardarlo morire; e molte volte tale
servizio procurava loro un guadagno, ma anche la morte. Dal fatto che gli
infermi fossero abbandonati dai vicini, dai parenti e dagli amici e ci fosse
scarsità di servitori, si diffuse un’usanza prima di allora quasi mai udita:
quella che nessuna donna, quantunque leggiadra o bella o gentile, ammalandosi
non si curasse d’avere ai suoi servizi un uomo, di qualunque tipo o giovane o
altro, e a lui senza alcuna vergogna non lasciasse vedere ogni parte del corpo
come avrebbe fatto con un’altra donna, solo che la necessità della sua
infermità lo richiedesse; il che, in quelle che guarirono, fu motivo forse di
minore onestà, nei giorni che sarebbero seguiti. E oltre a questo ne conseguì
la morte di molti che, se fossero stati aiutati, sarebbero rimasti vivi; sta di
fatto che, a causa dell’insufficienza di servizi, che gli infermi non poterono
avere, e a causa della forza della pestilenza, era tanta in città la
moltitudine di quelli che morivano di giorno e di notte, che era incredibile
sentirlo dire, nonché a vedersi. Perché, quasi necessariamente, tra coloro che
rimanevano vivi nacquero abitudini contrarie a quelle prime dei cittadini.
Era usanza un tempo, così come vediamo
ancora oggi, che le donne, parenti o vicine, si radunassero nella casa di un
morto e lo piangessero assieme alle parenti più prossime; e che d’altra parte
davanti alla casa del morto si radunassero coi parenti stretti i vicini di casa
e molti altri cittadini, e, secondo il rango del morto, vi venissero i
chierici; e che il morto fosse poi portato, in spalla dai suoi pari, con un
funerale di candele e canti, nella chiesa da lui scelta prima di morire. Ma
queste usanze, quando la ferocia della pestilenza cominciò a dilagare,
scomparvero del tutto o in maggior parte e nuove usanze sopravvennero al loro
posto. Per cui, non solo le persone morivano senza avere molte donne attorno,
ma ce n’erano molte che trapassavano da questa vita senza alcun testimone: e
pochissimi erano coloro ai quali fossero concessi i pianti pietosi e le lacrime
amare dei congiunti, anzi, al loro posto, si usavano per molti risa e motti e
festeggiare di lieta compagnia; usanza che le donne, dimentiche della pietà
femminile, avevano appreso per la propria salute. Ed erano rari coloro i cui
corpi fossero accompagnati in chiesa da dieci o dodici dei suoi vicini; e a
portare la bara non erano i cari e stimati concittadini del defunto, bensì un
insieme di beccamorti di gente plebea (che si facevano chiamare becchini e
facevano questo servizio a pagamento); e costoro, con frettolosi passi,
conducevano il morto non alla chiesa che egli aveva disposto prima di morire,
ma a quella più vicina il più delle volte, dietro a quattro o a sei chierici
con pochi ceri e a volte senza alcuno; i quali chierici, con l’aiuto dei detti
becchini, senza faticarsi troppo in offici lunghi e solenni, lo mettevano in
qualunque sepoltura trovassero libera.
Per gli appartenenti alle classi più
basse, e forse in gran parte anche per quelle di mezzo, lo spettacolo era molto
più miserevole: in quanto costoro, costretti nelle loro case o da speranza o da
povertà, rimanendo tutti vicini, si ammalavano a migliaia ogni giorno e, non
avendo alcun servizio o aiuto, quasi senza scampo, morivano tutti. E ce n’erano
molti che morivano nella pubblica strada, di giorno e di notte, e molti che, se
morivano in casa, facevano capire ai vicini di essere morti prima con la puzza
dei loro cadaveri che altrimenti: tutto era pieno di costoro e degli altri che
morivano ovunque. Nella maggior parte dei casi i vicini si comportavano allo
stesso modo, spinti non meno dalla paura di essere contagiati, che dalla carità
verso i deceduti. Essi, da sé stessi o con l’aiuto di alcuni portatori, quando
ne trovassero, traevano dalle loro case i corpi dei morti e li deponevano
davanti ai loro usci, dove, specialmente di mattina, avrebbero potuto vederli,
e in gran numero, coloro che passavano: quindi, fatte venire delle bare, o in
mancanza di esse delle tavole, ve li deponevano. E spesso accadde, e non una
volta sola, che una bara portasse insieme due o tre cadaveri, la moglie col
marito, due o tre fratelli, il padre con il figlio, e altri gruppi di tal
genere. E infinite volte accadde che, mentre due preti con una croce ciascuno
camminavano davanti, dietro seguissero tre o quattro bare, portate da dei
portatori: e mentre i preti credevano di andare a seppellire un morto, in
realtà ne avevano sei o otto e talvolta anche di più. E questi morti non erano
onorati né da una lacrima, né da un lume, né da un compagno, anzi la cosa era
giunta a tal punto, che non ci si curava degli uomini che morivano, più di
quanto oggi si farebbe con le capre: perché apparve molto chiaramente che la
grandezza dei mali aveva reso accorti e rassegnati anche gli ignoranti, di
fronte a quelle disgrazie le quali i piccoli e rari danni del corso naturale
delle cose non avevano potuto insegnare neppure ai savi a sopportare con
pazienza. Poiché alla moltitudine dei cadaveri, che venivano portati in ogni
chiesa ogni giorno e a qualunque ora, non bastava la terra consacrata ove seppellirli,
soprattutto se si fosse voluto dare a ciascuno un posto proprio secondo
l’antico costume, si cominciò a costruire nei cimiteri delle chiese, dato che
ogni parte era occupata, fosse grandissime, nelle quali si mettevano i morti a
centinaia: e stipati in esse, come nelle navi si mettono le mercanzie strato su
strato, si ricoprivano con poca terra fino a giungere al sommo della fossa.
E per non andare cercando ogni particolare
delle miserie passate accadute per la città, dico solo che, se un così nemico
tempo corse per quella, non diversamente avvenne nelle campagne. Dove,
lasciando stare i castelli, che in piccolo erano simili alla città, nei
cascinali isolati e nei campi i lavoratori miseri e poveri e le loro famiglie,
senza alcuna fatica di medico o aiuto di servitore, per le vie e nei loro campi
coltivati e nelle case, indifferentemente di giorno e di notte, non come uomini
ma quasi come bestie morivano; per cui essi, divenuti trascurati nei loro
costumi come gli abitanti della città, non si curavano più di alcuna loro cosa
o faccenda: anzi, tutti, quasi aspettassero la morte, si sforzavano con ogni
mezzo non di aiutare i frutti futuri delle bestie e delle terre e delle loro
passate fatiche, ma di consumare quelli presenti. Perciò accadde che i buoi, gli
asini, le pecore, le capre, i porci, i polli e gli stessi cani fedelissimi agli
uomini, cacciati fuori dalle loro case, se ne andassero come meglio piaceva a
loro per i campi, dove i foraggi erano abbandonati, senza essere non dico
raccolti ma neppure mietuti; e molti di questi animali, come se fossero forniti
di raziocinio, dove essersi ben pasciuti di giorno, se ne tornavano sazi la
notte alle loro case senza che un pastore li guidasse.
Che si può dire di più, lasciando stare il
contado e ritornando alla città, se non che tanta e tale fu la crudeltà del
cielo, e forse in parte quella degli uomini, che tra il marzo e il luglio
seguente, vuoi per la forza della pestifera infermità, vuoi per il fatto che
molti infermi furono mal curati o abbandonati nei loro bisogni per la paura che
avevano i sani, oltre centomila esseri umani si stima siano stati privati della
vita per certo dentro le mura della città di Firenze, che forse, prima di
questo mortale avvenimento, non si sarebbe nemmeno pensato che ci vivessero? O
quanti grandi palazzi, quante belle case, quante nobili abitazioni prima piene
di famiglie, rimasero vuoti fino al più umile servo! O quante memorabili
stirpi, quante enormi eredità, quante famose ricchezze si videro restare senza
il debito successore! Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti
leggiadri giovani, che non altri, ma addirittura Galeno, Ippocrate o Esculapio (2)
avrebbero giudicati sanissimi, la mattina desinarono con i loro parenti,
compagni e amici, e la sera successiva cenarono con i loro defunti nell’altro
mondo!
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(1) Oggi li chiamiamo bubboni
(2) Galeno e Ippocrate furono due famosi
medici greci dell’antichità; Esculapio (o Asclepio) è un personaggio della mitologia
greca, che si diceva esperto di medicina
La
peste nera in una incisione forse ottocentesca
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