Paul D è uno schiavo nero portato
a lavorare in un campo della Virginia (uno stato del Sud degli Stati Uniti
d’America) nella seconda metà del XIX secolo. Qui imparerà a riconoscere la
vita dello schiavo, nelle sue particolarità: le catene ai piedi, le gabbie in
cui è costretto a vivere, le strane canzoni che i prigionieri cantano,
l’amore/odio per la vita.
Il brano è tratto dal romanzo
“Amatissima”, pubblicato nel 1987 da Toni Morrison (scrittrice afroamericana
nata nel 1931), che con questo libro vinse il prestigioso premio Pulitzer: nel
1993 la scrittrice statunitense ricevette il Premio Nobel per la letteratura.
Fuori dalla vista di Mister,
lontano, sia lodato il Suo nome, dal sogghigno del capo dei galli, Paul D
cominciò a tremare. Non all’improvviso e non in modo tale che chiunque se ne
sarebbe accorto. Quando girò la testa, per dare un ultimo sguardo a Brother, la
girò quel tanto che glielo consentiva la corda che assicurava il suo collo
all’assale di un carro e, più avanti, quando gli strinsero il ferro attorno
alle caviglie e gli bloccarono anche i polsi con le morse, in lui non si notava
il minimo segno di tremore. Non erano passati neanche diciotto giorni quando si
trovò davanti i fossati: tremila metri di terra – un metro e mezzo di
profondità, un metro e mezzo di larghezza, in cui erano stati sistemati dei
cubicoli di legno. Una porta fatta di sbarre che si potevano sollevare su dei
cardini, come nelle gabbie, dava su tre pareti e un soffitto fatto di legnami
di scarto e di terra rossa. Sessanta centimetri di quella roba sopra la testa,
novanta centimetri di trincea scoperta davanti, dove tutto quello che vi
strisciava o vi zampettava era bene accetto, caso mai avesse voluto dividere
quella chiamata stanza. E ce n’erano altre quarantacinque, così. L’avevano
mandato lì dopo che aveva tentato di uccidere Brandwyne, l’uomo al quale era
stato venduto dal maestro. Brandwyne lo stava conducendo in Virginia con un
convoglio di altri dieci schiavi, passando per il Kentucky. Non sapeva
esattamente che cosa lo avesse spinto a farlo – al di fuori di Halle, Sixo,
Paul A, Paul F e Mister (1). Ma, quando se ne accorse, il tremore ormai era una
realtà.
Eppure nessun altro poteva
accorgersene, perché era cominciato dentro. Una specie di vibrazione, prima il
petto, poi le scapole. Era come l’incresparsi delle onde, dapprima dolce, poi
furioso. Quasi come se più lo portavano a sud, più il suo sangue, rimasto
coagulato per vent’anni come uno stagno ghiacciato, cominciasse a sgelarsi,
spaccandosi in pezzi i quali, una volta sciolti, non potevano far altro che
mettersi a turbinare e a vorticare. A volte sentiva quel tremito alle gambe.
Poi si spostava nuovamente al fondo della spina dorsale. Quando infine lo
staccarono dal carro e non vide altro se non i cani e due baracche in un mare
d’erba sfrigolante, il sangue turbolento lo scuoteva tutto. Però, nessuno
avrebbe potuto dirlo. Quando aveva teso i polsi, quella sera, per farsi mettere
le manette, erano fermi, così come lo erano le gambe su cui si reggeva quando
gli avevano messo le catene ai ferri. Però, quando lo spinsero nel cubicolo e
lasciarono scivolar giù la porta della gabbia, le mani cessarono di prendere
ordini. Si muovevano per conto loro. Niente poteva fermarle o attirare la loro
attenzione. Non tenevano fermo il pene quando doveva urinare, né il cucchiaio
quando doveva affondarlo nelle fave e mettersi in bocca quei grumi informi. Poi
al mattino, con il martello, come per miracolo le mani tornavano a obbedirgli.
Tutti e quarantasei gli uomini si
svegliavano allo sparo del fucile. Tutti e quarantasei. Tre bianchi camminavano
lungo il fossato e aprivano le porte una a una. Nessuno usciva. Quando anche
l’ultima porta era stata aperta, i tre tornavano indietro e alzavano le sbarre,
a una a una – e a uno a uno riemergevano anche i neri – prontamente e senza lo
stimolo del calcio del fucile se erano lì da più di un giorno – prontamente, e
con il calcio del fucile se, come Paul D, erano appena arrivati. Quando tutti e
quarantasei erano allineati nel fossato, un altro colpo di fucile segnalava il
momento di arrampicarsi fuori, verso il terreno in alto, dove si allungavano
tre chilometri delle migliori catene forgiate a mano di tutta la Georgia. Gli
uomini si chinavano e aspettavano. Il primo sollevava l’estremità della catena
e la faceva passare nel gancio del ferro che aveva alla gamba. Quindi si alzava
e, strascicando un po’ i piedi, porgeva l’estremità della catena al prigioniero
successivo, il quale ripeteva la stessa operazione. Mentre si facevano passare
la catena e ognuno prendeva il posto dell’altro, la fila degli uomini si
voltava dall’altra parte, verso i cubicoli da cui erano appena usciti. Nessuno
parlava. Almeno, non con le parole. Erano gli occhi a dire quel che c’era di
dire. «Aiutami, stamattina va male», «Posso farcela», «Sono nuovo di qua»,
«Calmati, adesso, calmati».
Dopo essersi incatenati, si
inginocchiavano. Alla rugiada, a quel punto, si era con ogni probabilità
sostituita la foschia. Densa, a volte, e se i cani stavano in silenzio e
respiravano soltanto, si potevano sentire le colombe. […] (2)
«Eeehi!»
Era il primo suono, a parte «Sì,
signore», che un nero aveva il permesso di pronunciare ogni mattina, e l’uomo
che apriva la catena ce la metteva tutta. «Eeehi!» Non fu mai chiaro a Paul D
come facesse a sapere quand’era ora di implorare pietà con quel grido. L’avevano
soprannominato Ehi e, all’inizio, Paul D aveva creduto che fossero le guardie a
dirgli di dare il segnale, affinché i prigionieri in ginocchio si tirassero su
per ballare il passo doppio, al suono del ferro forgiato a mano. Poi cominciò
ad avere dei dubbi. Tuttora credeva che l’«Eeehi!» all’alba e l’«Oheee!» al
calar della sera fossero una responsabilità che Ehi si assumeva, perché lui
solo sapeva quando era abbastanza, quando era troppo, quando era finita, quando
era ora.
Raggiungevano i campi
ballonzolando incatenati, attraversando il bosco fino a un sentiero che si
apriva nella bellezza sorprendente del feldspato (3). E lì le mani di Paul D
disobbedivano al tumultuare furioso del sangue e gli prestavano attenzione. Con
il martello da fabbro in mano, seguendo la guida di Ehi, gli uomini arrivavano
a destinazione. Cantavano a squarciagola e pestavano con forza, storpiando le
parole in modo da renderle incomprensibili, giocando con le parole in modo da
produrre nuovi significati con le loro sillabe. Cantavano le donne che
conoscevano, i bambini che loro stessi erano stati un tempo, gli animali che
avevano addomesticato personalmente o che avevano visto addomesticare.
Cantavano i capi, i padroni e le padrone, i muli, i cani e l’impudenza della
vita. Cantavano con sentimento i cimiteri e le sorelle scomparse da tempo. O il
cinghiale nei boschi, il pranzo nella pentola, il pesce all’amo, il bastone, la
pioggia e le sedie a dondolo.
E pestavano. Le donne, per averle
conosciute e poi basta, i bambini che loro stessi erano stati un tempo, e poi
mai più. Uccidevano (4) i capi talmente spesso e talmente bene che poi erano
obbligati a riportarli in vita per poterli ridurre in poltiglia un’altra volta.
Assaggiando le frittelle calde tra i pini, le pestavano fino a distruggerle.
Cantando delle canzoni d’amore alla Morte, le fracassavano la testa. Più che
altro uccidevano quella infatuazione che la gente chiamava Vita, perché li
incoraggiava a continuare. Perché faceva loro credere che l’alba del giorno
dopo valesse la pena, che un altro lasso di tempo finalmente avrebbe risolto
qualcosa. In realtà, sarebbero stati sicuri solo quando fosse morta. Quelli che
l’avevano avuta vinta – quelli che erano stati lì un numero d’anni sufficiente
a paralizzarla, a mutilarla, forse anche a seppellirla – vegliavano sugli altri
che ancora erano intrappolati nel suo abbraccio provocante, che avevano dei
sentimenti e delle attese, che ricordavano a guardavano al passato. Erano
quelli i cui occhi dicevano: Aiutami, oggi va male, oppure: Sta’ a vedere, il
che voleva dire forse questo è il giorno che mi metto a urlare, o che mi mangio
il mio vomito, o che me la batto, ed era soprattutto da quest’ultima cosa che
bisognava guardarsi, perché se uno prendeva e scappava – tutti, tutti e
quarantasei, sarebbero stati strattonati dalla catena che li univa, e non si
poteva sapere quanti di loro sarebbero stati uccisi. Un uomo poteva rischiare
la propria vita, ma non quella di un suo fratello. Così gli occhi dicevano:
«Calmati adesso», oppure: «Sta’ vicino a me».
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(1) Sono altri schiavi come Paul D
(2) Nella parte eliminata, gli schiavi sono vittime di
atroci violenze
(3) Si tratta di un minerale che gli schiavi devono estrarre
dalla roccia
(4) Metaforicamente, nelle
canzoni
Punizione di uno schiavo in un disegno d’epoca
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