Una giovane moglie allevata
secondo le più rigide tradizioni cinesi, viene portata dal marito che ha
studiato all’estero a conoscere una famiglia di “diavoli stranieri”
(presumibilmente americani): con quanta sorpresa scopre che sono fisicamente
diversi da lei e che hanno costumi incomprensibili, come servire il tè prima
alla donna anziché a suo marito, o vestire di bianco anche se non si è in lutto!
Il brano è tratto (come quello
precedente) dal romanzo Vento dell’est:
vento dell’Ovest (pubblicato nel 1930) della scrittrice statunitense Pearl
Sydenstricker Buck, che nel 1938 vinse il premio Nobel per la letteratura.
Fedele alla
promessa, mio marito mi condusse in visita alla casa dei suoi amici stranieri.
Mi vien da sorridere, ora, sorella (1), nel confessarti che alla grande
curiosità si univa anche non poca paura. Che vuoi?... prima d’allora non ero
mai stata in case straniere, e nessuno straniero aveva avuto rapporti con la
casa di mia madre. Mio padre, naturalmente, ne aveva incontrati durante i suoi
viaggi, e il suo giudizio sul loro conto si riassumeva in una risata per la
volgarità del loro aspetto e la rudezza dei loro modi. Strano a dirsi, solo mio
fratello li ammirava. A Pechino ne aveva conosciuti molti, e fra i professori
della sua scuola ve n’erano di stranieri. Mi ricordo che una volta lo avevo
persin sentito dire che era stato in casa di non so quale straniero; e il
pensiero di questa sua audacia mi aveva riempita di ammirazione.
Nella casa
materna di questi influssi non si sentiva neppure l’ombra. Qualche volta, è
vero, capitava che tornando dalla spesa una serva facesse vivaci racconti di
forestieri intravisti per via; e allora eran discorsi a non finire sulla loro
pelle livida e sui loro occhi pallidi. A questi discorsi io porgevo orecchio
con la stessa sbigottita curiosità con cui ascoltavo le favole di fantasmi e di
diavoli di cui era fertile la fantasia di Wang Da Ma (2). Non udivo forse la
servitù sussurrare di strane magie dei bianchi, del loro potere di rapire
l’anima di una persona con una macchinetta chiusa in una scatola nera su cui
ponevano l’occhio? (3) Nella scatola – tac! – si udiva uno scatto. Subito uno
provava una strana debolezza al petto, e a non grande distanza di tempo moriva
per malattia o accidente.
Mio marito,
quando gli parlai di queste cose, rise.
«E come va
allora che son qui vivo e sano, dopo dodici anni trascorsi nei loro paesi?»
«Il punto è»
risposi «che tu sei bravo, e hai penetrato il segreto della loro magia.»
«Vedo che hai
proprio bisogno di venire a vedere con i tuoi occhi che gente sono. Vedrai che
sono uomini e donne come tutti gli altri.»
Andammo quello
stesso giorno. Mi ricordo di un giardino con erba, alberi e fiori. Prima
sorpresa: gli stranieri capivano la Natura, e potevano avere giardini belli.
Non che fossi entusiasta: l’insieme era disposto con evidente rozzezza,
mancavano cortili, non v’era traccia di vasche con i pesci rossi. Confesso anzi
che quando ci trovammo finalmente davanti alla porta sarei scappata, se al
fianco non avessi avuto mio marito.
Qualcuno di
dentro aprì bruscamente, e sulla soglia comparve un “diavolo straniero”. Era
alto, e contraeva il faccione in un largo sorriso (4). Sapevo, dagli abiti di
foggia uguale a quelli di mio marito, che si trattava di un uomo; ma pensa al
mio orrore quando notai che sul cranio, invece d’avere capelli neri e lisci
come tutti, aveva una lana rossa e ricciuta! Due occhi simili a pietruzze
levigate dal mare brillavano in un volto nel centro del quale il naso sporgeva
come una montagna. Una creatura orribile – più repellente dello stesso dio del
Nord all’ingresso del tempio!
Mio marito
però non si mostrò per nulla impressionato dallo strano individuo, al quale
tese anzi la mano che l’altro afferrò e scosse energicamente (5). Senza tradire
alcuna sorpresa, mio marito si volse e mi presentò. Lo straniero contrasse di
nuovo il volto nel suo enorme sorriso, e fece per prendere anche a me la mano,
tendendomi la sua. Io la guardai. Che mano, sorella! Larga e ossuta, appariva sparsa
di radi peli rossi e maculata di puntini neri. Sentii che la pelle mi si
accapponava: no, non potevo toccare quella mano. Perciò nascosi le mie nelle
maniche, e m’inchinai. Lo straniero accentuò il suo sorriso, e ci invitò a
entrare.
Attraverso
un’anticamera simile alla nostra passammo in una stanza nella quale, seduta
alla finestra, sedeva una persona che subito riconobbi per una donna straniera.
Al posto dei calzoni portava una lunga sottana di cotone stretta alla vita da
una cintura. I suoi capelli, meno brutti di quelli di suo marito, erano lunghi
e lisci: peccato però che fossero di un color giallo poco bello. Anche lei
aveva un naso prominente, sebbene non ricurvo come quello del marito, e mani
tozze con unghie quadrate e corte. E che piedi! Guardandoli, mi parvero due
barche.
“Con genitori
come questi” pensai “come mai potranno essere i piccoli diavoli stranieri?”
Devo tuttavia
dire che, rozzi com’erano, fecero del loro meglio per esser gentili. Non v’era
gesto in essi che non tradisse la loro mancanza di educazione: per esempio,
porgevano le tazzine del tè con una mano sola, e davano regolarmente a me la
precedenza su mio marito. A un certo punto l’uomo mi rivolse direttamente la
parola, come se non fosse toccato a sua moglie intrattenermi! L’atto mi parve
un insulto.
Dirai: non se
ne può far loro una colpa. Ma essi sono in Cina da dodici anni (così m’ha detto
mio marito), e in tanto tempo dovrebbero pur avere imparato qualche cosa. […]
La parte più
interessante della visita venne allorché mio marito domandò alla straniera di
farmi vedere i bambini e le loro cose. Aspettavamo anche noi un bambino –
spiegò – e desiderava vedermi iniziata alle usanze occidentali. Subito la donna
s’alzò, e mi chiese di accompagnarla al piano di sopra. Io avevo paura di
andare sola con lei, e guardai mio marito. Ne ebbi in risposta un cenno che
m’ordinava di proseguire.
Presto la mia
paura svanì. Al piano di sopra entrammo in una camera inondata di sole e
riscaldata da un forno nero (6). Subito mi colpì un particolare: nella stanza
si voleva evidentemente il caldo, ma una finestra era aperta, e l’aria
circolava. Non ti dico però il mio sentimento quando vidi tre piccoli stranieri
che giocavano sul pavimento. Ero incantata, mai avevo visto creature così
bizzarre!
All’aspetto
sembravano grassi e pieni di salute. Ma quei capelli chiari! Questa
constatazione mi confermò quanto avevo udito sulla natura degli stranieri, i
quali, contrariamente a quanto avviene a noi, nascono con capelli chiari che
anneriscono col tempo. E la pelle? Bianchissima. Che i bimbi fossero lavati
ogni giorno in acque medicinali? Anche questa supposizione si rivelò giusta
quando la madre mi mostrò una camera dove ogni giorno i bambini venivano lavati
da capo a piedi. Con simili lavaggi quotidiani, nessuna meraviglia se la pelle
finisce con lo scolorirsi.
Ed ecco,
mostratemi sempre dalla madre, le robette dei bambini. Gli indumenti erano
tutti bianchi. Il bimbo più piccolo indossava un abitino anch’esso bianco da
capo a piedi. Alla mia domanda se il bimbo portava il lutto (da noi il bianco è
il colore del lutto) la madre rispose di no, aggiungendo che il bianco non
aveva che un unico scopo, quello di tener pulito il piccino. A me parve che un
abito scuro sarebbe andato meglio, e avrebbe rivelato meno le macchie: ma non
dissi nulla.
I lettini
erano tutti in bianco, con lugubre effetto. Io non capivo perché mai si facesse
tanto sfoggio del colore della morte. Stavano così bene i bambini in vestiti
color della gioia, rosso, giallo e azzurro fiordaliso! Noi vestiamo i nostri
bambini da capo a piedi di rosso sin dalla nascita, in segno di gioia. Ma è
inutile: la natura di questi stranieri non s’accorda in nulla con la nostra.
Sorprendente ad esempio la constatazione che la signora straniera allattava lei
stessa il suo bambino. Forse che io avevo pensato a nutrire il mio? Sarebbe
stato contrario alle nostre usanze. Nessuna donna cinese d’una certa posizione,
infatti, allatta il proprio bambino, essendovi numerose schiave in grado di
disimpegnare questa mansione.
Quando fummo
tornati a casa ne accennai a mio marito.
«Allatta
persino il bambino. Sono così poveri?»
«Tanto meglio
per il bambino» osservò lui. «Anche tu, quando sarà l’ora, allatterai il tuo.»
Rimasi
sommamente sorpresa. «Io?»
«Certamente»
confermò mio marito gravemente.
«Ma allora
dovranno passare due anni prima che io ne abbia un altro» obiettai.
«È
l’intervallo giusto, ancorché la causa che tu adduci sia priva di senso.»
Forse mio marito ha ragione anche
su questo particolare. Comunque, giacché vedo che parecchi bambini di una
stessa famiglia devono inevitabilmente morire, e che alcuni devono essere
bambine, mi persuado ormai che la mia casa non sarà piena di figli maschi come
avevo sperato. Ti sorprendi ora, sorella, se ho sempre trovato mio marito un po’
strano?
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(1) Il romanzo è scritto come se fosse un dialogo alla
lontana con un’amica, chiamata “sorella”
(2) Una delle serve della famiglia della protagonista; si
tratta di una famiglia agiata nella Cina dell’inizio del 1900
(3) È la macchina fotografica, capace secondo la
protagonista di rapire l’anima a una persona
(4) L’usanza cinese diceva che non bisogna manifestare
troppo apertamente i propri sentimenti
(5) La stretta di mano è strana, per chi è abituato a
salutarsi con un inchino
(6) Una stufa
Una nobile donna
cinese con le figlie a inizio Novecento
Donne negli Stati
Uniti d’America nel 1913
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