Scritto
nell’agosto-settembre del 1829, questo componimento in endecasillabi sciolti e
in strofe di diversa lunghezza, nasce dal ritorno a casa di Leopardi, dopo un’assenza
di tre anni, e dalla marea di ricordi che ogni cosa, ogni ambiente suscitano in
lui. Ricordi fatti dei sogni, delle speranze e delle illusioni della
fanciullezza e dell’adolescenza, che si scontrano con la realtà attuale, vuota
e inutile perché quei sogni si sono ormai infranti e la speranza più bella
(quella dell’amore) è rappresentata da Nerina, una fanciulla simile a Silvia, come
lei morta giovane, esattamente come le illusioni del poeta.
Ma se
la giovinezza è ormai perduta, essa rivive nella memoria ed ha ancora la forza
di suscitare favole bellissime, per quanto malinconiche; negli anni dei grandi
idilli Leopardi scrisse nello Zibaldone che «la rimembranza è essenziale e
principale al sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente,
qual che egli sia, non può essere poetico; in uno o in un altro modo, si trova
sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago».
Vaghe stelle dell'Orsa, io non
credea
tornare ancor per uso a
contemplarvi
sul paterno giardino scintillanti,
e ragionar con voi dalle finestre
di questo albergo ove abitai
fanciullo,
e delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante
fole
creommi nel pensier l'aspetto
vostro
e delle luci a voi compagne! allora
che, tacito, seduto in verde zolla,
delle sere io solea passar gran
parte
mirando il cielo, ed ascoltando il
canto
della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
e in su l'aiuole, susurrando al
vento
i viali odorati, ed i cipressi
là nella selva; e sotto al patrio
tetto
sonavan voci alterne, e le
tranquille
opre de' servi. E che pensieri
immensi,
che dolci sogni mi spirò la vista
di quel lontano mar, quei monti
azzurri,
che di qua scopro, e che varcare un
giorno
io mi pensava, arcani mondi, arcana
felicità fingendo al viver mio!
ignaro del mio fato, e quante volte
questa mia vita dolorosa e nuda
volentier con la morte avrei
cangiato.
Né mi diceva il cor che l'età verde
sarei dannato a consumare in questo
natio borgo selvaggio, intra una
gente
zotica, vil; cui nomi strani, e
spesso
argomento di riso e di trastullo,
son dottrina e saper; che m'odia e
fugge,
per invidia non già, che non mi
tiene
maggior di sé, ma perché tale
estima
ch'io mi tenga in cor mio, sebben
di fuori
a persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato,
occulto,
senz'amor, senza vita; ed aspro a
forza
tra lo stuol de' malevoli divengo:
qui di pietà mi spoglio e di
virtudi,
e sprezzator degli uomini mi rendo,
per la greggia ch'ho appresso: e
intanto vola
il caro tempo giovanil; più caro
che la fama e l'allor, più che la
pura
luce del giorno, e lo spirar: ti
perdo
senza un diletto, inutilmente, in
questo
soggiorno disumano, intra gli
affanni,
o dell'arida vita unico fiore.
Viene il vento recando il suon
dell'ora
dalla torre del borgo. Era conforto
questo suon, mi rimembra, alle mie
notti,
quando fanciullo, nella buia
stanza,
per assidui terrori io vigilava,
sospirando il mattin. Qui non è
cosa
ch'io vegga o senta, onde
un'immagin dentro
non torni, e un dolce rimembrar non
sorga.
Dolce per sé; ma con dolor
sottentra
il pensier del presente, un van
desio
del passato, ancor tristo, e il
dire: io fui.
Quella loggia colà, volta agli
estremi
raggi del dì; queste dipinte mura,
quei figurati armenti, e il Sol che
nasce
su romita campagna, agli ozi miei
porser mille diletti allor che al
fianco
m'era, parlando, il mio possente
errore
sempre, ov'io fossi. In queste sale
antiche,
al chiaror delle nevi, intorno a
queste
ampie finestre sibilando il vento,
rimbombaro i sollazzi e le festose
mie voci al tempo che l'acerbo,
indegno
mistero delle cose a noi si mostra
pien di dolcezza; indelibata,
intera
il garzoncel, come inesperto
amante,
la sua vita ingannevole vagheggia,
e celeste beltà fingendo ammira.
O speranze, speranze; ameni inganni
della mia prima età! sempre,
parlando,
ritorno a voi; che per andar di
tempo,
per varïar d'affetti e di pensieri,
obbliarvi non so. Fantasmi,
intendo,
son la gloria e l'onor; diletti e
beni
mero desio; non ha la vita un
frutto,
inutile miseria. E sebben voti
son gli anni miei, sebben deserto,
oscuro
il mio stato mortal, poco mi toglie
la fortuna, ben veggo. Ahi, ma
qualvolta
a voi ripenso, o mie speranze
antiche,
ed a quel caro immaginar mio primo;
indi riguardo il viver mio sì vile
e sì dolente, e che la morte è
quello
che di cotanta speme oggi m'avanza;
sento serrarmi il cor, sento ch'al
tutto
consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
sarammi allato, e sarà giunto il
fine
della sventura mia; quando la terra
mi fia straniera valle, e dal mio
sguardo
fuggirà l'avvenir; di voi per certo
risovverrammi; e quell'imago ancora
sospirar mi farà, farammi acerbo
l'esser vissuto indarno, e la
dolcezza
del dì fatal tempererà d'affanno.
E già nel primo giovanil tumulto
di contenti, d'angosce e di desio,
morte chiamai più volte, e
lungamente
mi sedetti colà su la fontana
pensoso di cessar dentro
quell'acque
la speme e il dolor mio. Poscia,
per cieco
malor, condotto della vita in
forse,
piansi la bella giovanezza, e il
fiore
de' miei poveri dì, che sì per
tempo
cadeva: e spesso all'ore tarde,
assiso
sul conscio letto, dolorosamente
alla fioca lucerna poetando,
lamentai co' silenzi e con la notte
il fuggitivo spirto, ed a me stesso
in sul languir cantai funereo
canto.
Chi rimembrar vi può senza sospiri,
o primo entrar di giovinezza, o
giorni
vezzosi, inenarrabili, allor quando
al rapito mortal primieramente
sorridon le donzelle; a gara
intorno
ogni cosa sorride; invidia tace,
non desta ancora ovver benigna; e
quasi
(inusitata maraviglia!) il mondo
la destra soccorrevole gli porge,
scusa gli errori suoi, festeggia il
novo
suo venir nella vita, ed inchinando
mostra che per signor l'accolga e
chiami?
Fugaci giorni! a somigliar d'un
lampo
son dileguati. E qual mortale
ignaro
di sventura esser può, se a lui già
scorsa
quella vaga stagion, se il suo buon
tempo,
se giovanezza, ahi giovanezza, è
spenta?
O Nerina! e di te forse non odo
questi luoghi parlar? caduta forse
dal mio pensier sei tu? Dove sei
gita,
che qui sola di te la ricordanza
trovo, dolcezza mia? Più non ti
vede
questa Terra natal: quella
finestra,
ond'eri usata favellarmi, ed onde
mesto riluce delle stelle il
raggio,
è deserta. Ove sei, che più non odo
la tua voce sonar, siccome un
giorno,
quando soleva ogni lontano accento
del labbro tuo, ch'a me giungesse,
il volto
scolorarmi? Altro tempo. I giorni
tuoi
furo, mio dolce amor. Passasti. Ad
altri
il passar per la terra oggi è
sortito,
e l'abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
fu la tua vita. Ivi danzando; in
fronte
la gioia ti splendea, splendea
negli occhi
quel confidente immaginar, quel lume
di gioventù, quando spegneali il
fato,
e giacevi. Ahi Nerina! In cor mi
regna
l'antico amor. Se a feste anco
talvolta,
se a radunanze io movo, infra me
stesso
dico: o Nerina, a radunanze, a
feste
Tu non ti acconci più, tu più non
movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e
suoni
Van gli amanti recando alle
fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te non torna
primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
piaggia ch'io miro, ogni goder
ch'io sento,
dico: Nerina or più non gode; i
campi,
l'aria non mira. Ahi tu passasti,
eterno
sospiro mio: passasti: e fia
compagna
d'ogni mio vago immaginar, di tutti
i miei teneri sensi, i tristi e
cari
moti del cor, la rimembranza
acerba.
PARAFRASI:
Vaghe stelle dell’Orsa, io non
credevo
di tornare ancora come ero solito
un tempo a contemplarvi
scintillanti sul giardino paterno
e a ragionare con voi dalle
finestre
di questo albergo dove abitai
fanciullo,
e vidi la fine delle mie gioie.
Quante immagini un tempo, e quante
favole
il vostro aspetto mi creò nel
pensiero
e quello delle altre stelle chi vi
sono compagne! allora
che, taciturno, seduto sull’erba
verde del prato,
solevo passar gran parte delle sere
contemplando il cielo, e ascoltando
il canto
della rana remota nella campagna!
E la lucciola vagava presso le
siepi
e sulle aiuole, mentre sussurravano
al vento
i viali odorosi, ed i cipressi
là nel boschetto; e sotto al tetto
paterno
risuonavano voci alterne, e le
tranquille
faccende dei servi. E che pensieri
immensi,
che dolci sogni mi ispirò la vista
di quel lontano mare, quei monti
azzurri,
che di qua scopro, e che un giorno
io pensavo
di varcare, fingendo per la mia
vita
arcani mondi, arcana felicità!
ignaro del mio destino, e di quante
volte
questa mia vita dolorosa e nuda
avrei cambiato volentieri con la
morte.
Né il cuore mi diceva che la mia
verde età
sarei stato condannato a consumare
in questo
natio borgo selvaggio, in mezzo a
gente
zotica e vile; per i quali sono
nomi strani, e spesso
oggetto di riso e di derisione,
la dottrina e il sapere; che mi
odia e mi fugge,
non già per invidia, perché non mi
considera
superiore a sé, ma perché tale
crede
che io mi consideri in cuor mio,
sebbene esternamente
io non lasci mai trapelare con
nessuno segno di ciò.
Qui passo gli anni, abbandonato,
sconosciuto,
senza amore, senza vita; e
intrattabile per forza di cose
divento tra la schiera di malevoli
[che mi circondano]:
qui mi spoglio di pietà e di virtù,
e divento dispregiatore degli
uomini,
per questo gregge che ho vicino: e
intanto vola
il caro tempo giovanile; più caro
della fama e della gloria, più
della pura
luce del giorno, e del respiro: ti
perdo
senza un piacere, inutilmente, in
questo
soggiorno indegno di un uomo, tra
le angosce,
o unico fiore dell’arida vita.
Il vento viene recando con sé il
suono dell’ora
dalla torre del borgo. Era di
conforto
questo suono, mi ricordo, alle mie
notti,
quando fanciullo, nella stanza
buia,
stavo sveglio per continue paure,
sospirando che arrivasse il
mattino. Qui non c’è cosa
che io veda o senta, da cui non
torni dentro me
un’immagine, e non sorga un dolce
ricordo.
Dolce per sé stesso; ma
dolorosamente vi sottentra
il pensiero del presente, un vano
desiderio
del passato, anche se doloroso, e
la certezza che io fui [cioè che la mia
vita è finita].
Quella loggia lassù, volta agli
ultimi
raggi del giorno; questi muri
dipinti,
quegli armenti raffigurati, e il
Sole che sorge
sulla campagna solitaria, nelle ore
di svago
mi porsero mille diletti allorché
mi stava al fianco,
quasi parlasse, il mio potente
errore [quello di sognare e illudersi]
sempre, dovunque fossi. In queste
antiche sale,
al chiarore della neve, mentre
intorno a queste
ampie finestre sibilava il vento,
rimbombarono i divertimenti e le
grida
festose [di me bambino], nel tempo in cui l’acerbo, crudele
mistero delle cose si mostra a noi
pieno di dolcezza; illibata, intera
il ragazzo, come un amante
inesperto,
vagheggia la sua vita ingannevole,
e fingendo la contempla come se
fosse una bellezza divina.
O speranze, speranze; gioiosi
inganni
della mia prima età! sempre,
parlando,
ritorno a voi; perché nonostante il
trascorrere del tempo,
e il mutare degli affetti e dei
pensieri,
non so dimenticarvi. Capisco che
fantasmi
sono la gloria e l’onore; le gioie
e i beni
nient’altro che desiderio; la vita
non ha scopo,
inutile miseria. E sebbene vuoti
siano i miei anni, sebbene
desolata, oscura
la mia condizione mortale, poco mi
toglie
la fortuna, ben vedo. Ahi, ma ogni
qual volta
a voi ripenso, o mie speranze
antiche,
e a quella mia cara prima immaginazione;
se poi guardo il mio vivere così
inutile
e così dolente, e [penso] che la morte è ciò
che oggi mi resta di così tante
speranze;
sento serrarmi il cuore, sento che
completamente
non so consolarmi del mio destino.
E quando questa morte pur invocata
mi sarà al fianco, e sarà giunto il
termine
della mia sventura; quando la terra
mi sarà diventata una valle
estranea, e dal mio sguardo
fuggirà l’avvenire; di voi
certamente
mi ricorderò; e ancora quell’immagine
mi farà sospirare, mi farà
rimpiangere
d’esser vissuto invano, e riempirà
d’affanno
la dolcezza del dì fatale.
E già nel primo giovanile tumultuare
di gioia, d’angoscia e di
desiderio,
invocai la morte più volte, e a
lungo
mi sedetti là sulla fontana
pensando di por fine dentro quelle
acque
alla speranza e al mio dolore. Poi,
spinto a dubitare
di sopravvivere a causa di un male ignoto,
piansi la bella giovinezza, e il
fiore
dei miei poveri giorni, che cadeva
così
presto: e spesso a tarda ora,
seduto
sul letto consapevole [dei miei mali fisici e spirituali],
dolorosamente
poetando al [chiarore della] debole lucerna,
lamentai con il silenzio e con la
notte
lo spirito che mi abbandonava, e a
me stesso
sul languire [della vita] cantai un canto funebre.
Chi vi può ricordare senza sospiri,
o prima giovinezza, o giorni
felici, inenarrabili, allorché
per la prima volta al giovane
estasiato
sorridono le ragazze; intorno quasi
in gara
ogni cosa sorride; tace l’invidia,
ancora non destata oppure benigna;
e quasi
(meraviglia fuori del consueto) il
mondo [ossia gli uomini]
gli porge la destra in soccorso,
scusa i suoi errori, festeggia il
nuovo
suo entrare nella vita, ed
inchinandosi
gli mostra che lo chiama e l’accoglie
come un signore?
Giorni fugaci! Simili a un lampo
si sono dileguati. E quale essere
mortale può
ignorare la sua sventura, se per
lui è già trascorsa
quella stagione vaga, se il suo
tempo felice,
se giovinezza, ahi giovinezza, è
spenta?
O Nerina! e non odo forse di te
parlare questi luoghi? forse tu sei
caduta
dal mio pensiero? Dove sei andata,
che qui di te soltanto il ricordo
trovo, dolcezza mia? Non ti vede
più
questa Terra natale: quella
finestra,
da cui eri solita parlarmi, e su
cui
risplende debole il raggio delle
stelle,
è deserta. Dove sei, che non odo
più
risuonare la tua voce, così come un
giorno
quando ogni lontano accento della
tua bocca,
che giungesse a me, era solito
farmi impallidire? Altro tempo. I tuoi
giorni
sono andati, mio dolce amore. Passasti.
Ad altri
oggi è dato di passare per la
terra,
e di abitare questi colli odorosi.
Ma rapida passasti; e come un sogno
fu la tua vita. Andavi danzando; in
viso
ti splendeva la gioia, risplendeva
negli occhi
quell’immaginazione fiduciosa,
quella luce
della gioventù, quando il destino
li ha spenti,
e tu giacevi. Ahi Nerina! Nel cuore
mi regna
l’antico amore. Se talvolta ancora
a feste,
a riunioni io vado, tra me e me
dico: o Nerina, a riunioni, a feste
tu non ti prepari più, tu più non
vai.
Se torna maggio, e gli amanti vanno
recando ramoscelli e serenate alle
fanciulle,
dico: Nerina mia, per te non
ritorna
più la primavera, non torna l’amore.
Ogni giorno sereno, ogni luogo
fiorito
che io veda, ogni piacere che io
senta,
dico: Nerina ora non gode più; i
campi,
l’aria non vede. Ahi tu passasti,
eterno
sospiro mio: passasti: e sarà
compagna
di ogni mia vaga immaginazione, di
tutti
i miei teneri sensi, i tristi e
cari
moti del cuore, il ricordo
angoscioso.
La casa
di Giacomo Leopardi