Mark Twain, appena entrato nella
sua nuova casa, riceve la visita di un esattore fiscale, scambiandolo però per
un qualunque commerciante; si vanta con lui delle sue enormi rendite e solo
quando l’uomo se ne va, capisce che la sua sincerità gli costerà un mucchio di
soldi da pagare in tasse. Come venirne fuori? Esattamente come fanno, ancora
oggi, “migliaia e migliaia dei più ricchi e più dignitosi, dei più rispettati,
onorati e corteggiati uomini” del Paese (Italia compresa)!
Questo racconto (titolo originale "A Mysterious Visit") venne pubblicato
nel 1870 nel giornale "Buffalo Express" e poi raccolto nel 1875 nel volume di brevi storie intitolato “Sketches New and Old”.
La prima persona che si accorse
di me, quando, or non è molto, misi su casa, fu un signore che disse di essere
assessore e di avere a che fare col Bilancio Interno degli Stati Uniti. Gli dissi
che non avevo mai sentito parlare di quel ramo di commercio, ma che ero lieto
lo stesso di vederlo… voleva accomodarsi? Egli si accomodò. Io non sapevo che
dire di speciale, ma sentivo che un uomo giunto alla dignità di padron di casa
deve saper fare conversazione, mostrarsi alla mano e socievole… in compagnia. E
così, in mancanza d’altro da dire, gli domandai se intendeva aprire bottega in
quei paraggi.
Mi disse di sì. (Io non volevo
fare la figura dell’ignorante, ma avevo proprio sperato che dicesse cosa aveva
da vendere.)
Mi avventurai a chiedergli: «Come vanno gli affari?». E lui
rispose: «Così così».
Allora promisi che avremmo fatto una capatina da lui e che
se la sua ditta ci fosse piaciuta ci saremmo serviti da lui. Egli rispose che
credeva che il suo esercizio ci sarebbe piaciuto quanto bastava per farci
limitare a quello; e aggiunse che non gli era mai capitato di vedere nessuno
che, uscito di lì, fosse andato a scovare un altro esercente della sua
categoria, una volta avute trattative d’affari con lui.
Quest’affermazione suonava alquanto presuntuosa, ma, a parte
la naturale espressione di delinquenza che tutti noi abbiamo, quell’uomo aveva
l’aria piuttosto per bene.
Non so di preciso come avvenne, ma a poco a poco parve che
ci fondessimo e prendessimo a scorrere insieme, nella conversazione, e allora
tutto andò liscio come l’olio. Parlammo, parlammo e parlammo… per lo meno io
parlai; e ridemmo, ridemmo e ridemmo… per lo meno lui rise. Ma nel frattempo io
conservavo la mia presenza di spirito; avevo la mia innata scaltrezza aperta a
tutto vapore, come dicono i macchinisti. Ero fermamente deciso a scoprire tutto
dei suoi affari, a dispetto delle sue risposte oscure; ed ero deciso a
cavarglielo di bocca senza che egli neppure sospettasse a che cosa miravo. Avevo
l’intenzione di intrappolarlo con un’astuzia sottilissima. Gli avrei raccontato
tutto degli affari miei e, naturalmente, durante il mio seducente accesso di
confidenza, egli si sarebbe tanto acceso di simpatia per me, che si sarebbe
distratto e mi avrebbe raccontato tutti gli affari suoi prima di sospettare il
gioco. Dissi fra me: «Figlio mio, tu non sai con che vecchia volpe hai a che
fare.» Poi cominciai:
«Dunque, lei non indovinerebbe mai quanto ho fatto con le
conferenze (1) quest’inverno e la primavera scorsa…»
«No… credo che non ci riuscirei a nessun costo. Vediamo,
vediamo. Intorno ai duemila dollari, forse? Ma no; nossignore, non credo che
possa aver fatto tanto. Diciamo millesettecento, forse?»
«Ah, ah! Lo sapevo che non avrebbe indovinato. Gli introiti
delle mie conferenze, la primavera scorsa e quest’inverno, sono stati
quattordicimilasettecentocinquanta dollari. Eh, che gliene pare?»
«Perbacco, è sbalorditivo… assolutamente sbalorditivo. Ne voglio
prender nota. E lei dice che questo non è stato tutto?»
«Tutto? Santo cielo, c’è stato lo stipendio de L’urlo di Guerra Quotidiano (2) per
quattro mesi; circa… be’ cosa ne direbbe lei di ottomila dollari circa, per esempio?»
«Cosa ne direi? Be’, direi che mi piacerebbe nuotare in un
tale oceano d’abbondanza. Ottomila! Ne voglio prendere nota. Perdinci bacco! E
oltre a tutto questo, dovrei credere che lei ha anche altri redditi?»
«Ah, ah, ah! ma come, lei è ancora nei sobborghi, per così dire.
C’è il mio libro Gli innocenti all’estero…
(3), prezzo variante dai tre dollari e cinquanta ai cinque dollari, a seconda
della rilegatura. Stia a sentire. Mi guardi negli occhi. Negli ultimi quattro
mesi e mezzo, per non dir nulla delle vendite precedenti, ma semplicemente
negli ultimi quattro mesi e mezzo, abbiamo venduto novantacinquemila copie del
libro. Novantacinquemila! Pensi un po’. Diciamo una media di quattro dollari a
copia. Fa circa quattrocentomila dollari, figlio mio. A me ne viene la metà.»
«Per le disgrazie di Mosè (4). Me lo voglio scrivere. Quattordicimilasettecentocinquanta…
otto… duecento. Totale, diciamo… be’, parola mia, il grandioso totale è di
circa duecentotredici o quattordicimila dollari! È mai possibile?»
«Possibile? Se c’è uno sbaglio, è nell’altro senso. Duecentoquattordicimila
in contanti è il mio reddito di quest’anno, se so far di conto.»
Allora quel signore si alzò per
andarsene. Mi venne fatto di pensare, con un gran senso di disagio, che forse
avevo fatto le mie rivelazioni per niente, oltre ad essere stato portato ad esagerarle
considerevolmente dalle esclamazioni di stupore dello sconosciuto. Ma no; all’ultimo
momento il signore mi porse una gran busta, dicendo che conteneva la sua
pubblicità e che lì avrei trovato tutte le informazioni circa i suoi affari; e
che sarebbe stato felice della mia clientela, anzi sarebbe stato fiero della clientela di un uomo dal
reddito prodigioso come il mio; che spesso aveva pensato che in città ci
fossero parecchi uomini facoltosi, ma che, quando venivano a trattative di
affari con lui, scopriva sempre che avevano a stento di che vivere; e che, a
dire il vero, era passata una tale eternità dall’ultima volta che aveva visto
in faccia un uomo ricco e gli aveva parlato e l’aveva toccato con le sue mani,
che a fatica si poteva tenere dall’abbracciarmi… anzi avrebbe giudicato un gran
favore se gli avessi permesso di abbracciarmi.
Questo mi fece tanto piacere, che
non cercai di resistere, e permisi a quello sconosciuto dal cuore semplice di
buttarmi le braccia al collo e di piangere alcune lacrime di consolazione giù
per la mia collottola. Poi se ne andò per la sua strada.
Non appena se ne fu andato,
apersi il suo foglio di pubblicità. Lo studiai attentamente per quattro minuti.
Poi chiamai la cuoca e le dissi:
«Reggimi mentre svengo! Lascia girare le cialde a Maria.»
Ah, miscredente che non era
altro! La sua «pubblicità»
non era che un perfido formulario per le tasse… una filza di domande
impertinenti sui miei affari privati, che riempivano la maggior parte di
quattro fogli protocollo in caratteri minuti… domande, mi sia permesso
osservare, almanaccate con sì mirabile abilità, che l’uomo più anziano del
mondo non sarebbe riuscito a capire a cosa mirassero, per la maggior parte…
domande, poi, calcolate in modo da far dichiarare a una persona il suo
autentico reddito non meno di quattro volte, per impedirgli di giurare il
falso. Cercai una scappatoia, ma non pareva che ce ne fosse alcuna. La domanda
n. 1 copriva il mio caso con tutta la generosità e tutta l’ampiezza con cui un
ombrello coprirebbe un formicaio.
«Quali sono stati i vostri redditi durante il decorso anno,
da qualsivoglia negozio, transazione di affari o altra occupazione, comunque
svolti?»
E tale inchiesta era spalleggiata
da altre tredici di natura altrettanto indiscreta, la più moderata delle quali
esigeva informazioni circa eventuali furti con scasso o rapine a mano armata o
incendi dolosi, o altre segrete fonti di provento da cui io avessi ricavato
profitto non contemplato nella mia dichiarazione di reddito posta a fronte
della domanda n. 1.
Era chiaro che lo sconosciuto mi
aveva messo in grado di fare la figura dell’allocco, era chiaro, chiarissimo. Facendo
leva sulla mia vanità, lo sconosciuto mi aveva portato a dichiarare un reddito
di duecentoquattordicimila dollari. Per legge, mille dollari erano esenti da
tassa sul reddito; era l’unico alleggerimento che riuscivo a vedere, e non che una
goccia nell’oceano. In ragione del cinque per cento di legge, dovevo pagare al
governo diecimilaseicentocinquanta dollari di tasse sul reddito!
Posso anche far osservare, a
questo punto, che non li ho pagati.
Ho fra i miei conoscenti un uomo
molto facoltoso, la cui abitazione è un palazzo, la cui mensa è regale, le cui
spesi sono enormi; eppure è un uomo che non ha reddito, come ho spesso
osservato dalle sue dichiarazioni fiscali; e a lui mi rivolsi per consiglio
nella mia tribolazione. Egli prese il mio spaventoso incartamento, si mise gli
occhiali, prese la penna e, tac!, io fui un nullatenente. E lo fece
semplicemente manipolando con destrezza la lista delle «spese». Segnò tanto «per tasse governative e comunali»;
tanto di «perdita per naufragio, incendio, eccetera»; tanto di «perdita su vendita di beni
immobili», su «vendita di bestiame», su «canoni di affitto di cascinali», su «riparazioni,
migliorie e interessi», su «onorario già tassato in precedenza come ufficiale
dell’esercito degli Stati Uniti, della marina, della dogana», e altre cose. Riuscì
a cavare riduzioni sbalorditive da tutte queste voci… da tutte quante. E quando
ebbe finito, mi porse il foglio, e io vidi al primo sguardo che durante l’anno
il mio reddito attivo era stato di milleduecentocinquanta dollari e quaranta
centesimi.
«Ora,» aggiunse, «i mille dollari sono esenti per legge. Tutto
quel che lei deve fare è andare ad affermare con giuramento la veridicità di
questa dichiarazione e pagare la tassa sui duecentocinquanta dollari.»
Mentre mi faceva questo discorso,
il suo figlioletto Guglielmino gli prelevò dalla tasca del gilè un biglietto di
due dollari e poi si dileguò; e io scommetterei qualunque cosa che se domani il
mio forestiero andasse a trovare quel ragazzino, ne ricaverebbe una falsa
dichiarazione di reddito.
«E lei,» dissi, «lei, signore, calcola sempre le “spese” a
questa maniera, per quanto la riguarda?»
«Sfido io! Se non fosse per queste undici clausole
salvatrici, sotto la voce “spese”, ogni anno mi ridurrei alla mendicità per
sostenere questo odioso e perfido governo, sfruttatore e tiranno.»
Questo signore spicca fra gli
uomini più rispettabili della città, come uno dei migliori: uomini di
consistenza morale, di integrità commerciale, di insospettabile illibatezza
sociale… e quindi m’inchinai al suo esempio. Andai giù all’ufficio delle imposte
e, sotto lo sguardo di accusa del mio antico visitatore, mi alzai e affermai
con giuramento una bugia dopo l’altra, una frode dopo l’altra, una mascalzonata
dopo l’altra, finché la mia anima non fu ricoperta di strati su strati di
spergiuro e il rispetto di me stesso non fu in me scomparso per sempre.
Ma che importa? Non è altro che
quello che fanno tutti gli anni migliaia e migliaia dei più ricchi e più
dignitosi, dei più rispettati, onorati e corteggiati uomini d’America. E perciò
non me ne importa niente. Non mi vergogno. Mi limiterò semplicemente, per ora,
a parlar poco e ad evitare di forzar la mano, per non correre il rischio di
prendere irrevocabilmente certe pessime abitudini.
(1) Mark Twain fu effettivamente
anche un noto conferenziere e ben pagato.
(2) titolo di giornale inventato,
ma terribilmente spassoso.
(3) titolo di una vera opera di
Mark Twain, sulle impressioni di un gruppo di americani durante un viaggio in
Europa.
(4) in originale “The suffering
Moses”, espressione di stupore di natura biblica.
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