Pubblicato per la prima volta
nell’agosto 1871 sul magazine “The Galaxy”, questo racconto (il cui titolo
originale è “About Barbers”) racconta le disavventure di un cliente, che
capita, in un negozio di barbiere, nelle mani del meno esperto dei garzoni di
bottega. Con uno spirito paradossale, ma non così distante dalla realtà anche
odierna.
Tutto si trasforma quaggiù,
tutto, eccetto i barbieri, i modi dei barbieri e le cose che riguardano i
barbieri. Queste non cambiano mai. Ciò che si prova la prima volta che si mette
piede nella bottega di un barbiere è precisamente ciò che si proverà ogni altra
volta fino alla fine dei nostri giorni.
Stamattina sono uscito come al
solito per farmi radere. Mentre mi avvicinavo alla porta della bottega, ecco un
tale che vi si stava dirigendo dalla parte opposta. Tutte le volte succede. Ho accelerato
il passo; ma niente da fare, è arrivato prima lui, proprio di un soffio, e io
sono dovuto entrare dietro di lui che si è subito seduto sull’unica poltrona
libera, quella servita dal miglior garzone della bottega. È sempre così.
Mi sono seduto ad aspettare,
sperando di ereditare la poltrona servita dal meno peggio dei due altri giovani
del negozio, che vedevo già occupato a pettinare i capelli del suo cliente,
mentre il collega non aveva ancor finito di lisciare e impomatare la testa del
suo. Così mi sono messo a calcolare la probabilità di cadere nelle mani dell’uno
o dell’altro. Quando mi sono accorto che il giovane numero due guadagnava terreno
sul giovane numero uno, ho cominciato a sentirmi inquieto. Quando il numero uno
si è arrestato un momento, la mia inquietudine si è trasformata in ansia. Quando
il numero uno ha riacquistato un po’ di vantaggio e li ho visti tutti e due
togliere gli asciugamani dal collo dei due clienti e spolverarli di borotalco,
tutti e due sul punto di dire: «A
chi tocca adesso?», ho trattenuto il fiato per l’angoscia.
Ma quando, nel momento decisivo, il numero uno si è attardato
a dare due colpi di pettine alle sopracciglia del suo uomo e ho capito che
aveva perduto la corsa, mi sono alzato indignato e sono uscito dal negozio per
non cadere nelle mani del numero due. Non sono di quelli, io, che hanno l’invidiabile
coraggio di guardare tranquillamente negli occhi il giovane di bottega che gli
offre la poltrona e di dirgli che preferiscono aspettare che il suo collega sia
libero. Così sono andato a fare due passi per un quarto d’ora e poi sono rientrato
con la speranza di miglior fortuna. Naturalmente tutte le poltrone erano
occupate e quattro altri clienti sedevano aspettando in silenzio, assorti e
chiusi in viso, con quello sguardo annoiato che si ha sempre dal barbiere
quando si aspetta il proprio turno.
Mi sono seduto sul sofà e ho cercato per un poco di
ingannare il tempo leggendo i cartelloni pubblicitari delle lozioni per tingere
e rinvigorire i capelli; poi le bisunte etichette delle boccette di profumi dei
clienti; poi i nomi e i numeri dei catini; e per un pezzo ho studiato le
vecchie stampe colorate appiccicate ai muri: battaglie, defunti presidenti
della repubblica, sultane voluttuosamente sdraiate e l’eterna insopportabile
ragazzina che si mette gli occhiali del nonno; e ho mandato un paio d’accidenti
al brioso canarino e all’atroce pappagallo che non mancano mai nelle botteghe
di barbiere. Alla fine ho cercato il meno logoro dei giornali illustrati dell’anno
passato che ingombravano il sudicio tavolo centrale e ho imparato a memoria le
sue bugie su avvenimenti ormai passati da un pezzo. Finalmente è venuto il mio
turno. Una voce ha detto: «A chi tocca?» e io mi sono trovato nelle mani del…
del numero due, naturalmente. Succede sempre così.
Gli ho detto con dolcezza che avevo molta fretta. Ne è
rimasto così impressionato che credo non mi abbia nemmeno sentito. Mi ha alzato
la testa, mi ha passato un asciugamano sotto la nuca, mi ha ficcato le dita nel
collo per fissarvi un altro asciugamano. Poi si è messo ad esaminare i miei
capelli ficcandoci dentro le unghie e ha osservato che avevano bisogno di una
spuntatina. Gli ho detto che non volevo tagliarmi i capelli. Allora si è messo
a studiarli di nuovo e ha deciso che erano assolutamente troppo lunghi. Gli ho
detto che me li avevano appena tagliati la settimana prima. È rimasto un
momento indeciso; poi mi ha chiesto con profondo disprezzo:
«Chi ve li ha tagliati?»
«Proprio voi!»
Colpito in pieno, non ha detto
nulla. Si è messo a rimestare il sapone per la barba, e intanto si guardava
nello specchio, fermandosi ogni tanto per studiarsi un foruncolo sulla punta
del mento. Finalmente ha cominciato a insaponarmi da una parte e stava per
passare dall’altra, quando è stato attirato da due cani che si azzuffavano nella
strada. È corso
alla finestra e c’è stato fino alla fine della scena, e con mia grandissima
soddisfazione ha perso anche due scellini che aveva scommesso coi colleghi. Poi
ha finito di insaponarmi col pennello e ha cominciato a stropicciarmi con le
mani la faccia insaponata.
Dopo di che ha dovuto affilare il
rasoio sul cuoio di una vecchia bretella e ha perso un sacco di tempo a
discutere su di un ballo in maschera cui ha preso parte ieri sera, camuffato da
re con un vestito di tela rossa e un mantello di ermellino di coniglio. Diceva di
aver fatto girare la testa a una ragazza con le sue arie regali ed era così
felice delle battute dei colleghi che cercava in tutti i modi di tirarla per le
lunghe facendo finta di essere seccato delle loro allusioni.
Così ha sentito il bisogno di
osservarsi con maggior compiacenza nello specchio. Ha deposto il rasoio, si è
spazzolato i capelli con gran cura, ha spianato il ciuffo sulla fronte, rifatto
la riga e dato un colpettino di spazzola, con grande abilità e precisione,
sulle due tempie. Intanto, sulla mia faccia, il sapone si era del tutto
prosciugato fino a penetrare nella pelle.
Allora ha cominciato a radermi,
piantandomi le dita nelle guance per tenerle distese e sballottandomi la testa
da una parte all’altra. Finché ha avuto a che fare con le guance me la sono
cavata abbastanza bene, ma quando si è messo a raschiarmi, a grattare e
stiracchiare il mento sono cominciati i guai. Mi ha afferrato il naso come
fosse un manico per radermi meglio il labbro superiore e così ho scoperto che
tra le sue mansioni ci deve essere anche quella di pulire le lampade della
bottega, tanto le sue dita puzzavano di petrolio. Già mi ero chiesto altre
volte chi fosse a sbrigare questa mansione, se i giovani di bottega o il padrone.
Ora lo so.
Intanto cercavo di distrarmi
tentando di indovinare dove mi avrebbe fatto il primo taglio; ma lui è stato
più svelto di me e mi ha tagliato la punta del mento prima che io avessi
risolto la questione: immediatamente si è rimesso ad affilare il rasoio. Accidenti,
avrebbe potuto farlo meglio prima. Già mi piace poco farmi raschiare la pelle;
ho tentato quindi di fargli deporre il rasoio perché non gli venisse in mente
di passare una seconda volta sullo stesso punto e lavorarmi a modo suo la
piccola graziosa ferita col risultato di rovinarmi il mento del tutto.
Mi lui mi ha risposto che
desiderava soltanto pareggiare certe piccole asperità e subito ha ripassato il
rasoio proprio dove temevo, col risultato che immediatamente i pori della pelle
ormai troppo raschiati si son messi a bruciare maledettamente.
Lui allora ha imbevuto un
asciugamano con acqua profumata e me l’ha sbattuto brutalmente in viso, come se
fosse questo il modo migliore per lavare la faccia. Quindi ha cominciato a
sfregarmi violentemente con la parte asciutta dell’asciugamano come se fosse
questo il modo migliore per asciugarla; ma è difficile che un barbiere vi
tratti da cristiano. Quindi mi ha bagnato la ferita con acqua profumata, ha
cercato di stagnare il sangue con borotalco; poi ha lavato via il borotalco con
nuova acqua e avrebbe certamente continuato per un pezzo a spolverarmi e a
bagnarmi se non mi fossi ribellato pregandolo di smettere. Allora mi ha
spolverato tutta la faccia, mi ha raddrizzato la testa, si è rimesso a
scompigliarmi apposta i capelli passandoci dentro le dita e proponendomi una
lavatina, di cui, secondo lui, i miei capelli avevano assoluto bisogno. Gli ho
fatto osservare che me li ero lavati io stesso facendo il bagno.
Allora ha cominciato a
raccomandarmi il «Glorificatore
dei capelli di Smith» e mi ha proposto di comprarne una bottiglia. Ho rifiutato.
Immediatamente si è messo a lodare il nuovo profumo «La delizia della toeletta
di Jones» perché ne comperassi un flacone. Ho rifiutato di nuovo. Ma non si è
dato per vinto e mi ha offerto uno spazzolino da denti di sua invenzione; e
poiché ho detto di no, mi ha proposto un affare di temperini.
Fallito anche questo tentativo, si è rimesso all’opera, mi
ha bagnato dalla testa ai piedi con lo spruzzatore, mi ha impomatato i capelli
e quasi me li ha strappati dalle radici, mi ha ravviato e lisciato con la
spazzola, mi ha rifatto la riga, mi ha spianato il ciuffo sulla fronte e
passandomi il pettine sulle rade sopracciglia imbrattate di pomata, ha
cominciato ad elencarmi le prodezze di un suo cane, un piccolo terrier nero e
caffè, finché ho udito il fischio delle sirene di mezzogiorno e mi sono accorto
di aver perso il treno. Lui ha strappato via l’asciugamano, mi ha spazzolato la
faccia, mi ha passato il pettine di nuovo sulle sopracciglia e tutto allegro ha
gridato: «A chi tocca?».
Due ore più tardi, il mio giovanotto è morto d’un colpo
apoplettico. Sono impaziente che arrivi domani per vendicarmi: andrò al suo
funerale.
Un negozio di barbiere nel secolo XIX
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