Pubblicato con il titolo ““How I
Edited an Agricultural Paper Once” nel 1870 nel giornale The Galaxy, questo racconto satirico se la prende con il mondo dei
giornali, dove meno uno ne sa, più vende. Credo che valga ancora oggi.
Non fu senza perplessità che
assunsi temporaneamente la redazione di un giornale agrario. Non senza
perplessità un abitante della terraferma prenderebbe il comando di una nave. Ma
mi trovavo in circostanze che facevano della paga una mèta importante. Il vero
redattore del giornale doveva partire per le vacanze, ed io accettai le
condizioni da lui offertemi e presi il suo posto.
La sensazione di essere di nuovo
al lavoro era grandiosa, ed io lavorai con soddisfazione costante per l’intera
settimana. Il giornale andò in macchina, e per un giorno attesi, non senza
ansia, di vedere se il mio sforzo avrebbe avuto qualche risonanza. Mentre
lasciavo l’ufficio, verso il tramonto, un gruppo di uomini e di ragazzi ai
piedi delle scale si sciolse di colpo e fece ala al mio passaggio; sentii uno o
due che dicevano: «È
lui!». La cosa, naturalmente, mi fece piacere. La mattina dopo trovai, ai piedi
delle scale, un gruppo del genere nonché altra gente, isolata o a coppie,
sparsa qua e là per la strada lungo il mio percorso, che mi osservava con
interesse. Non appena mi avvicinai, il gruppo si sciolse e si trasse indietro,
e sentii un uomo che diceva: «Guardategli gli occhi!». Finsi di non far caso
all’attenzione che andavo destando, ma dentro di me ne ero compiaciuto e mi proponevo
di scriverne un racconto a mia zia. Salii quei pochi gradini e, mentre mi
avvicinavo alla porta, sentii voci allegre e una risata fragorosa; aprii la
porta ed ebbi la fuggevole visione di due giovanotti – contadini, a giudicare
dall’aspetto – e le cui facce, non appena mi videro, si fecero lunghe e smorte,
dopodiché entrambi si buttarono dalla finestra con un gran tonfo. Restai
sorpreso.
Di lì a mezz’ora un vecchio signore dalla barba fluente e
dal volto nobile ed austero fece il suo ingresso, e dietro mio invito si mise a
sedere. Aveva l’aria di chi è oppresso da qualche pensiero. Si levò il cappello
e lo posò sul pavimento, e ne cavò un fazzoletto di seta rossa e una copia del
nostro giornale.
Si posò il giornale in grembo e, mentre si puliva gli occhiali
col fazzoletto, disse: «Siete voi il nuovo redattore?»
Risposi che ero proprio io.
«Avete mai diretto un giornale agrario prima d’ora?»
«No,» replicai, «questo è il mio primo tentativo.»
«Capisco. Avete qualche esperienza diretta di agricoltura?»
«No. Credo di no.»
«Un certo istinto me lo diceva,» disse il vecchio signore,
infilandosi gli occhiali e sogguardandomi con asprezza, mentre ripiegava il
giornale fino a ridurlo ad un formato più maneggevole. «Voglio leggervi quello
che, con ogni probabilità, ha risvegliato in me quell’istinto. È stato
l’articolo di fondo. Ascoltate, e vedete un po’ se l’avete scritto voi.»
«Non si dovrebbero mai
strappare le rape: ciò le danneggia. Meglio mandare su un ragazzo a scuotere
l’albero.»
«Allora che ne pensate?... perché ho proprio idea che
l’abbiate scritto voi.»
«Che ne penso? Be’, penso che non è poi male. Penso che è
una cosa sensata. Sono certo che ogni anno, qui in questa zona, milioni e
milioni di staia di rape vanno in malora per il solo fatto di essere strappate
quando non sono ancora in stato di perfetta maturazione, mentre se si mandasse
su un ragazzo a dare una scrollata all’albero…»
«Una scrollata a tua nonna! Le rape non crescono sugli
alberi.»
«No? Ma davvero? Be’, e chi ha detto che ci crescano? L’espressione
andava presa in senso figurato, assolutamente figurato. Chiunque se ne intenda,
almeno un pochino, sa che volevo dire che il ragazzo deve dare una scrollata
alla vite.»
Allora il venerando vecchio si alzò, strappò il giornale
riducendolo a pezzi minutissimi, li calpestò con energia, ruppe parecchi
oggetti col suo bastone da passeggio e disse che io ne sapevo quanto una mucca,
e anche meno; e poi se ne uscì, sbatté la porta dietro di sé e, per farla
breve, si comportò in modo tale da farmi pensare che fosse seccato per qualche
motivo. Ma, non sapendo che cosa mai lo turbasse, non potei essergli d’aiuto.
Non passò molto che un tipo lungo lungo, dall’aspetto
cadaverico, coi capelli radi che gli pendevano giù sulle spalle, la barba di
una settimana che spuntava irta di fra le alture e le vallate della sua faccia,
entrò dalla porta come un razzo e si fermò immobile, un dito sulle labbra, la
testa e il corpo chini nell’atteggiamento di chi sta in ascolto. Non si udiva
alcun suono. Lui continuava a stare in ascolto. Nessun suono. Allora girò la
chiave nella toppa e avanzò in punta di piedi, cautissimamente, verso di me,
finché non giunse quasi a portata di mano; allora si fermò e, dopo aver
studiato la mia faccia per un bel po’, con vivo interesse, tirò fuori una copia
piegata del giornale, e disse:
«Ecco, questo l’avete scritto voi. Leggetemelo… presto!
Toglietemi questo peso. Soffro.»
Lessi quanto segue; e, mentre le frasi mi uscivano dalle
labbra, potevo vedere il sollievo giungere a poco a poco, potevo vedere i
muscoli contratti rilassarsi e l’ansia abbandonare quel volto, e il ristoro e
la pace scendere su quei lineamenti come il pietoso raggio di luna su di un
paesaggio desolato:
«Il guano è un
nobile volatile, ma gran cura si richiede per allevarlo. Non lo si dovrebbe
importare prima di giugno e dopo settembre. D’inverno è opportuno tenerlo in un
luogo caldo, di modo che i piccoli possano uscire dalle uova.
«Appare evidente
che il raccolto del granoturco sarà tardivo. Perciò sarà bene che l’agricoltore
cominci a metter fuori i suoi covoni e a piantare le sue focacce di grano
saraceno in luglio invece che in agosto.
«A proposito della
zucca. Questa bacca è prediletta dagli abitanti della parte interna del New
England che nella confezione di crostate, la preferiscono all’uva spina, e che,
similmente, l’antepongono ai lamponi come foraggio per le mucche, poiché più
sostanziosa e altrettanto soddisfacente quanto ai risultati. La zucca è l’unico
commestibile della famiglia degli aranci che attecchisca nel Nord, ad eccezione
della zucca gialla e di un paio di varietà di melopopone. Ma l’usanza di
piantarla nei giardini di fronte alle case, insieme agli alberelli ornamentali,
va rapidamente passando di moda, poiché ormai è generalmente ammesso che, come
albero ombrifero, la zucca è un fallimento.
«Ora, poiché si
avvicina la stagione calda e i paperi cominciano a deporre le uova…»
L’ascoltatore, eccitatissimo, fece un balzo, corse a
stringermi la mano, e disse:
«Ecco, ecco… basta così. Ora so di essere in me, perché voi
l’avete letto proprio come l’ho letto io, parola per parola. Ma, o straniero,
quando stamattina l’ho letto la prima volta, mi sono detto che mai, mai per il
passato l’avevo creduto, benché i miei mi tenessero sotto strettissima
sorveglianza, ma ora sì, lo credevo di essere
pazzo; e allora ho dato in un urlo che avreste sentito a due miglia di
distanza, e sono uscito per ammazzare qualcuno… perché, vedete, sapevo che
presto o tardi ci sarei arrivato, e così tanto valeva cominciare subito. Ho
riletto una di quelle frasi ancora una volta – così, tanto per esser ben sicuro
– poi ho dato fuoco alla mia casa, e via. Ho mezzo storpiato diverse persone, e
ho fatto salire un tale su un albero, dove posso acchiapparlo quando voglio. Ma
ho pensato di fare una capatina qui, mentre passavo da queste parti, tanto per
essere ben sicuro della cosa. Ora è sicura e posso dire che è una fortuna per
il tizio che è sull’albero. Al ritorno, l’avrei certo ammazzato. Addio, addio,
caro signore; mi avete tolto un gran peso dal cuore. La mia ragione ha superato
la prova di uno dei vostri articoli sull’agricoltura, e so che ora nulla può
sconvolgerla. Addio, signore.»
Provai un certo disagio per via degli storpiamenti e degli
incendi dolosi ai quali quell’individuo si era dedicato, perché non potevo fare
a meno di sentirmi, sia pure lontanissimamente, complice. Ma tali pensieri
furono ben presto allontanati, perché, all’improvviso, entro il vero redattore del giornale! (Pensai
dentro di me: «Ora, se te ne fossi andato in Egitto come ti avevo raccomandato,
avrei avuto la possibilità di farmici un po’ la mano; ma no, non hai voluto, ed
eccoti qui. In un certo senso, mi aspettavo di vederti».)
Il redattore aveva un’aria triste, perplessa e abbattuta.
Esaminò lo sfacelo che il vecchio energumeno e quei due
giovani agricoltori avevano combinato, e poi fece: «Un brutto affare… un
bruttissimo affare. Ecco: rotta la bottiglietta della colla… sei vetri e una
sputacchiera e due candelieri. Ma questo non è tutto. Il buon nome del giornale
è compromesso, e per sempre, ho paura. Vero che non c’è mai stata per il
passato tanta richiesta del giornale, e che non se ne erano mai vendute tante
copie, né aveva mai raggiunto, così d’un balzo, tanta celebrità… Ma chi
vorrebbe essere famoso grazie alla pazzia, e prosperare grazie all’infermità
mentale? Amico mio, come è vero che sono un uomo onesto, la strada qui fuori è
piena di gente, e altra se ne sta appollaiata sulle staccionate in attesa di
vederti sia pure per un istante, perché pensano che tu sia pazzo. E ne hanno
ben donde, dopo aver letto i tuoi articoli di fondo. Sono una vergogna per il
giornalismo. Ma che cosa ti ha messo in mente di essere in grado di redigere un
giornale di questo genere? È chiaro che tu non conosci neppure l’abbicì dell’agricoltura.
Tu parli di solco e di erpice come se si trattasse della stessa cosa;
chiacchieri della stagione della muda (1) per le mucche; e consigli di
addomesticare la puzzola per la sua natura amabile e vivace e la sua abilità nel
cacciare i topi! La tua osservazione sui molluschi che se ne stanno tranquilli
se si suona loro un po’ di musica era superflua: completamente superflua. Nulla
disturba i molluschi. I molluschi se ne stanno sempre tranquilli. Ai molluschi della musica non importa un bel
niente. Ah, cielo e terra, amico! se tu avessi fatto della conquista dell’ignoranza
lo scopo dei tuoi studi, in tutta la tua vita, non ti saresti potuto laureare
con maggior lode di quanto tu non abbia fatto oggi. Non ho mai visto niente di
simile. La tua osservazione sulle castagne d’India (2) che, come genere di
consumo, incontrano sempre maggior richiesta, è semplicemente fatta apposta per
rovinare questo giornale. Voglio che tu ti dimetta immediatamente e te ne vada.
Non ho più bisogno di vacanze; se me le prendessi, non potrei goderle. Certo non
con te seduto alla mia scrivania. Vivrei nel terrore continuo di quello che
potresti raccomandare alla prossima occasione. Ogniqualvolta penso alla tua
dissertazione sui vivai di ostriche, sotto il titolo Il giardinaggio come arte, perdo la pazienza. Voglio che tu te ne
vada. Nessuna ragione al mondo potrebbe indurmi a prendermi altre vacanze. Oh,
ma perché non mi hai detto prima che non sapevi niente di agricoltura?».
«Dirlo a te, gambo
di mais, testa di cavolo, figlio d’un broccolo? È la prima volta che sento un’osservazione
così insensata. Ti dico che mi sono occupato di redazione di giornali per
quattordici anni buoni, e questa è la prima volta che mi sento dire che uno
deve sapere qualcosa per redigere un giornale. Testa di rapa! Chi scrive le
critiche teatrali per i giornali di second’ordine? Eh? ex calzolai e garzoni di
speziali, che di recitazione autentica ne sa quanto ne so io di agricoltura
autentica, e neppure un etto di più. Chi recensisce i libri? Gente che non ne
ha mai scritto uno. Chi scrive i ponderosi articoli di fondo sulla finanza? Individui
che hanno avuto le più illimitate opportunità di non saper niente in proposito.
Chi critica le spedizioni contro gli indiani? Dei signori che non distinguono
un grido di guerra da un wigwam (3),
e che non hanno mai dovuto farsi una gara podistica con un tomahawk (4), o strappare le frecce dai loro familiari per prepararci,
la sera, il fuoco da campo. Chi scrive gli appelli per l’astinenza dall’alcool
e leva alte proteste contro l’inebriante calice? Gente che, finché non sarà
nella tomba, seguiterà, ogniqualvolta respira, a mandare zaffate di liquori. Chi
pubblica giornali agrari? Tu, eh? in genere, dei falliti nel campo della
poesia, nel campo del romanzo giallo, nel campo del drammone sensazionale, nel
campo dei grandi quotidiani, che alla fine cercano riparo nell’agricoltura come
in un rifugio temporaneo dall’ospizio per i poveri. E proprio tu vuoi insegnare – a me – come si fanno i giornali! Signore, lo conosco dall’A alla
Zeta, e ti dico che, meno uno ne sa e più è il baccano che fa e più alto è lo
stipendio che pretende. Se soltanto – e il cielo mi è testimone – fossi stato
ignorante anziché colto, e impudente anziché riservato, avrei potuto farmi un
nome in questo gelido mondo egoista. Vi saluto, caro signore. Poiché sono stato
trattato come mi avete trattato, sono più che disposto ad andarmene. Ma ho
fatto il mio dovere. Mi sono mantenuto fedele al mio contratto finché mi è
stato possibile. Avevo detto che ero in grado di far salire la vostra tiratura
a ventimila copie, e, se solo avessi avuto altre due settimane, lo avrei fatto.
E vi avrei dato il miglior pubblico di lettori che un giornale agrario abbia
mai avuto: senza nemmeno un contadino, né un solo individuo capace di
distinguere un albero di angurie da una vigna di pesche, no, ne dovesse andare
della vita. Siete voi che ci perdete, con questa rottura, non io, o pianta di
torte. Adios.»
E poi me ne andai.
(1) muda = il cambiamento annuale delle penne degli uccelli
(2) castagne d’India = il frutto dell’ippocastano, che, pur
di forma simile a una castagna, non è commestibile
(3) wigwam = la tenda a forma di cono dei pellirosse
(4) tomahawk = l’ascia da guerra dei pellirosse (la gara
podistica con un tomahawk è, ovviamente, la fuga di un bianco inseguito da un
indiano ostile)
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