La madre che dà il titolo al romanzo da
cui è tratto questo brano, è una vedova quarantenne, Pelagéja Nìlovna, che ha
un figlio, Pavel, il quale si accosta, sul finire dell’Ottocento nella Russia
zarista, al Partito rivoluzionario socialista. Attraverso di lui anche la
madre, che dapprima non capisce le idee del figlio e dei suoi amici, comincia a
interessarsi e a voler sapere come si può migliorare il mondo, che è quanto
vanno dicendo Pavel e i suoi compagni.
Nel brano riportato la madre accompagna il
figlio, quando organizza, assieme ai compagni, una manifestazione non
autorizzata per il Primo Maggio, festa dei lavoratori.
Quando fu in strada e sentì nell’aria il
clamore inquieto, pieno di attesa, di tante voci, quando vide a tutte le
finestre e accanto alle porte gruppi di persone che accompagnavano suo figlio e
Andréj (1) con sguardi curiosi, cominciò a tremolarle davanti agli occhi una
macchia nebbiosa che mutava colore facendosi, ora di un verde trasparente, ora
di un grigio opaco.
Tutti li salutavano, e in quei saluti
c’era qualcosa di particolare. Il suo orecchio coglieva osservazioni spezzate,
fatte a mezza voce:
«Ecco i capi…»
«Noi non sappiamo chi sono i capi…»
«Ma io non detto niente di male!»
In un altro punto, qualcuno gridava
irritato:
«La polizia li pescherà tutti… finiranno
male!»
«Li pescherà, certo…»
Una voce urlante di donna spaventata
rimbalzava da una finestra sulla strada:
«Rifletti a ciò che fai… non sei mica
scapolo, tu!»
Quando passarono davanti alla casa di
Zosimov, che era senza gambe e riceveva dalla fabbrica un sussidio per la sua
invalidità, quello sporse il capo dalla finestra e gridò:
«Paška! Ti torceranno il collo, canaglia,
per quello che fai… Aspetta!»
La madre ebbe un sussulto e si fermò. Quel
grido aveva suscitato in lei un acuto sentimento di odio. Guardò il viso grosso
e gonfio dell’invalido che, imprecando, si ritirò. Allora essa, affrettando il
passo, raggiunse il figlio e lo seguì, cercando di non restare indietro.
Pavel e Andréj pareva non si accorgessero
di nulla e non udissero le esclamazioni che li accompagnavano. Procedevano
tranquilli, senza fretta. Li fermò, a un tratto, Mironov, un uomo anziano e
modesto, stimato da tutti per la sua vita sobria e onesta.
«Neppur voi lavorate, Danilo Ivànovic?»
chiese Pavel.
«Mia moglie sta per partorire… e in un
giorno così agitato…» disse Mironov, fissando i compagni e, a voce bassa,
domandò:
«Si dice che voi, ragazzi, volete fare del
chiasso al direttore e rompergli i vetri: è vero?»
«Non siamo mica ubriachi!» esclamò Pavel.
«Percorreremo semplicemente le vie con la
bandiera e canteremo la nostra canzone!» disse l’ucraino «Prestate orecchio
alla canzone: in essa è espressa la nostra fede!»
«La vostra fede la conosco!» rispose
Mironov, pensieroso «Ho letto i vostri manifesti. Oh, Nìlovna, vai anche a tu a
far la ribelle?» esclamò sorridendo alla madre con i suoi occhi intelligenti.
«Almeno una volta, prima di morire,
bisogna andare a passeggio con la verità!»
«Senti, senti!» disse Mironov «Si vede,
allora, che è vero ciò che si dice di te: che eri tu che portavi alla fabbrica
gli opuscoli proibiti… (2)»
«Chi lo dice?» chiese Pavel.
«Così… si dice. Be’, arrivederci, state in
gamba!»
La madre ebbe un lieve sorriso: le faceva
piacere che parlassero così di lei. Pavel le disse ridendo:
«Finirai in prigione, mamma!»
Il sole saliva e avvolgeva con il suo
calore la freschezza ardita di quella giornata primaverile. Le nuvole si
movevano più lente e le loro ombre si facevano più lievi e trasparenti.
Scivolavano dolci lungo la via e sui tetti delle case, avvolgevano le persone e
parevano ripulire il sobborgo, portando via il sudiciume e la polvere dai muri
e dai tetti e la noia dai volti. Ci si sentiva più allegri, le voci risonavano
più forti, soffocando il rumore lontano delle macchine in movimento.
Di nuovo, da tutte le parti, dalle
finestre e dai cortili, giungevano scivolando agli orecchi della madre parole
allarmate e maligne, allegre e preoccupate. Ma ora ella sentiva il desiderio di
rispondere, di ringraziare, di spiegare, il desiderio di prender parte alla
vita stranamente movimentata di quel giorno.
Dietro l’angolo di una strada, in uno
stretto vicolo, si era riunito un gruppo di persone, circa un centinaio, in mezzo
alle quali risonava la voce di Vessòvščikov (3).
«Spremono il nostro sangue come il succo
di una bacca!» erano le parole goffe che cadevano sulla testa della gente.
«È vero!» risposero varie voci come un
sordo rimbombo.
«Fa del suo meglio, poveretto!» disse
l’ucraino «Vado ad aiutarlo!»
Si curvò e, prima che Pavel potesse
trattenerlo, il suo lungo, agile corpo era penetrato nella folla come un
cavatappi in un turacciolo, e già risonava la sua voce:
«Compagni! Dicono che sulla terra vivano
popoli differenti: Ebrei e Tedeschi, Inglesi e Tartari. Ma io non ci credo!
Esistono solo due popoli, due razze inconciliabili: i ricchi e i poveri! La
gente si veste in modo diverso e parla in modo diverso, ma guardate come i
ricchi, Tedeschi, Francesi e Inglesi trattano i lavoratori e vedrete che sono
tutti loro nemici. Che gli resti una spina in gola, a quella gente!»
Tra la folla qualcuno rise.
«E se guardiamo dall’altro lato, vediamo
che gli operai francesi, tartari, turchi, fanno la stessa vita da cani che
facciamo noi, operai russi!»
Dalla strada affluiva sempre più gente e,
uno dopo l’altro, in silenzio, allungando il collo, sollevandosi in punta di
piedi, si pigiavano nel vicolo.
Andréj parlava a voce sempre più alta.
«All’estero gli operai hanno ormai capito
questa semplice verità e oggi, nella luminosa giornata del Primo Maggio…»
«La polizia!» gridò qualcuno.
Dalla strada avanzavano verso il vicolo,
contro la folla, agitando gli staffili (4), quattro uomini della polizia a
cavallo che gridavano:
«Scioglietevi!»
Gli uomini si accigliavano e,
controvoglia, facevano largo ai cavalli. Alcuni si arrampicavano sulle
palizzate.
«Hanno messo a cavallo dei porci… Senti
come grugniscono: “Siamo noi che comandiamo…”» gridava con forza una voce
indignata.
L’ucraino si trovò solo in mezzo al vicolo,
e due cavalli, scotendo la testa, gli andavano addosso. Egli si gettò da una
parte ma, nello stesso momento, la madre, afferrandolo per un braccio, se lo
trascinò dietro, brontolando:
«Avevi promesso di restare con Pavel e
invece, ecco, ti butti da solo…»
«Scusate!» disse l’ucraino, sorridendo.
Una stanchezza inquieta e spossante si era
impadronita della madre. Le saliva dal profondo e le faceva girare la testa,
alternando stranamente nel suo cuore gioia e tristezza. Avrebbe voluto che la
sirena (5) del mezzogiorno lanciasse il suo urlo.
Si trovarono sulla piazza, di fronte alla
chiesa. Là attorno, nel recinto, in parte sedute e in parte in piedi, stavano
assiepate almeno cinquecento persone, giovani allegri, donne e bambini. La folla
ondeggiava, le teste si sollevavano inquiete e guardavano lontano, in tutte le
direzioni, in un’impaziente attesa. Vibrava nell’aria qualcosa di insolito:
alcuni si guardavano attorno smarriti, altri si comportavano con ostentata
spavalderia. Fioche e abbattute risonavano le voci delle donne; gli uomini
voltavano loro le spalle con stizza, qua e là si udivano imprecazioni sommesse.
Il rumore sordo di un disaccordo ostile avvolgeva quella folla variopinta.
«Mìtenka!» pregava una tremante voce di
donna «Sta’ attento!»
«Lasciami stare!» fu la risposta.
Intanto la voce posata e grave di Sizov
diceva, in tono persuasivo:
«No, non dobbiamo abbandonare i giovani!
Essi sono più intelligenti di noi e più audaci. Chi ha fatto sentire una voce
di protesta per la copeca dello stagno (6)? Loro, i giovani. Non bisogna
dimenticarlo. In prigione sono stati trascinati loro e il vantaggio lo hanno
avuti tutti gli altri…»
Urlò la sirena e inghiottì con il suo cupo
suono le voci umane. La folla ebbe un fremito, quelli che erano seduti si
alzarono, per un attimo tutti ammutolirono, attenti, e molti volti
impallidirono.
«Compagni!» echeggiò la voce di Pavel,
vibrante e decisa. Una nebbia arida e ardente bruciò gli occhi della madre che,
con un rapido movimento del corpo che aveva ritrovato la sua forza, si collocò
alle spalle del figlio. Tutti si volsero verso Pavel e lo circondarono, come la
limatura di ferro circonda la calamita.
La madre lo guardava e non vedeva che i
suoi occhi fieri, arditi e fiammeggianti.
«Compagni! Abbiamo deciso di mostrare
apertamente chi siamo: oggi leveremo la nostra bandiera, la bandiera della
libertà, della ragione, della verità!»
Un’asta bianca e lunga balenò nell’aria,
si chinò, tagliò la folla, si nascose in mezzo a essa e, dopo un minuto, al di
sopra dei volti sollevati, ondeggiò come un uccello rosso l’ampia tela
fiammeggiante della bandiera dei lavoratori.
Pavel sollevò il braccio, l’asta vacillò,
ma una diecina di mani l’afferrarono, e fra queste era la mano della madre.
«Evviva i lavoratori!» gridò egli.
Centinaia di voci fecero eco con un
fragoroso grido:
«Evviva il partito socialista democratico
dei lavoratori, il nostro partito, compagni, la nostra patria spirituale!»
La folla fremeva e, in mezzo a essa, si
facevano strada verso la bandiera coloro che ne avevano capito il significato;
accanto a Pavel si posero Mazin, Sàmojlov, i due Gussev; a capo basso, urtando
la gente, si apriva un varco Nikolàj, e altre persone che la madre non
conosceva, giovani dagli occhi ardenti, la spingevano per passare…
«Evviva i lavoratori di tutti i paesi!»
gridò Pavel. E, in un crescendo gioioso di forza, gli rispose un’eco di mille
voci che, con il loro fragore, squassavano l’anima.
La madre afferrò la mano di Nikolàj e di
qualcun altro; ansava per la piena delle lacrime che la soffocavano, ma non
piangeva e, con le labbra tremanti, diceva:
«Cari…»
Sul viso butterato (7) di Nikolàj appariva
un largo sorriso; egli guardava la bandiera e, mugolando qualcosa, tese verso
di essa il braccio; poi, a un tratto, con lo stesso braccio, cinse il collo
della madre, la baciò e si mise a ridere.
«Compagni!» gridò l’ucraino, ricoprendo
con la sua voce il rombo della folla «Noi andiamo ora in processione nel nome
di un Dio nuovo, Dio di luce e di verità, Dio della ragione e del bene. È
ancora lontana da noi la nostra meta; vicine sono, invece, le corone di spine.
Chi non crede nella forza della verità, chi non ha l’ardire di seguirla fino
alla morte, chi non ha fede in se stesso e teme la sofferenza, si allontani da
noi! Noi chiamiamo coloro che credono nella nostra vittoria; coloro che questa
meta non vedono, non ci seguano, perché li attendono soltanto dolori. In fila,
compagni! Viva il Primo Maggio!»
La folla si fece più fitta.
Pavel agitò la bandiera che, spiegandosi
nell’aria, ondeggiò in una fiammeggiante risata…
Ripudiamo
il vecchio mondo… (8)
intonò Fédja Mazin
con la sua voce sonora, e diecine di voci lo seguirono in un’ondata dolce e
vigorosa:
E
disperdiamo la sua polvere…
La madre, con un sorriso ardente sulle
labbra, andava dietro a Mazin e, al di là della sua testa, scorgeva il figlio e
la bandiera. Attorno a lei si vedevano volti lieti, occhi scintillanti. Davanti
a tutti camminavano suo figlio e Andrèj. Ella udiva le loro voci; quella dolce
e morbida dell’ucraino si fondeva in un unico suono concorde con quella
profonda e possente del figlio:
In
piedi, sollevati, o popolo di lavoratori!
Correte
a lottare, fratelli affamati…
Il popolo accorreva incontro alla bandiera
rossa, gridava, si univa al corteo, insieme con esso rifaceva la strada, e le
sue grida si mescolavano con le note della canzone, di quella canzone che a
casa essi cantavano a voce più sommessa delle altre e che ora, nella strada,
echeggiava libera, sicura, con la sua terribile forza. Risonava in essa un
coraggio ferreo e, mentre indicava agli uomini il lungo cammino verso
l’avvenire, onestamente ne prevedeva le difficoltà. Nella sua grande fiamma
tranquilla si distruggevano le cupe scorie del passato, il pesante fardello dei
sentimenti radicati, e si inceneriva la maledetta paura del nuovo…
Un volto ignoto, dall’espressione gioiosa
e spaurita insieme, ondeggiava accanto alla madre, e una voce tremante
esclamava fra i singhiozzi:
«Mìtja, dove vai?» La madre, senza
fermarsi, disse:
«Lasciatelo andare, non preoccupatevi!
Anch’io avevo tanta paura… Il mio è avanti a tutti. Quello che porta la
bandiera è mio figlio!»
«Disgraziati! Dove andate? Laggiù ci sono
i soldati!»
E, a un tratto, una grossa mano ossuta
afferrò quella della madre, e una donna alta e magra esclamò:
«E loro cantano! Anche il mio Mìtja
canta…»
«Non preoccupatevi!» mormorò la madre «È
un’impresa santa… Pensate: oggi non ci sarebbe nemmeno Cristo se, per amor Suo,
non fossero morti tanti uomini…»
Questo pensiero le era balenato improvviso
e l’aveva colpita con la sua evidente, semplice verità. Fissò in viso la donna
che con forza stringeva ancora la sua mano e ripeté, con un sorriso
meravigliato:
«Non ci sarebbe Cristo se tanti uomini non
fossero morti per Lui…»
Accanto alla madre comparve Sizov; si levò
il berretto e, agitandolo al ritmo del canto, disse:
«Ora vanno avanti sicuri, eh madre! Hanno
trovato una bella canzone… che canzone, eh!
Lo
zar vuole soldati,
Dategli
i vostri figli…
E non hanno paura di nulla!» continuò
Sizov «Ah, se mio figlio non fosse nella tomba...»
Il cuore della madre cominciò a battere
troppo forte, ed ella dovette fermarsi. Ben presto si trovò spinta da una
parte, addossata a un recinto… Una folla di gente le passò davanti,
ondeggiando… una folla numerosa che le diede un senso di allegria.
In
piedi, sollevati, o popolo di lavoratori!
Pareva che un’enorme tromba di rame
squillasse nell’aria e destasse la gente, suscitando nel petto di alcuni la
prontezza alla lotta, in altri una gioia indistinta, il presentimento di
qualcosa di nuovo, una curiosità ardente, qui accendendo vaghe speranze, là
offrendo libero sfogo a un astioso sentimento radicato nel cuore dal passare
degli anni. Tutti guardavano in avanti ove ondeggiava nell’aria la bandiera
rossa.
«Come marciano uniti!» gridò una voce «Bravi,
ragazzi!»
E l’uomo, sentendo evidentemente dentro di
sé qualcosa di grande che non riusciva a esprimere con le comuni parole, lanciò
una grossa bestemmia. Ma anche la rabbia, la cupa cieca rabbia dello schiavo,
sibilava come una serpe, si torceva in oscure parole, esasperata dalla luce che
le pioveva addosso.
«Eretici!» gridò qualcuno da una finestra,
con voce spezzata, minacciando con il pugno.
Irritanti penetrarono negli orecchi della
madre le stridule parole di un altro:
«Contro il sovrano imperatore, contro la
maestà dello zar… ribellarsi?»
Davanti a lei passavano volti eccitati,
correvano uomini e donne, il popolo avanzava come una lava scura, trascinato da
quella canzone che con lo slancio del suo ritmo pareva abbattere tutto dinanzi
a sé per aprirsi la strada. Guardando la bandiera rossa ormai lontana, la madre
vedeva, senza vederlo, il volto del figlio, la sua fronte color del bronzo e
gli occhi ardenti del fuoco della fede.
Ed eccola in coda alla folla, in mezzo a
gente che andava senza fretta, guardando con indifferenza davanti a sé, con la
fredda curiosità degli spettatori che già in anticipo conoscono la conclusione
dello spettacolo. Camminavano e dicevano piano, in tono sicuro: «Un plotone si
trova presso la scuola, un altro all’ingresso della fabbrica…»
«È arrivato il governatore…»
«Davvero?»
«L’ho veduto io… è arrivato.»
Qualcuno, imprecando allegramente,
osservava: «Si vede che cominciano ad aver paura di noi… I soldati… il
governatore…»
“Figli miei!” invocava, palpitando, il
cuore della madre.
Ma attorno a lei risonavano parole fredde,
senza vita. Affrettò il passo per allontanarsi da quella gente che le fu facile
lasciare indietro, data la loro andatura lenta e pigra.
A un tratto, parve che la testa del corteo
avesse urtato contro qualcosa; il corpo, senza fermarsi, arretrò con un rumore
sordo e allarmante. Anche la canzone ebbe un brivido, un attimo di esitazione…
ma subito riprese più rapida e più ardente. Poi, di nuovo, l’onda densa dei
suoni si abbassò, si ritrasse… Le voci, una dopo l’altra, uscivano dal coro, e
si levavano esclamazioni isolate che cercavano di riportare il canto alle
altezze di prima e di spingerlo avanti:
In
piedi, sollevato, o popolo di lavoratori…
Correte
a lottare, fratelli affamati!
Ma in questo appello non c’era più la
ferma, incrollabile sicurezza di prima e già si sentiva vibrare in esso
l’incertezza e la trepidazione.
Non vedendo nessuno, non sapendo che cosa
accadeva in testa al corteo, la madre si faceva largo tra la folla, spingendosi
rapidamente avanti, ma incontrava gente che se ne tornava indietro, alcuni
accigliati e a testa bassa, altri con un sorriso imbarazzato, altri ancora
fischiettando beffardamente. La madre guardava angosciata quei visi; i suoi
occhi interrogavano, pregavano, chiamavano!
«Compagni!» risonò la voce di Pavel «I
soldati sono uomini come noi. Essi non ci colpiranno. Perché dovrebbero farlo?
Perché noi rechiamo la verità indispensabile a tutti? Anche per loro questa
verità è necessaria. Finora non l’hanno capita, ma è vicino il momento in cui
si affiancheranno a noi, in cui non marceranno più sotto la bandiera della
rapina e dell’assassinio, ma sotto la nostra bandiera, quella della libertà! E,
affinché essi comprendano al più presto la nostra verità, noi dobbiamo andare
avanti. Avanti compagni! Sempre avanti!»
La voce di Pavel sonava ferma e decisa, le
parole vibravano nell’aria limpide e chiare, ma la folla si disperdeva, gli
uomini uno dopo l’altro andavano verso le loro case, chi a destra, chi a
sinistra, o si appoggiavano alle palizzate. Adesso la folla aveva assunto la
forma di un cuneo il cui vertice era Pavel, e sulla cui testa fiammeggiava la
bandiera dei lavoratori. Quella folla pareva ora un uccello nero dalle grandi
ali aperte e le orecchie tese, pronto a levarsi in volo, e Pavel era il becco…
La narrazione continua nel prossimo post, LA MANIFESTAZIONE DEL PRIMO MAGGIO –
seconda parte
(1) È un amico fraterno di Pavel, più
oltre indicato come l’ucraino, che è la sua nazionalità
(2) Nelle pagine precedenti la donna aveva
effettivamente introdotto di nascosto nella fabbrica del sobborgo degli
opuscoli socialisti e li aveva distribuiti agli operai
(3) È uno degli amici di Pavel, ma al
momento è ancora insicuro e rozzo nelle sue idee, che vive con esagerata
focosità; più avanti è indicato con il nome di Nikolàj
(4) Sferze formate da una lunga striscia
di cuoio attaccata a un’impugnatura
(5) La sirena della fabbrica, che segnala
i momenti in cui si comincia o si smette il lavoro
(6) La copeca (o copeco) è un centesimo
del rublo, la moneta russa. Nelle pagine precedenti il direttore della fabbrica
in cui lavora Pavel voleva imporre quella somma a tutti gli operai, per il
prosciugamento di una palude nelle vicinanze; Pavel aveva protestato, dicendo
che toccava ai padroni della fabbrica pagare quel lavoro, non agli operai che
già stentavano a vivere con il loro salario
(7) Ricoperto di piccole cicatrici,
lasciate dal vaiolo, o dall’acne, o da altre malattie della pelle
(8) Si tratta di una canzone russa, intitolata
“Stavaj podnjimajaja rabòci narod”
Poster per la
festa dei lavoratori
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