Il romanzo La madre, pubblicato nel 1906, racconta la presa di coscienza di
una donna quarantenne nella Russia di fine Ottocento o inizio Novecento; grazie
al figlio, anch’essa si accosta al socialismo, sentito come l’unica possibilità
di migliorare le condizioni di vita del proletariato. Queste condizioni sono
descritte da Gorkij nel primo capitolo del romanzo, il brano qui riportato.
Ogni giorno, sul sobborgo operaio,
nell’aria grassa e fumosa, fremeva e urlava la sirena della fabbrica;
obbedienti alla chiamata, dalle case grigie uscivano frettolosi sulla strada,
simili a scarafaggi spaventati, uomini dall’aspetto cupo che non erano riusciti
a riposare con il sonno i loro muscoli. Nella fredda oscurità si dirigevano per
la via non lastricata verso le alte gabbie di pietra della fabbrica che li
aspettava con impassibile sicurezza, illuminando la strada fangosa con diecine
di occhi viscidi, quadrati. I piedi guazzavano nel fango. Risonavano rauche
esclamazioni di voci assonnate, rozze bestemmie si alzavano rabbiose nell’aria;
incontro agli uomini giungevano altri suoni, il fragore sordo delle macchine,
il sibilo del vapore. Cupi e ostili, si profilavano gli alti fumaioli neri che
si levavano sopra il sobborgo come grossi bastoni.
A sera, quando il sole tramontava e sui
vetri delle case brillavano i suoi raggi stanchi, la fabbrica cacciava fuori
gli uomini dalle sue viscere di pietra come scorie inutili, ed essi
ripercorrevano le stesse strade, affumicati, con le facce annerite, diffondendo
nell’aria l’odore appiccicoso dell’olio di macchina, facendo risplendere i
denti affamati. Ma nelle loro voci risonava adesso l’animazione e perfino la
gioia: per quel giorno la galera del lavoro era finita, a casa li aspettavano
la cena e il riposo.
Un’altra giornata era stata inghiottita
dalla fabbrica, le cui macchine avevano succhiato dai muscoli degli uomini
tutta la forza che era loro necessaria. Un’altra giornata era stata cancellata
dalla vita di ognuno senza lasciare tracce; l’uomo aveva fatto un altro passo
verso la tomba, ma egli vedeva dinanzi a sé il godimento del riposo, la gioia
dell’osteria fumosa, e si sentiva contento.
Nei giorni di festa gli operai dormivano
fin quasi alle dieci; poi quelli più posati e quelli ammogliati, indossati gli
abiti migliori, si recavano ad ascoltare la messa e, strada facendo,
rimproveravano i giovani per la loro indifferenza verso la religione. Dalla
chiesa ritornavano a casa, mangiavano la torta e si rimettevano a dormire fino
alla sera.
La stanchezza accumulata negli anni
toglieva loro l’appetito e, per stuzzicarlo, bevevano molto, eccitando lo
stomaco con sorsate brucianti di vodka.
La sera passeggiavano pigramente per le
vie; chi possedeva le calosce le metteva anche se il tempo era asciutto; chi
poi, possedeva un ombrello, lo portava anche con il sole.
Incontrandosi fra loro, discorrevano della
fabbrica, delle macchine e imprecavano contro i capi; parlavano e pensavano
soltanto di cose legate al lavoro. Scintille solitarie di un pensiero fiacco,
impotente, balenavano appena nella monotonia uggiosa dei giorni. Tornati a
casa, attaccano lite con le mogli e spesso le picchiavano, senza risparmio di
pugni. I giovani passavano il tempo nelle osterie od organizzavano serate in
casa dell’uno e dell’altro, suonavano la fisarmonica, cantavano canzoni brutte
e oscene, ballavano, dicevano volgarità e bevevano. Sfiniti dalla stanchezza,
si ubriacavano presto e allora nell’animo di tutti si risvegliava
un’incomprensibile, morbosa irritazione che cercava una via d’uscita.
Aggrappandosi tenacemente a un pretesto qualunque per sfogare quell’inquieto
sentimento, gli uomini, per qualsiasi sciocchezza, si lanciavano gli uni contro
gli altri come belve. Avvenivano risse sanguinose, che a volte si concludevano
con qualche ferito e talora anche con un morto.
Nei rapporti fra gli uomini dominava,
soprattutto, un sentimento di rancore in agguato, un rancore radicato quanto
l’inguaribile stanchezza dei muscoli. L’uomo nasceva con questa malattia
dell’anima ereditata dai padri, che lo accompagnava come un’ombra nera fino
alla tomba, spingendolo a compiere, nel corso della vita, una serie di atti,
infami per la loro crudeltà inutile.
La festa, i giovani rientravano a notte
tarda con gli abiti strappati, pieni di fango e di polvere, con il viso pesto,
vantandosi malignamente dei colpi inferti ai compagni, oppure sconfitti, quasi
piangendo di ira e di mortificazione, ubriachi e miserevoli, infelici e
disgustosi. Talvolta i ragazzi venivano riportati a casa dai padri e dalle
madri. Li trovavano sulla strada, addossati a una palizzata o ubriachi fradici
in qualche osteria; inveivano malamente contro di loro, picchiavano con i pugni
i corpi dei figli resi flaccidi dalla vodka, poi li cacciavano a letto in
maniera più o meno gentile per svegliarli la mattina dopo, di buon’ora, quando
nell’aria buia si effondeva, come un rivolo cupo, l’urlo delle sirene che
chiamavano al lavoro.
Non risparmiavano ai figli né ingiurie né
botte, ma l’ubriachezza e le risse dei giovani parevano ai vecchi fenomeni del
tutto naturali giacché anch’essi, quando erano giovani, avevano bevuto e si
erano azzuffati e anch’essi le avevano prese dai padri e dalle madri. La vita
era sempre stata così; essa scorreva da anni lenta e uniforme come un torbido
fiume verso mete sconosciute, basata sulla solida e antica abitudine di pensare
e di fare sempre le stesse cose, un giorno dopo l’altro. E nessuno aveva il
desiderio di provare a cambiarla.
Talvolta nel sobborgo giungevano di
lontano uomini sconosciuti. Dapprima attiravano l’attenzione unicamente perché
erano forestieri, poi suscitavano un leggero, tutto esteriore interesse con i
loro racconti sui luoghi dove avevano lavorato, ma ben presto la novità si
dileguava, ci si abituava a loro, ed essi passavano inosservati. Dai loro
racconti era chiaro che la vita dell’operaio si svolgeva allo stesso modo in
ogni luogo. E se era così, che scopo c’era a parlarne?
Ma talora qualcuno di essi diceva cose che
nel sobborgo non si erano mai sentite. Nessuno discuteva, ma tutti ascoltavano
con diffidenza i suoi strani discorsi che in alcuni suscitavano un’irritazione
cieca, in altri una torbida inquietudine, in altri ancora una leggera ombra di
speranza in un qualcosa di indefinibile, e gli uomini cominciavano a bere di
più per scacciare un’agitazione inutile e fastidiosa.
Notando nel forestiero qualcosa di
insolito, gli abitanti del sobborgo per un bel pezzo non riuscivano a
dimenticarlo e si comportavano con un’inspiegabile apprensione verso un uomo
tanto diverso da loro. Quasi temevano che quell’individuo potesse gettare nella
loro vita qualcosa che ne avrebbe turbato il corso squallidamente regolare,
gravoso, sì. Ma tranquillo. Si erano abituati a una vita che li opprimeva
sempre con la stessa forza e, non aspettandosi alcun mutamento verso
un’esistenza migliore, ritenevano ogni cambiamento capace soltanto di
accrescere quel peso.
Da coloro che dicevano cose nuove gli
abitanti del sobborgo si tenevano silenziosamente lontano. Allora gli estranei
si eclissavano, tornavano là donde erano venuti, oppure, se rimanevano nella
fabbrica, vivevano isolati qualora non sapessero fondersi in un tutto unico con
la massa uniforme degli abitanti del sobborgo.
Trascorsi così cinquant’anni di questa
vita, l’uomo moriva.
Operai
in una fabbrica russa dell’epoca della rivoluzione industriale
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