domenica 3 dicembre 2017

139 Pallina (di Guy de Maupassant)



Siamo all’epoca della guerra franco-prussiana del 1870-1871; per fuggire da Rouen, invasa dai prussiani, 10 personaggi noleggiano una carrozza, diretti verso Le Havre. Essi sono:
1- il signor Loiseau, commerciante di vino, notoriamente ladro
2- la signora Loiseau, sua moglie, che guida con la sua prontezza la ditta
3- il signor Carré-Lamadon, proprietario di filande, membro – per interesse – dell’opposizione al secondo Impero francese (quello di Napoleone III)
4- la signora Carré-Lamadon, sua moglie, “consolazione degli ufficiali di buona famiglia”
5- il conte di Bréville, rappresentante del partito che sosteneva Napoleone III
6- la contessa di Bréville, figlia di un piccolo armatore, ma profondamente aristocratica
7- una vecchia suora
8- una suora dall’aspetto malaticcio
9- il signor Courdonet, un giovane democratico e repubblicano
10- una prosperosa prostituta, soprannominata “Pallina di burro” (“Boule de suif”, in originale).
Tutti trattano con disprezzo la prostituta, fino a quando non hanno bisogno di lei.
Il racconto venne pubblicato il 16 aprile 1880 su Les Soirées de Mèdan. Maupassant costruisce una storia a tesi, per sottolineare l’ipocrisia di tutti i personaggi (i nobili e i borghesi, gli ecclesiastici e i vincitori prussiani), tranne la protagonista, cui va tutta la simpatia dell’autore e del lettore.

Per giorni e giorni i resti dell’esercito in rotta attraversarono la città. Non erano soldati, ma orde sbandate. Gli uomini, con la barba lunga e sporca, le uniformi a brandelli, camminavano con passo stanco, senza bandiera, senza capi. Parevano tutti depressi, sfiancati, incapaci di pensare o di decidere, andavano avanti solo per abitudine, e appena si fermavano cadevano giù dalla fatica. Erano per lo più richiamati, gente pacifica, tranquilli possidenti, curvi sotto il peso del fucile; giovanissime reclute, vivaci, facili a spaventarsi come a entusiasmarsi, pronte all’attacco come alla fuga; in mezzo ad essi, alcuni pantaloni rossi, resti d’una divisione maciullata in una grande battaglia; scuri artiglieri in fila con fanti di diverse armi; e, ogni tanto, l’elmo lucido d’un dragone dal passo pesante che seguiva faticosamente la marcia più spedita dei fanti. Passavano anche legioni di franchi tiratori dai nomi eroici: «i Vendicatori della Disfatta; i Cittadini della Tomba; i Votati alla Morte», e dall’aspetto di banditi.
I loro capi, ex commercianti di tessuti o di granaglie, ex venditori di sego o di sapone, guerrieri d’occasione, coperti d’armi e di gradi, imbottiti di maglie, che erano stati nominati ufficiali per i loro soldi o per la lunghezza dei loro baffi, parlavano con voce stentorea, discutevano piani di battaglia, e pretendevano di sostenere da soli, sulle loro spalle di fanfaroni, la Francia agonizzante: ma avevano anche paura dei loro soldati, gente da forca, spesso coraggiosi all’estremo, predoni e viziosi.
I prussiani - si diceva - stavano per entrare a Rouen.
La Guardia Nazionale, che da due mesi faceva prudentissime ricognizioni nei boschi vicini, sparando talvolta alle proprie sentinelle, e preparandosi al combattimento quando sentiva un coniglietto muoversi tra le frasche, era rientrata alla base; le armi, le divise, tutto l’apparato bellico con cui spaventava i paracarri delle strade nazionali nel giro di una decina di chilometri, erano improvvisamente scomparsi.
Gli ultimi soldati francesi erano finalmente riusciti ad attraversare la Senna, per raggiungere Pont-Audemer attraverso Saint-Sever e Bourg-Achard; e in coda a tutti, il generale, disperato, impedito di tentare alcunché con quell’accozzaglia di straccioni, egli stesso sperduto nella grande sconfitta d’un popolo abituato a vincere e battuto disastrosamente nonostante il suo leggendario coraggio, veniva a piedi, camminando fra due ufficiali d’ordinanza.
Poi una profonda calma, un’attesa sgomenta e silenziosa erano discese sulla città. Parecchi borghesi panciuti, evirati dal commercio, attendevano ansiosamente i vincitori, tremando al pensiero che venissero considerati come armi gli spiedi del girarrosto o i coltellacci delle cucine.
Pareva che la vita si fosse fermata: le botteghe erano chiuse, le strade silenziose. Ogni tanto un abitante, intimorito dal silenzio, sgattaiolava rapido lungo i muri.
L’angoscia dell’attesa faceva desiderare l’arrivo del nemico.
Nel pomeriggio del giorno che seguì la partenza delle truppe francesi, alcuni ulani, usciti non si sa di dove, attraversarono rapidamente la città. Un po’ più tardi una massa nera discese la costa di Santa Caterina, mentre altre due ondate d’invasori comparivano dalle strade di Darnetal e di Boisguillaume. Le avanguardie dei tre corpi d’armata si congiunsero proprio nello stesso momento in piazza del Municipio; e da tutte le strade vicine arrivava l’esercito tedesco, snodando i suoi battaglioni, che facevano risuonare il selciato con il loro passo duro e cadenzato.
Lungo le case che parevano morte e deserte salivano gli ordini gridati da una voce straniera e gutturale, mentre dietro gli scuri socchiusi gli occhi degli abitanti spiavano i vincitori, padroni della città, dei beni e delle vite per «diritto di guerra».
Nelle stanze in penombra gli abitanti erano in preda allo sgomento che provocano i cataclismi, i grandi e micidiali sconvolgimenti della terra, contro i quali forza e saggezza sono inutili. Poiché, ogni volta che l’ordine delle cose è rovesciato, quando non c’è più sicurezza, quando tutto ciò ch’era protetto dalle leggi degli uomini o della natura si trova alla mercé d’una feroce ed incosciente brutalità, allora quelle stesse sensazioni ricompaiono. Il terremoto che schiaccia sotto le case in rovina un intero popolo; il fiume che straripando trascina assieme contadini annegati, carogne di bovi e travi strappate dai tetti; oppure l’esercito glorioso che massacra chi cerca di difendersi e imprigiona gli altri, che saccheggia in nome della Spada e ringrazia Iddio col rombo del cannone: sono altrettanti flagelli spaventosi che scuotono qualunque fede nell’eterna giustizia, qualunque fiducia ci sia stata insegnata nella protezione del Cielo e nella ragione dell’uomo.
Ad ogni porta bussavano piccoli gruppi di soldati, che poi scomparivano dentro le case. Era l’occupazione dopo l’invasione. Per i vinti cominciava il dovere d’essere cortesi coi vincitori.
Passato un po’ di tempo, e scomparsi i primi terrori, s’instaurò una nuova calma. In molte famiglie l’ufficiale prussiano mangiava a tavola con gli altri. Trattandosi talvolta di persona bene educata, costui, per gentilezza, commiserava la Francia e manifestava la ripugnanza di dover prender parte a una simile guerra. Gliene erano riconoscenti; senza contare che un giorno o l’altro potevano aver bisogno della sua protezione. Trattandolo bene si poteva forse ottenere di dover nutrire qualche soldato di meno. E poi, perché mettersi contro uno da cui si dipendeva completamente? Un simile comportamento sarebbe stato più temerario che audace. E la temerità non è più un difetto dei borghesi di Rouen, come lo era stato ai tempi delle eroiche difese che resero illustre la loro città. E per ultimo - motivo essenziale, data l’urbanità francese - dicevano che era permesso esser gentile coi soldati nemici, nell’intimità, purché non gli si dimostrasse familiarità in pubblico. Per strada non ci si conosceva più, ma in casa si chiacchierava volentieri, e ogni sera il tedesco si tratteneva sempre più, a riscaldarsi accanto al focolare.
Anche la città riprendeva a poco a poco il suo aspetto solito. Per il momento i francesi uscivano poco, ma i soldati prussiani pullulavano nelle strade. Del resto gli ufficiali degli ussari azzurri che con arroganza facevano risuonare sul selciato i loro grandi arnesi di morte, non pareva che avessero per i comuni cittadini un disprezzo maggiore di quello che l’anno prima avevano dimostrato gli ufficiali alpini francesi, sedendo negli stessi caffè.
Tuttavia c’era qualcosa nell’aria, qualcosa di sottile e d’ignoto, una insopportabile atmosfera estranea e una specie di odore diffuso, l’odore dell’invasione. Riempiva le case e i locali pubblici, mutava il gusto dei cibi, dando l’impressione che si fosse in viaggio, lontanissimi, fra tribù barbare e pericolose.
I vincitori volevano denaro, molto denaro. Gli abitanti pagavano sempre; erano ricchi, del resto. Ma più l’opulenza di un negoziante normanno cresce, più egli soffre per ogni sacrificio, per ogni particella del suo patrimonio che vede passare nelle mani d’un altro.
Intanto, alcuni chilometri più giù della città, seguendo il corso del fiume, verso Croisset, Dieppedalle o Biessart, i barcaioli e i pescatori traevano spesso dal fondo dell’acqua il cadavere d’un tedesco, enfiato nell’uniforme, ucciso a coltellate o a colpi di zoccolo, con la testa schiacciata da una pietra, o spinto in acqua dall’alto di un ponte. La melma del fiume seppelliva queste oscure vendette, selvagge e legittime, eroismi sconosciuti, assalti silenziosi, più pericolosi delle battaglie alla luce del giorno, e senza il frastuono della gloria.
Poiché l’odio contro lo straniero arma sempre la mano degli intrepidi pronti a morire per un’idea.
Infine, siccome gl’invasori - per quanto avessero piegato la città alla loro inflessibile disciplina - non avevano perpetrato nessuno degli orrori che avrebbero dovuto, secondo quanto si diceva, durante la loro marcia trionfale, ci s’imbaldanzì, e il bisogno di trafficare ricominciò ad agitarsi nel cuore dei commercianti del paese. Taluni avevano grossi interessi a Le Havre, che era in mano delle truppe francesi, e vollero tentare di raggiungerne il porto andando via terra a Dieppe, e lì imbarcandosi.
Ricorsero agli ufficiali tedeschi che avevano conosciuto, e ottennero un’autorizzazione a partire dal generale in capo.
Così, avevano prenotato per il viaggio una grande diligenza a quattro cavalli. Dieci persone s’erano messe in nota all’ufficio, e decisero di partire un martedì mattina, prima dell’alba per evitare assembramenti.
Già da tempo il gelo aveva indurito la terra, e il lunedì verso le tre dei nuvoloni neri provenienti dal nord portarono la neve, che cadde ininterrottamente per tutta la sera e per tutta la notte.
I viaggiatori si riunirono alle quattro e mezzo del mattino nel cortile dell’Albergo di Normandia, da dove sarebbe partita la diligenza.
Erano ancora insonnoliti e sotto i panni tremavano dal freddo. Nell’oscurità si riconoscevano a malapena; e tutti quei corpi imbottiti dai pesanti abiti da inverno, somigliavano a dei preti obesi nelle loro sottane. Due uomini si riconobbero, un terzo li accostò, cominciarono a parlare. - Porto con me mia moglie, - disse uno. - Anch’io. - E io pure. - Il primo aggiunse: - Non ritorneremo più a Rouen, e se i prussiani s’avvicinano a Le Havre ce ne andremo in Inghilterra. - Avevano gli stessi progetti, perché avevano la stessa mentalità.
Intanto la vettura non veniva ancora attaccata. Un lanternino, tenuto da un garzone di scuderia, usciva ogni tanto da una porta scura e immediatamente spariva in un’altra. Si sentivano dal fondo della stalla le zampe dei cavalli battere il suolo, smorzate dallo strame, e una voce d’uomo che parlava alle bestie e bestemmiava. Un leggero bubbolio di sonagli annunciò ch’era cominciata la bardatura; e il bubbolio divenne presto un fremito chiaro e continuo, ritmato dai movimenti dell’animale, talvolta interrotto, e ripreso poi con una scossa brusca che accompagnava il rumore sordo d’uno zoccolo che batteva sul suolo.
La porta si richiuse all’improvviso. Ogni rumore cessò. I borghesi, gelati, si chetarono rimanendo immobili e irrigiditi.
Una ininterrotta cortina di fiocchi bianchi brillava senza posa scendendo verso terra; annullava le forme, impolverando tutto con una spuma gelata; e nel vasto silenzio della città calma e sepolta sotto l’inverno si sentiva soltanto l’indicibile, vago e fluttuante stropiccio della neve che cadeva, sensazione più che rumore, mischia di leggeri atomi, che parevano riempire lo spazio, coprire il mondo.
L’uomo col lanternino ricomparve, tirando dietro a sé, con una corda, un cavallo triste, che lo seguiva malvolentieri. Lo mise contro il timone, attaccò le tirelle, gli girò intorno parecchio per sistemare i finimenti, poiché dovendo reggere il lume poteva usare una mano sola. Mentre andava a prendere l’altra bestia, vide i viaggiatori immobili, già bianchi di neve, e disse: - Perché non salite in carrozza? Almeno sarete al riparo...
Proprio non ci avevano pensato, e si precipitarono dentro. I tre uomini fecero sistemare in fondo le loro mogli, poi salirono; le altre forme vaghe e velate occuparono a loro volta i posti rimasti, in silenzio.
Il pavimento della diligenza era coperto di paglia e i piedi vi affondavano. Le donne sedute in fondo accesero gli scaldini di rame a carbone chimico, che avevano portato con sé, e per un po’ di tempo, a bassa voce, ne elencarono i vantaggi, ripetendo cose che sapevano tutte da tempo.
Finalmente, appena la diligenza fu attaccata, con sei cavalli al posto di quattro, a causa del tiro più faticoso, una voce dal di fuori chiese: - Son saliti tutti? - Una voce da dentro rispose: - Sì. - La diligenza partì.
Andavano avanti piano piano, di passo. Le ruote affondavano nella neve, tutta l’ossatura gemeva tra sordi scricchiolii: le bestie scivolavano, soffiavano, fumavano; e la gigantesca frusta del cocchiere schioccava incessantemente, volteggiando da ogni lato, e svolgendosi come un sottile serpente, d’improvviso attorcigliandosi sulle groppe piene, che si tendevano in uno sforzo più violento.
A poco a poco la luce aumentava. I leggeri fiocchi, che un viaggiatore - autentico figlio di Rouen - aveva paragonato ad una pioggia di cotone, non cadevano più. Una sporca luce filtrava attraverso i nuvoloni scuri e pesanti che facevano apparire più splendida la bianchezza della campagna dove ogni tanto appariva una fila di grandi alberi coperti di brina, o una capanna incappucciata di neve.
Nella diligenza i passeggeri si guardavano incuriositi al triste chiarore dell’alba.
In fondo, ai posti migliori, sonnecchiavano uno di fronte all’altro i coniugi Loiseau, venditori di vino all’ingrosso in via Grand-Pont.
Già commesso d’un mercante che s’era rovinato con gli affari, Loiseau ne aveva comprato il magazzino, e aveva fatto fortuna. Vendeva a pochissimo prezzo dei vini pessimi ai piccoli minutanti di campagna, ed era considerato, dai conoscenti e dagli amici, un furbo di tre cotte, un vero normanno astuto e gioviale.
La sua fama di mariolo era così salda, che una sera, alla Prefettura, il signor Tournel, rinomato autore di barzellette e di canzoncine, spirito sottile e mordace, una celebrità locale, vedendo le signore un po’ insonnolite, aveva proposto di giocare a «Loiseau vole» (1): la freddura attraversò i salotti del prefetto, arrivò in quelli di città, e fece ridere per un mese tutte le ganasce della provincia.
Loiseau, inoltre, era famoso per i suoi scherzi d’ogni genere, per le sue spiritosaggini buone e cattive; e nessuno parlava di lui senza aggiungere: - Quel Loiseau, non ce n’è un altro come lui.
Basso di statura, aveva la pancia a pallone sormontata da un viso rubicondo tra le fedine brizzolate.
Sua moglie, alta, robusta, risoluta, forte di voce e rapida nel decidere, rappresentava l’ordine e la contabilità della ditta, che animava con la sua allegra attività.
Accanto ad essi, più dignitoso, perché appartenente ad una casta superiore, stava il signor Carré-Lamadon, persona ragguardevole, ben collocato nei cotoni, proprietario di tre filande, ufficiale della Legion d’Onore e membro del Consiglio generale. Finché era durato l’Impero, era stato a capo dell’opposizione benevola, soltanto per farsi pagar più cara la sua adesione alla causa che egli - per usare la sua espressione - combatteva ad armi cortesi. La signora Carré-Lamadon, assai più giovane di lui, era la consolazione degli ufficiali di buona famiglia mandati di guarnigione a Rouen. Stava di fronte al marito, molto vezzosa, molto carina, raggomitolata nella pelliccia, e guardava con occhio afflitto l’interno desolato della diligenza.
I suoi vicini, il conte e la contessa Hubert de Bréville, portavano uno dei nomi più antichi e più nobili di Normandia. Il conte, vecchio gentiluomo di grande stile, cercava di accentuare con palesi accorgimenti la sua naturale somiglianza con il re Enrico IV il quale, secondo una gloriosa leggenda di famiglia, avrebbe ingravidato una signora di Bréville per cui il marito di quest’ultima fu fatto conte e governatore di una provincia.
Collega di Carré-Lamadon al Consiglio generale, il conte Hubert rappresentava nel dipartimento il partito orleanista. La storia del suo matrimonio con la figlia d’un piccolo armatore di Nantes era sempre rimasta misteriosa. Ma siccome la contessa aveva gran tono, sapeva ricevere meglio di chiunque, - si diceva pure che fosse stata benvoluta da un figlio di Luigi Filippo - era ricercata dalla nobiltà e il suo salotto era il primo della regione, l’unico dove fosse sopravvissuta l’antica cortesia e dove fosse difficile entrare.
Si dice che il patrimonio dei Bréville, tutto in beni immobili, fruttasse cinquecentomila lire di rendita.
Queste sei persone, che occupavano il fondo della carrozza, rappresentavano la parte della società fornita di rendite, serena e forte, la gente onesta provvista di Religione e di Principii.
Per una strana combinazione tutte le donne stavano sullo stesso sedile; le altre vicine della contessa erano due suore che sgranavano lunghi rosari biascicando paternostri e avemarie. La prima era vecchia, e aveva il viso butterato dal vaiolo, come se le avessero sparato una scarica di mitraglia a bruciapelo. L’altra, dall’aria molto patita, aveva una testina graziosa e malaticcia su un petto da tisica consumata dalla fede divorante che crea i martiri e gli esaltati.
Di fronte alle due suore, un uomo e una donna attiravano tutti gli sguardi.
L’uomo, assai noto, era Cornudet il democratico, il terrore delle persone perbene. Da vent’anni egli inzuppava il suo barbone fulvo nella birra di tutti i caffè democratici. S’era mangiato, insieme ai fratelli e agli amici, un bel gruzzolo, ereditato dal padre pasticciere, e aspettava con impazienza la venuta della repubblica per ottenere finalmente il posto che s’era meritato con tante bevute rivoluzionarie.
Il quattro di settembre, forse in seguito a uno scherzo, credette d’essere stato nominato prefetto, ma quando tentò d’insediarsi, gli uscieri, rimasti arbitri della situazione, si rifiutarono di riconoscerlo, costringendolo ad andarsene. Buon compagnone, d’altronde, inoffensivo e servizievole, s’era incaricato, con ardore senza pari, d’organizzare la difesa. Aveva fatto scavare delle buche, nelle pianure, aveva fatto abbattere i giovani alberi delle foreste vicine, aveva seminato trappole su tutte le strade, e all’avvicinarsi del nemico, soddisfatto dei suoi preparativi, aveva ripiegato in fretta verso la città. Pensava, ora, di essere più utile a Le Havre, dove sarebbero state necessarie nuove fortificazioni.
La donna, una di quelle che vengon chiamate allegre, era rinomata per la sua floridezza, che le aveva procurato il soprannome di Pallina. Piccina, tutta tonda, grassa grassa, con le dita rigonfie strozzate alle falangi, simili a rosari di salsicciotti, aveva la pelle lustra e tesa, un enorme seno che le gonfiava il vestito: pure, era appetitosa e desiderata, tanto piacevole a vedersi era la sua freschezza. Il suo viso era una mela rossa, un bocciolo di peonia vicino a schiudersi; vi si aprivano, in alto, due magnifici occhi neri ombreggiati da lunghe e folte ciglia, e sotto una bella bocca piccola, umida, da baci, guarnita di dentini lucenti e microscopici.
Ella aveva inoltre - si diceva - moltissime inestimabili qualità.
Appena la riconobbero, indignati bisbiglii corsero tra le donne oneste, e le parole «prostituta», e «vergogna pubblica» furono pronunciate così forte ch’ella alzò il capo, e fece scorrere sui vicini uno sguardo così ardito e provocante che subito si fece un gran silenzio, e tutti abbassarono gli occhi, eccettuato Loiseau, il quale la guardava eccitato.
Ma poco dopo le tre signore ripresero la conversazione, divenute d’improvviso amiche, anzi quasi intime, a causa della ragazza. Esse, così pareva loro, dovevano riunire in fascio le loro dignità di spose, di contro a quella svergognata mercenaria; poiché l’amore legale tratta sempre con arroganza il suo libero confratello.
Anche i tre uomini, ravvicinati, alla vista di Cornudet, da un istinto di conservatori, parlavano di soldi, affettando un’aria sdegnosa verso i poveri. Il conte Hubert enumerava i danni che aveva patito per colpa dei prussiani, il bestiame rubato, i raccolti perduti, con la disinvoltura del gran signore dieci volte milionario che dopo un anno avrebbe dimenticato tutte quelle rovine. Carré-Lamadon, assai colpito nella sua industria di cotoni, s’era preoccupato di mandare seicentomila franchi in Inghilterra, un’inezia che teneva in serbo per ogni evenienza. Loiseau, dal canto suo, aveva brigato per vendere all’Intendenza francese tutto il vino comune che gli era restato nelle cantine, dimodoché lo Stato gli era debitore di una grossissima somma che egli sperava di riscuotere a Le Havre.
Tutti e tre si lanciavano occhiate rapide e amichevoli. Per quanto fossero di diversa condizione si sentivano affratellati dal denaro, la grande massoneria di coloro che possiedono, di coloro che fanno tintinnare l’oro infilandosi la mano in tasca.
La diligenza andava così piano che alle dieci del mattino aveva percorso una quindicina di chilometri. Gli uomini scesero tre volte per fare a piedi le salite. Cominciò a trapelare l’inquietudine, perché s’era previsto di mangiare a Tôtes, e ormai c’erano poche speranze d’arrivarci prima di notte. Mentre tutti guardavano sulla strada, se spuntasse una osteria, la diligenza s’incagliò in un mucchio di neve e ci vollero due ore per liberarla.
L’appetito cresceva annebbiando i cervelli; e non si vedeva nessuna trattoria, nessuna bottega di vini, poiché la venuta dei prussiani e il passaggio delle fameliche truppe francesi avevano scoraggiato qualunque industria.
Gli uomini andarono alla ricerca di rifornimenti nei casolari lungo la strada, ma non trovarono neanche un po’ di pane, poiché i contadini sospettosi nascondevano tutto per paura dei soldati, i quali non avendo nulla da mangiare prendevano per forza quel che trovavano.
Verso l’una del pomeriggio Loiseau dichiarò di sentirsi una gran buca nello stomaco. Ma tutti, da parecchio tempo, erano nelle sue stesse condizioni; e il violento bisogno di mangiare, sempre crescente, aveva ucciso la conversazione.
Ogni tanto qualcuno sbadigliava, imitato quasi subito da un altro; a sua volta, ciascuno secondo il carattere, l’educazione, la posizione sociale, apriva rumorosamente o con modestia la bocca, tappando in fretta con la mano il buco spalancato dal quale usciva vapore.
Pallina s’era chinata parecchie volte, come a cercare qualcosa sotto le gonne. Rimaneva un momento esitante, guardava i suoi vicini, poi si rialzava con calma. I visi dei viaggiatori erano pallidi e contratti. Loiseau dichiarò che avrebbe pagato mille franchi per un prosciuttino. Sua moglie abbozzò un gesto di protesta; poi si calmò. Sentir parlare di soldi sciupati la faceva sempre soffrire, e non riusciva neanche a capire come si potesse scherzare su quell’argomento. - Il fatto è che non mi sento bene, - disse il conte; - chissà perché non ho pensato a portar qualcosa da mangiare. - Ognuno rivolgeva a se stesso lo stesso rimprovero.
Cornudet aveva una fiaschetta piena di rum: l’offrì in giro ma gli altri rifiutarono con freddezza, tranne Loiseau che ne accettò una goccia e restituendo la fiaschetta ringraziò dicendo: - Fa sempre bene, riscalda, e inganna l’appetito. - L’alcool lo mise di buonumore, e propose di fare come nel piccolo naviglio della canzone: di mangiare cioè il più grasso dei viaggiatori. L’indiretta allusione a Pallina urtò le persone perbene. Nessuno rispose: il solo Cornudet sorrise. Le due suore avevano smesso di biascicare avemarie, e con le mani nascoste nelle grandi maniche stavano immobili, con gli occhi ostinatamente abbassati, senza dubbio offrendo al Cielo, che gliele mandava, le loro sofferenze.
Finalmente, alle tre, mentre la diligenza stava in mezzo a una interminabile pianura, senza nemmeno un villaggio in vista, Pallina si chinò con vivacità, e tirò fuori di sotto al sedile un largo paniere coperto da un tovagliolo bianco.
Ne trasse dapprima un piattino, una delicata tazza d’argento, poi una zuppiera dov’erano due interi polli in gelatina, già tagliati; si vedevano ancora nel paniere tante altre buone cose incartate: sformati, frutta, dolci, tutte le provviste per un viaggio di tre giorni, in modo da non dover mai ricorrere alla cucina degli alberghi. I colli di quattro bottiglie sbucavano tra gli involti. La ragazza prese un quarto di pollo e cominciò delicatamente a mangiarlo, con uno di quei panini che in Normandia vengono chiamati «Reggenza».
Tutti gli sguardi erano su di lei. Poi l’odore si diffuse, fece dilatare le narici, fece venire l’acquolina in bocca, provocò una dolorosa contrazione all’attaccatura delle mascelle. Il disprezzo delle signore per la ragazza divenne feroce, quasi voglia d’ammazzarla o di scaraventarla fuori della diligenza, lei, la sua tazza, il suo paniere e tutto quel che c’era dentro.
Loiseau divorava con gli occhi la zuppiera del pollo. Disse: - La signora è stata più prudente di noi... C’è della gente che pensa sempre a tutto. - Ella alzò la testa verso di lui: - Ne volete, signore? È brutto star digiuni dalla mattina. - Egli si levò il cappello: - Non dico di no, non ne posso più. Bisogna adattarsi, vero, signora? - E guardandosi intorno aggiunse: - In momenti simili è bello trovar qualcuno che vi fa un piacere. - Per non sporcarsi i calzoni, spiegò un giornale che aveva con sé, infilò la punta di un coltellino che portava sempre in tasca su una coscia lustra di gelatina, e cominciò a mangiare, masticando con un piacere così visibile che si sentì nella vettura un gran sospiro d’angoscia.
Allora Pallina, con voce umile e dolce, propose alle due suore di condividere la sua colazione. Esse accettarono immediatamente, e senza alzar gli occhi cominciarono a mangiare sveltissime, dopo aver farfugliato un ringraziamento. Neanche Cornudet rifiutò l’offerta della sua vicina, e, insieme alle suore spiegando dei giornali sulle ginocchia, venne formata una specie di tavola.
Le bocche s’aprivano e si chiudevano senza sosta, trangugiavano, masticavano, inghiottivano ferocemente. Loiseau, nel suo angolo, lavorava sodo e a bassa voce esortava sua moglie a far come lui. Costei tenne duro per un po’, ma una più forte strizzata delle viscere la fece cedere. Allora suo marito, con una frase tornita, chiese alla loro «deliziosa compagna» se gli permetteva di darne un pezzetto alla signora Loiseau. Ella rispose: - Ma certo, signore, - con un grazioso sorriso, e porse la zuppiera.
Ci fu un po’ d’imbarazzo quando fu stappata la prima bottiglia di bordò, perché c’era una tazza sola. I viaggiatori se la passarono dopo averla ripulita. Il solo Cornudet, senza dubbio per galanteria, posò le labbra sul punto ove era rimasta l’umida traccia delle labbra della sua vicina.
Allora, circondati da persone che mangiavano, soffocati dall’odore dei cibi, il conte e la contessa di Bréville e i Carré-Lamadon soffrirono l’odioso supplizio che ha preso il nome da Tantalo. D’improvviso la giovane moglie dell’industriale emise un sospiro che fece voltar tutte le teste: era bianca come la neve lì fuori; chiuse gli occhi, la fronte le ricadde: era svenuta. Suo marito, fuori di sé, implorò aiuto. Avevano perso tutti la testa, allorché la suora più anziana, reggendo il capo della donna indisposta, le insinuò tra le labbra la tazza di Pallina facendole ingoiare qualche goccia di vino. La bella signora si riscosse, aprì gli occhi, sorrise e dichiarò con voce supplichevole che ora si sentiva benissimo. Ma perché il fatto non si ripetesse, la suora la costrinse a bere un intero bicchiere di bordò, dicendo: - È la fame, e nient’altro.
Allora Pallina, arrossendo, balbettò guardando i quattro viaggiatori rimasti a stomaco vuoto: - Dio mio, se i signori e le signore volessero gradire... - Tacque, temendo di offenderli e che le rispondessero in modo oltraggioso. Loiseau disse: - Perbacco, ma in casi come questi siamo tutti fratelli, e bisogna aiutarci. Suvvia, signore, senza complimenti, accettate, che diamine! Non siamo neanche sicuri di poter trovare un posto dove passar la notte. Di questo passo non arriveremo a Tôtes prima di domani a mezzogiorno. - Gli altri esitavano ancora: nessuno aveva il coraggio di prendersi la responsabilità di un «sì».
Il conte tagliò corto. Volgendosi verso la ragazzona intimidita, le disse con la sua aria da gran signore: - Accettiamo con gratitudine, signora.
Il primo passo era il più difficile. Una volta passato il Rubicone ci si misero di buzzo buono: il paniere fu vuotato. C’erano rimasti ancora uno sformato di fegato di allodole, un pezzo di lingua affumicata, alcune pere spadone, un pezzo di formaggio di Pont-l’Evêque, dei pasticcini e una tazza piena di cetriolini e cipolline sottaceto: Pallina, come tutte le donne, andava matta per i sottaceti.
Non era possibile mangiare la roba della ragazza senza rivolgerle la parola. Perciò cominciarono a parlare, dapprima con riservatezza, quindi, siccome ella si comportava molto bene, con maggiore cordialità. Le signore di Bréville e Carré-Lamadon, che avevano di gran belle maniere, si mostrarono delicatamente cortesi. Soprattutto la contessa fece mostra dell’amabile condiscendenza propria delle nobilissime signore, che nulla può contaminare, e fu affascinante. La robusta signora Loiseau, che aveva un’anima di gendarme, rimase scontrosa, parlando poco e mangiando molto.
Naturalmente si parlò della guerra. Si raccontarono cose orribili sui prussiani, episodi di coraggio dei francesi; e tutta quella gente che fuggiva rese omaggio alla bravura altrui. Subito dopo cominciarono a raccontare i fatti personali, e Pallina, con vera commozione, con quel calore di eloquio che hanno talvolta le ragazze del suo genere quando esprimono i loro slanci naturali, narrò in che modo aveva lasciato Rouen:
- Dapprincipio credetti di poter rimanere - diceva. - La mia casa era ben rifornita e preferivo dar da mangiare a qualche soldato piuttosto che scappare chissà dove. Ma quando ho visto quei prussiani è stato più forte di me! Mi s’è rimescolato il sangue dalla rabbia, e ho pianto di vergogna tutto il giorno. Ah! se ero uomo! Li guardavo dalla finestra, quei maialoni col casco a punta, e la mia donna di servizio mi reggeva le mani per impedirmi di scaraventargli i mobili addosso. Poi ne son venuti certi per stare a casa mia: sono saltata addosso al primo. Non ci vuol mica tanto a strozzarli. Ce l’avrei fatta, con quello, se non m’avessero tirato via per i capelli. Dopo, mi son dovuta nascondere; alla prima occasione me ne sono andata ed eccomi qui.
Pallina fu molto complimentata. Ella saliva nella stima dei suoi compagni, i quali non erano stati risoluti come lei; Cornudet, ascoltandola, sorrideva con la benevolenza e l’approvazione dell’apostolo; proprio come un prete che senta un fedele lodare Dio: poiché i democratici con la barba lunga hanno il monopolio del patriottismo come gli uomini in sottana hanno quello della religione. Egli parlò a sua volta con tono dottrinale, con l’enfasi che aveva imparato dai proclami appiccicati ogni giorno sui muri, e terminò con uno squarcio d’eloquenza in cui conciò a dovere quello «sporcaccione di Badinguet» (2).
Subito Pallina se n’ebbe a male perché era bonapartista. Diventò più rossa d’una ciliegia, e balbettando per l’indignazione:
- Avrei voluto veder voialtri al suo posto. Bella roba! L’avete tradito voi quell’uomo! Sarebbe meglio andarsene dalla Francia se al governo ci fossero dei cittadini come voi!
Cornudet era impassibile, con un sorriso sdegnoso e superiore, ma si sentiva che le parole grosse stavano per volare, allorché il conte si pose in mezzo e riuscì, non senza fatica, a calmare la ragazza esasperata, affermando con autorevolezza che tutte le opinioni sincere erano rispettabili. La contessa e la moglie di Carré-Lamadon, che nutrivano in cuore l’irragionevole odio della gente dabbene contro la Repubblica, e l’istintivo affetto che hanno le donne per i governi impennacchiati e dispotici, si sentivano, loro malgrado, attirate da quella prostituta piena di dignità, che la pensava in un modo così simile al loro.
Il paniere era vuoto. In dieci l’avevano asciugato con facilità, rammaricandosi che non fosse più grande. La conversazione andò avanti, un poco illanguidita ora che non c’era più nulla da mangiare.
Cadeva la notte, l’oscurità a poco a poco diventava profonda, e il freddo, che si fa sentir di più durante la digestione, faceva rabbrividire Pallina, nonostante la sua grassezza. Allora la signora di Bréville le offrì il suo scaldino dove il carbone, dalla mattina, era stato cambiato parecchie volte, e l’altra accettò subito, perché si sentiva i piedi gelati. La signora Carré-Lamadon e la signora Loiseau offrirono i loro alle due suore.
Il vetturale aveva acceso i fanali, che rischiararono con un vivace brillio una nuvola di vapore che saliva dalle groppe sudate dei cavalli da timone, e ai lati della strada, la neve che pareva rotolare nei mobili riflessi delle luci.
Dentro non ci si vedeva più; all’improvviso ci fu un leggero rimestio fra Pallina e Cornudet; Loiseau, che frugava nel buio con lo sguardo, credette di vedere l’uomo barbuto scostarsi vivamente, come se avesse ricevuto una bella pedatona allungata in silenzio.
Alcuni puntini luminosi apparvero in fondo alla strada: era Tôtes. La diligenza camminava da undici ore, e, aggiungendovi le due ore di riposo concesse ai cavalli, in quattro riprese, per mangiar l’avena e riprender fiato, si arrivava a tredici ore. La vettura entrò in paese, e andò a fermarsi davanti all’albergo del Commercio.
Lo sportello s’aprì: un ben noto rumore fece trasalire i viaggiatori: era il fodero d’una sciabola che sbatteva al suolo. Subito dopo la voce d’un tedesco gridò qualcosa.
Per quanto la diligenza fosse ormai ferma nessuno scendeva, come se i viaggiatori s’aspettassero, uscendo, d’essere massacrati. S’affacciò il conducente reggendo uno dei fanali che illuminò d’improvviso, fino in fondo alla vettura, le due file di teste spaurite, con la bocca spalancata e con gli occhi sgranati dalla sorpresa e dalla paura.
In piena luce, accanto al cocchiere, c’era un ufficiale tedesco, un giovane alto, esageratamente smilzo, biondo, stretto nell’uniforme come una ragazza nel busto, col berretto piatto e incerato messo di traverso che lo faceva somigliare al fattorino d’un albergo inglese. Aveva dei baffi smisurati, con certi peli lunghi e dritti che s’assottigliavano indefinitamente ai due lati, e terminavano con un pelo solo biondo e così sottile che non si vedeva come finisse; e sembrava che gli pesassero sugli angoli della bocca, stirando la gota e facendo ripiegare le labbra in giù.
In un francese d’Alsazia invitò i viaggiatori a uscire dicendo duramente: - Folete scentere, signori e signore?
Le suore furon le prime a obbedire, con una docilità di sante donne abituate a ogni sottomissione. Dietro ad esse apparvero il conte e la contessa, seguiti dall’industriale e da sua moglie, poi da Loiseau che spingeva innanzi la sua gran metà. Quest’ultimo, posando il piede a terra, disse all’ufficiale, più per prudenza che per cortesia: - Buongiorno, signore. - L’altro, insolente come tutte le persone onnipotenti, lo guardò senza rispondere.
Pallina e Cornudet, per quanto si trovassero vicino allo sportello, scesero per ultimi, gravi e alteri davanti al nemico. La ragazza cercava di dominarsi e di star calma; il democratico con mano tragica e un po’ tremante si tormentava la barba. Essi volevano conservare la dignità, avendo capito che in simili circostanze ognuno rappresenta un po’ il suo paese. Ambedue erano disgustati dal comportamento dei loro compagni: ella cercava di mostrarsi più fiera delle sue vicine, le donne oneste; mentre egli, conscio di dover dare l’esempio, seguitava con l’atteggiamento la sua missione di resistenza, intrapresa scavando buche nelle strade.
Entrarono nell’ampia cucina dell’albergo, e il tedesco, dopo essersi fatto dare il permesso di viaggio firmato dal generale in capo, e dov’erano elencati nome, connotati e professione dei viaggiatori, esaminò a lungo le persone, paragonando ciascuno con le informazioni scritte.
Poi disse bruscamente: - Fa pene - e se ne andò.
Gli altri respirarono. Avevano ancora fame e fu ordinata la cena. Ci sarebbe voluta una mezz’ora prima che fosse pronta e, mentre due serve se ne occupavano, andarono a vedere le camere. Erano tutte nello stesso lungo corridoio, che finiva con una porta a vetri su cui c’era un numero eloquente.
Era venuto infine il momento di mettersi a tavola, quando comparve il padrone dell’albergo. Costui era un ex cavallaio, un omone asmatico con la gola piena di fischi, di gorgoglii, di raschii. Suo padre gli aveva trasmesso il nome di Follenvie.
Chiese:
- La signorina Elisabeth Rousset?
Pallina trasalì, si voltò:
- Sono io.
- L’ufficiale prussiano vuol vedervi subito, signorina.
- Me?
- Sì, se siete voi la signorina Elisabeth Rousset.
Turbata, rifletté un momento, dichiarando poi con decisione:
- Può darsi, ma non ci andrò.
Ci fu un brusio attorno a lei; tutti discutevano, domandandosi il perché di quell’ordine. Il conte le si accostò:
- Avete torto, signora; rifiutando non fareste che procurare delle gravi noie, non soltanto a voi, ma anche ai vostri compagni. Non si deve mai resistere a chi è più forte. Questa chiamata sicuramente non è pericolosa; sarà certo per qualche formalità trascurata.
Tutti si unirono a lui nel pregarla, stimolandola, facendole raccomandazioni, e alla fine convincendola; poiché temevano le complicazioni che potevano nascere da un’impuntatura. Ella disse, infine:
- Siate certi che lo faccio soltanto per voi.
La contessa le prese una mano:
- E noi ve ne siamo grati.
Pallina uscì. Gli altri l’aspettarono per andare a tavola.
Ognuno si rammaricava di non essere stato chiamato al posto di quella ragazza impetuosa e irascibile, e preparava mentalmente delle vigliaccherie, in caso di chiamata.
Dopo dieci minuti ella ricomparve sbuffando, congestionata, fuori di sé. Balbettava: - Che canaglia, che canaglia!
Tutti erano ansiosi di sapere, ma ella non aprì bocca; alle insistenze del conte rispose, con molta dignità:
- Son cose che non vi riguardano, non posso dirvelo.
Si sedettero attorno a una gran zuppiera donde usciva un odore di cavoli. Nonostante l’incidente la cena fu allegra. Il sidro era buono e ne bevettero, per economia, i coniugi Loiseau e le suore. Gli altri chiesero vino; Cornudet volle la birra. Aveva un modo tutto suo di stappare la bottiglia, di far spumeggiare il liquido, di osservarlo inclinando il bicchiere, e di alzarlo controluce per apprezzarne bene il colore. Mentre beveva, la sua gran barba, che aveva conservato l’impronta della bevanda prediletta, pareva trasalir di tenerezza; torceva gli occhi per non perdere di vista il bicchiere, e sembrava che compisse l’unico atto per il quale era nato. Si sarebbe detto che dentro di sé facesse un paragone e ritrovasse una specie di affinità tra le due grandi passioni che dominavano la sua vita: la Birra e la Rivoluzione; sicuramente non poteva assaggiare la prima senza pensare alla seconda.
I coniugi Follenvie mangiavano proprio all’estremità della tavola. L’uomo, che rantolava come una vecchia locomotiva, aveva troppa pressione nel petto per poter parlare mangiando; ma la donna non stava zitta un momento. Raccontò le sue impressioni sull’arrivo dei prussiani, quello che facevano, quello che dicevano, che li odiava, prima perché le costavano denaro e poi perché aveva due figli sotto le armi. Si rivolgeva soprattutto alla contessa, lusingata di poter parlare con una vera signora.
Abbassava la voce quando doveva dire certe cose, e ogni tanto suo marito l’interrompeva: - Faresti meglio a star zitta, signora Follenvie. - Lei non gli dava retta, e seguitava:
- Sissignora; quella gente lì non fa che mangiar patate e maiale, e poi maiale e patate... E non crediate che siano puliti. No! Sporcano dappertutto, parlando con rispetto. E li dovreste vedere quando fanno le esercitazioni, per ore e per giorni di seguito; si mettono tutti in un campo, e avanti marsc e dietro front, e volta di qui e volta di là. Almeno zappassero la terra, o facessero le strade a casa loro! Nossignora, questi soldati non portano beneficio a nessuno! I poveracci li debbono mantenere perché imparino soltanto a massacrare! Io sono una vecchia senza educazione, è vero, ma quando li vedo che si sfogano a battere i piedi dalla mattina alla sera, mi dico: «C’è della gente che per essere utile fa tante invenzioni, e ce ne dev’essere altra che s’affatica tanto per far del male! Non è una vergogna ammazzar la gente, si tratti di prussiani, o di inglesi, o di polacchi, o di francesi? Se uno si vendica di chi gli ha fatto un torto, fa male, e infatti lo condannano; ma quando massacrano i nostri figlioli come selvaggina, a fucilate, allora è bene, e danno anche la medaglia a chi ne ha ammazzati di più!... No, sentite, non riuscirò mai a capirlo!».
Cornudet alzò la voce:
- La guerra è una barbarie quando s’aggredisce un vicino pacifico; è un sacro dovere quando si difende la patria.
La vecchia abbassò la testa:
- Sì, quando bisogna difendersi è un’altra cosa; ma allora non sarebbe meglio ammazzare i re che lo fanno per il proprio piacere?
Gli occhi di Cornudet s’infiammarono.
- Brava cittadina! - disse.
Carré-Lamadon stava riflettendo profondamente. Nonostante il suo fanatismo per i grandi condottieri, il buon senso della contadina l’aveva fatto pensare al benessere che nel paese avrebbero portato tante braccia inoperose - e di conseguenza dannose - tante forze che restavano improduttive, se fossero state usate per i grandi lavori industriali che non bastano i secoli a compiere.
Loiseau, alzandosi dal suo posto, andò a parlar sottovoce con l’albergatore. L’omone rideva, tossiva, sputava: il suo ventre enorme sobbalzava di gioia alle spiritosaggini del suo vicino; e gli comprò sei barili di bordò per la primavera, quando i prussiani se ne sarebbero andati.
Appena finito di cenare, siccome i viaggiatori erano stanchi morti, se ne andarono a letto.
Intanto Loiseau, che era stato attento a tutto, fece mettere a letto sua moglie, e poi appoggiò alternativamente l’orecchio e l’occhio al buco della serratura per cercar di scoprire quelli che chiamava «i misteri del corridoio».
In capo a un’ora sentì un fruscio, guardò meglio e vide Pallina, più grassoccia che mai nel suo accappatoio di lana turchina orlato di pizzo bianco. Aveva in mano una bugia, e andava verso la porta vetrata in fondo al corridoio. Accanto si socchiuse una porta, e quando dopo qualche minuto ella ritornò, Cornudet in maniche di camicia la seguì. Pareva che Pallina gli impedisse energicamente di entrare in camera. Purtroppo Loiseau non riusciva ad afferrare le parole, ma siccome i due alzavano la voce capì qualcosa. Cornudet insisteva con vivacità. Diceva:
- Su, non fate la stupida, cosa ve ne importa?
Ella rispose in tono indignato:
- No, caro mio, ci sono momenti in cui certe cose non si fanno; qui poi, sarebbe proprio vergognoso.
Indubbiamente l’altro non capiva, e chiese il perché. La ragazza allora s’arrabbiò alzando di più la voce:
- Perché? Non capite perché? Quando in casa, forse nella camera qui accanto, ci sono i prussiani?
Egli tacque. Quella specie di patriottico pudore da sgualdrina che non si faceva toccare vicino al nemico, dovette ridestargli nel cuore la vacillante dignità, poiché limitandosi a darle un bacio, se ne tornò in camera sua in punta di piedi.
Loiseau, molto eccitato, lasciò il buco della serratura, fece un giro di danza per la camera, si mise il berretto da notte, alzò il lenzuolo sotto cui giaceva la dura carcassa della sua compagna, e la svegliò con un bacio, mormorando: - Mi vuoi bene, tesoro?
Ormai la casa pareva addormentata. Ma poco dopo, in una direzione indeterminata, da un punto qualsiasi che poteva essere tanto la cantina quanto il solaio, si levò un russare potente, uniforme, regolare, un rumore sordo e prolungato, con dei borbottii di caldaia sotto pressione: Follenvie dormiva.
Avevano deciso di ripartire la mattina seguente alle otto, e si ritrovarono tutti in cucina; ma la vettura stava solitaria in mezzo al cortile, con il mantice coperto di neve, senza cavalli né vetturale. Quest’ultimo fu cercato invano nella scuderia, nel magazzino, nella rimessa. Gli uomini uscirono, per andare a vedere se lo trovavano in paese. Si rincontrarono nella piazza, in fondo alla quale c’era la chiesa, e, ai lati, case basse dove si vedevano dei soldati prussiani. Il primo che videro stava sbucciando patate. Il secondo, più giù, stava lavando la bottega del barbiere. Un terzo, con un barbone fino agli occhi, abbracciava un bimbetto piangente e cercava di calmarlo cullandolo sulle ginocchia; le grosse contadine che avevano i mariti «al fronte», indicavano a gesti, agli obbedienti vincitori, il lavoro che dovevano fare: spaccar la legna, versare il brodo sul pane affettato, macinare il caffè; ce n’era uno, perfino, che lavava la biancheria della sua ospite, una vecchia ormai incapace.
Il conte, stupefatto, interrogò il sacrestano che stava uscendo dal presbiterio. Il vecchio bacchettone gli rispose:
- Ah, quelli non son mica cattivi; si dice che non siano prussiani. Son di più su, non so bene di dove; e tutti hanno lasciato al paese moglie e figli; non si divertono a far la guerra, date retta. Son sicuro che lassù si fanno dei gran pianti, per questi uomini: e ci sarà gran miseria da loro, come da noi. Qui, per ora, non siamo tanto disgraziati, perché del male non ne fanno, e lavorano come se fossero a casa loro. Tra povera gente, signore, bisogna aiutarsi... La guerra la vogliono quelli che comandano...
Cornudet, indignato dei cordiali rapporti stabilitisi tra vincitori e vinti, se ne andò, preferendo piuttosto chiudersi in albergo. Loiseau disse una frase spiritosa: - Stanno ripopolando. - Carré-Lamadon disse una frase grave: - Stanno riparando. -
E intanto il cocchiere non si trovava. Fu scoperto finalmente nel caffè del villaggio, fraternamente seduto allo stesso tavolino con l’attendente dell’ufficiale. Il conte lo apostrofò:
- Non vi era stato ordinato di attaccare i cavalli per le otto? - Sì, sì, ma dopo ho avuto un altro ordine.
- Quale?
- Di non attaccar più.
- Chi vi ha dato quest’ordine.
- Perdio! Il comandante prussiano.
- Perché?
- Che ne so io? Andate a domandarglielo. Mi hanno proibito di attaccare, e io non ho attaccato. Ecco tutto.
- Ve lo ha detto proprio lui?
- Nossignore, me l’ha detto l’albergatore da parte sua.
- E quando è stato?
- Ieri sera, quando me ne stavo andando a letto.
I tre uomini tornarono in albergo assai inquieti.
Chiesero di Follenvie, ma la sguattera rispose che il padrone, per via dell’asma, non s’alzava mai prima delle dieci. Aveva categoricamente proibito che lo svegliassero prima, fuorché in caso d’incendio.
Vollero parlare con l’ufficiale, ma era proprio impossibile nonostante abitasse nell’albergo. Il solo Follenvie aveva l’autorizzazione di parlargli, quando si trattava di affari civili. Allora si misero ad aspettare. Le donne risalirono nelle loro camere, e cercarono d’ingannare l’attesa con dei nonnulla.
Cornudet si piazzò in cucina sotto l’alto camino, dove fiammeggiava un gran fuoco. Si fece portare un tavolino da caffè, una bottiglietta di birra, tirò fuori la pipa, che tra i democratici era tenuta in considerazione quanto lui stesso, come se, servendo Cornudet, avesse servito la patria anche lei. Era una magnifica pipa di schiuma, cotta in modo ammirevole, nera quanto i denti del suo proprietario, ma ben modellata, lucida, familiare in mano sua e che completava la sua fisionomia. E restò immobile, fissando lo sguardo ora sulle fiamme, ora sulla schiuma che coronava il bicchiere; ogni volta che beveva si passava con aria soddisfatta le dita lunghe e magre tra i capelli unti, e si asciugava i baffi orlati di schiuma.
Loiseau, col pretesto di sgranchirsi le gambe, andò in giro a vendere il suo vino ai negozianti del paese. Il conte e l’industriale cominciarono a parlare di politica. Facevano previsioni sull’avvenire della Francia: uno credeva negli Orléans, l’altro in uno sconosciuto salvatore, un eroe che sarebbe spuntato nel momento più tragico: forse un Du Guesclin, una Giovanna d’Arco; o un altro Napoleone? Ah, se il principe imperiale (3) non fosse stato così giovane! Cornudet sorrideva, ascoltandoli, da uomo che sa bene cosa può riserbare il destino. L’odore della sua pipa riempiva la cucina.
Mentre suonavano le dieci comparve Follenvie. Fu subito interrogato; ma poté soltanto ripetere, per due o tre volte, e senza varianti, queste parole: - L’ufficiale m’ha detto così: «Signor Follenvie, dovete impedire, domani, che venga attaccata la carrozza di quei viaggiatori. Non debbono partire senza un mio ordine. Avete capito? Basta così».
Allora vollero parlare con l’ufficiale. Il conte gli fece mandare il suo biglietto da visita, nel quale Carré-Lamadon aggiunse il suo nome e tutti i suoi titoli. Il prussiano fece rispondere che avrebbe ammesso alla sua presenza i due uomini dopo aver mangiato, ossia verso l’una.
Le signore ridiscesero, e nonostante l’inquietudine, tutti mangiarono qualcosa. Pallina pareva che si sentisse male, ed era assai sconvolta.
Stavano finendo di bere il caffè, quando l’attendente venne a chiamare quei due signori.
Ad essi si unì Loiseau; tentarono di far venire anche Cornudet, per render più solenne l’ambasceria, ma questi dichiarò con fierezza che non voleva avere alcun rapporto coi tedeschi, e si rimise sotto il camino, ordinando un’altra birra.
I tre uomini salirono e furono fatti entrare nella più bella camera dell’albergo, dove l’ufficiale era sdraiato in una poltrona, coi piedi sul piano del caminetto, e stava fumando in una lunga pipa di porcellana, avvolto in una chiassosa vestaglia, rubata senza dubbio nella casa abbandonata di qualche borghese di cattivo gusto. Non si alzò, non li salutò, né li guardò. Era un magnifico campione della villania propria dei soldati vincitori.
Finalmente dopo qualche istante disse:
- Cosa folete?
Parlò il conte:
- Vorremmo partire, signore.
- No.
- Potrei chiedervi il perché di questo rifiuto?
- Perché non foglio.
- Vi faccio rispettosamente osservare, signore, che il vostro generale in capo ci ha rilasciato un permesso fino a Dieppe; e credo che non abbiamo fatto nulla perché voi siate così severo.
- Non foglio, ecco tutto... Potete antarfene.
I tre uscirono, dopo essersi inchinati.
Il pomeriggio fu disastroso. Non riuscivano a rendersi conto del capriccio del tedesco. E le supposizioni più strampalate turbinavano nei loro cervelli. Stavano tutti in cucina, discutendo senza sosta, immaginando cose inverosimili. Forse li volevano trattenere come ostaggi, ma a quale scopo? o farli prigionieri; o piuttosto chiedere un grosso riscatto? Quest’ultimo pensiero li terrorizzò. I più ricchi erano i più spaventati, e si vedevano costretti, per riscattar la vita, a versare sacchi pieni d’oro nelle mani di quell’insolente soldato. Si lambiccavano il cervello per inventare bugie passabili; per celare le loro ricchezze, per farsi credere poveri, poverissimi. Loiseau levò la catena dall’orologio, e la nascose in tasca. La notte che cadeva aumentava l’apprensione. Fu acceso il lume, e Loiseau, siccome mancavano due ore alla cena, propose di fare una partita a trentuno (4). Sarebbe stata una distrazione. Gli altri accettarono. Perfino Cornudet prese parte al gioco, dopo avere spento, per cortesia, la pipa.
Il conte mescolò, e distribuì le carte: Pallina fece trentuno alla prima; e presto l’interesse per la partita placò i timori che assillavano le menti. Cornudet s’accorse che i coniugi Loiseau erano d’accordo per imbrogliare.
Al momento d’andare a tavola ricomparve Follenvie, e disse, con la sua voce catarrosa: - L’ufficiale prussiano fa chiedere alla signorina Elisabeth Rousset se non ha ancora cambiato idea.
Pallina stava ritta, immobile, pallida pallida, subito dopo fu presa da un tale accesso di rabbia che, diventata paonazza, non poteva neanche parlare. Alla fine scoppiò: - Direte a quel farabutto, a quello sporcaccione, a quella carogna di prussiano, che non vorrò mai; sentitemi bene: mai, mai, mai.
Uscito che fu il grosso albergatore, tutti furono intorno a Pallina, interrogandola, invitandola a spiegare il mistero. Dapprima ella cercò di resistere, ma poi, trascinata dall’esasperazione, esclamò: - Cosa vuole?... cosa vuole? Vuol venire a letto con me!
L’indignazione fu così viva che la frase non scandalizzò nessuno. Cornudet spezzò il bicchiere, sbattendolo con forza sulla tavola. Si levò un vocìo di riprovazione, contro l’ignobile soldataccio, un urlo di collera; e si sentirono tutti pronti a resistere, come se ad ognuno fosse stata chiesta una parte del sacrificio che si pretendeva dalla ragazza. Il conte dichiarò con disgusto che quella gente si comportava come gli antichi barbari. Le donne soprattutto manifestarono a Pallina una commiserazione energica e affettuosa. Le suore, che si facevano vedere soltanto all’ora dei pasti, avevano abbassato la testa, e non dicevano nulla.
Andarono a tavola, non appena si fu placato il primo slancio di furore, ma parlarono poco: pensavano.
Le signore si ritirarono di buon’ora; gli uomini, fumando, organizzarono una partita di écarté (5), invitando anche Follenvie, per poterlo abilmente interrogare sui mezzi da usare per vincere la resistenza dell’ufficiale. Ma egli non pensava che alle carte, non ascoltava, e ripeteva di continuo: - Attenti al gioco, signori, attenti. - Era così intento che si scordava di sputare, ed allora, a momenti, pareva che gli uscisse dal petto un suono d’organo. Il fischio dei suoi polmoni percorreva tutta la gamma dell’asma, dalle note gravi e profonde, fino al chioccolìo acuto dei galletti che si sforzano di cantare.
Rifiutò perfino di salire, quando sua moglie, che cascava dal sonno, lo venne a cercare. Se ne andò sola, perché lei era «mattutina», sempre in piedi col sole, mentre suo marito era «notturno», sempre pronto a trascorrere la notte con gli amici. Egli le gridò: - Lasciami accanto al fuoco l’uovo sbattuto! - e si rimise a giocare. Dopo aver capito che non c’era da tirargli fuori nulla, gli altri dissero che era ora di smettere, e se ne andarono a letto.
Il giorno dopo si alzarono molto presto, con una vaga speranza, una maggior voglia di andarsene, e il terrore di avere ancora una giornata da passare in quell’orrido alberghetto.
Purtroppo i cavalli erano ancora nella scuderia, e il vetturale era sparito. Allora, tanto per far qualcosa, si misero a girare attorno alla diligenza. Il desinare fu triste: s’era prodotto una specie di raffreddamento nei riguardi di Pallina, perché la notte, che porta consiglio, aveva modificato alquanto le opinioni. Quasi quasi ora ce l’avevano con la ragazza, rimproverandola di non essere andata di nascosto dal prussiano, sì da riservare ai suoi compagni una bella sorpresa per il risveglio. Sarebbe stato tanto semplice! E d’altronde, chi l’avrebbe saputo? Poteva salvare le apparenze facendo dire all’ufficiale che aveva pietà dei suoi compagni angustiati. Cosa poteva contare, per lei?
Però nessuno ancora confessava questi pensieri.
Il pomeriggio, siccome s’annoiavano, il conte propose di fare una passeggiata nei dintorni del villaggio. Ognuno si coprì bene, e partirono tutti fuorché Cornudet, che preferì restare accanto al fuoco, e le due suore, che passavano le giornate in chiesa, o dal parroco.
Il freddo, che di giorno in giorno si faceva più intenso, pizzicava crudelmente il naso e le orecchie; i piedi doloravano al punto che ogni passo faceva soffrire; e non appena furono in vista della campagna, questa apparve loro così spaventosamente lugubre sotto lo sterminato biancore, che subito tornarono indietro, con l’anima gelata e il cuore stretto.
Le quattro donne camminavano avanti, e i tre uomini venivano dietro un po’ discosti.
Loiseau, che si rendeva conto della situazione, chiese all’improvviso se «quella sgualdrina» aveva intenzione di farli restare ancora per parecchio tempo in un simile luogo. Il conte, sempre gentile, disse che non si poteva pretendere da una donna un così penoso sacrificio, che doveva essere spontaneo. Carré-Lamadon notò che se i francesi - come si diceva - avevano intenzione di fare una controffensiva da Dieppe, lo scontro doveva avvenire per forza a Tôtes. A questa constatazione gli altri si preoccuparono. - E se cercassimo di scappare a piedi? - disse Loiseau. Il conte scrollò le spalle: - Con tutta questa neve? con le nostre donne? Saremmo subito inseguiti, ripresi dopo dieci minuti, e fatti prigionieri, in balia dei soldati. - Era vero; tutti tacquero.
Le signore parlavano di mode; ma sembrava che qualcosa le dividesse.
All’improvviso, in fondo alla strada comparve l’ufficiale prussiano. La sua alta figura di vespa in uniforme si stagliava sulla neve che chiudeva l’orizzonte, e camminando scartava le ginocchia con la mossa caratteristica dei soldati che cercano di non sporcarsi gli stivali accuratamente lucidati.
Passando accanto alle signore, s’inchinò, e guardò sprezzantemente gli uomini, i quali, del resto, furono così dignitosi da non togliersi il cappello, per quanto Loiseau ne avesse abbozzato il gesto.
Pallina era arrossita fino alle orecchie; le tre donne sposate erano molto umiliate per essersi fatte vedere dall’ufficiale in compagnia della ragazza ch’egli aveva trattato tanto incivilmente.
Si cominciò a parlar di lui, del suo personale, del suo viso. La signora Carré-Lamadon, che aveva conosciuto molti ufficiali, e poteva giudicarli da competente, disse che non era male; le dispiaceva perfino che non fosse francese, perché di certo sarebbe stato un bell’ussaro, da far girare la testa alle donne.
Dopo esser rientrati in albergo, non seppero più che fare. Ci fu perfino una mezza litigata per cose da nulla. La cena, silenziosa, durò poco; e ognuno se ne andò a letto sperando di dormire per ammazzare il tempo.
Il mattino seguente i viaggiatori scesero col viso stanco e gli animi inaspriti. Le donne rivolgevano appena la parola a Pallina.
S’udì il rintocco d’una campana. C’era un battesimo. Pallina aveva un figlio che veniva allevato da certi contadini d’Yvetot. Lo vedeva sì e no una volta all’anno, e non si occupava punto di lui; ma il pensiero di quello che stava per esser battezzato le suscitò un’improvvisa e violenta tenerezza per il suo, e volle assolutamente assistere alla cerimonia.
Appena se ne fu andata, gli altri si guardarono, poi fecero capannello con le sedie, sentendo che bisognava pur decidere qualcosa. Loiseau ebbe un’ispirazione: a parer suo si doveva proporre all’ufficiale di trattenere la sola Pallina, e di lasciar ripartire gli altri.
Follenvie s’incaricò dell’ambasciata, ma ridiscese quasi subito. Il tedesco, che conosceva la natura umana, l’aveva messo alla porta. Avrebbe trattenuto tutti, finché il suo desiderio non fosse stato soddisfatto.
Allora la natura plebea della signora Loiseau esplose: - Non moriremo mica di vecchiaia qui. Dal momento che lo fa di mestiere, quella sgualdrina, di andare con tutti gli uomini, mi pare che non abbia il diritto di rifiutare questo o un altro. Dico io, ha pigliato tutto quel che ha trovato, a Rouen, perfino i cocchieri; sissignora, il cocchiere della prefettura. Lo so, perché si serve da noi. E oggi che dovrebbe tirarci fuori da quest’impiccio, fa la difficile, quella mocciosa! A me mi pare che l’ufficiale si stia comportando bene. Forse è a digiuno da parecchio tempo, e noi tre ci avrebbe senz’altro preferite. Invece no si contenta di quella di tutti. Rispetta le donne sposate. Pensateci un po’, lui è il padrone. Gli basterebbe dire: «Voglio», e potrebbe prenderci per forza, coi suoi soldati.
Le altre due donne ebbero un piccolo brivido. Gli occhi della graziosa signora Carré-Lamadon brillavano, ed era un poco pallida, come se si sentisse già presa per forza dall’ufficiale.
Gli uomini, che stavano discutendo in disparte, s’avvicinarono. Loiseau, furibondo, voleva consegnare «quella miserabile» al nemico, legata mani e piedi. Ma il conte, che discendeva da tre generazioni d’ambasciatori, ed aveva la figura del diplomatico, propendeva per l’astuzia: - Bisognerà convincerla, - disse. Allora cospirarono.
Le donne s’avvicinarono, fecero crocchio; la discussione si estese, a voce bassa, perché ognuno voleva dir la sua. Era una cosa molto ammodo, del resto. Le signore, soprattutto, usarono delicati giri di frase, espressioni di mirabile sottigliezza, per i discorsi più scabrosi. Un estraneo non avrebbe capito nulla tante erano le precauzioni del parlare. Ma, poiché la leggera crosta di pudore che ricopre tutte le donne del bel mondo è soltanto superficiale, costoro gioivano di quell’avventura licenziosa, in fondo si divertivano pazzamente, si sentivano a loro agio, intrugliando nell’amore con la sensualità d’un cuoco ghiotto che prepari il pranzo a un altro.
L’allegria nasceva da sé, tanto buffa pareva quella storia. Il conte disse delle spiritosaggini un po’ spinte, ma così bene che fece sorridere. A sua volta Loiseau ne lanciò di più scurrili, ma che non diedero fastidio a nessuno; tutti erano rimasti colpiti dalla frase brutale di sua moglie: - Dal momento che lo fa di mestiere, perché dovrebbe rifiutarsi a quello o a un altro? - La graziosa moglie di Carré-Lamadon sembrava perfino pensare che, nei panni di Pallina, avrebbe rifiutato lui meno d’un altro.
Prepararono il blocco, a lungo, come se dovessero assediare una fortezza. Si misero d’accordo sulla parte che ognuno avrebbe sostenuto, sulle argomentazioni da portare, sulle manovre da eseguire. Furono concordati il piano d’attacco, le astuzie da usare, e le sorprese dell’assalto, per obbligare quella cittadella vivente a ricevere il nemico nella piazza.
Cornudet, però, restava in disparte, estraneo alla manovra.
Erano così intenti che non sentirono entrare Pallina. Il conte disse piano: - Zitti, - tutti alzarono gli occhi. Era lì. Tacquero di colpo, e ci fu un certo imbarazzo, che impedì dapprima di rivolgerle la parola. La contessa, più scaltrita degli altri nelle ipocrisie dei salotti, le chiese: - Era bello, il battesimo?
La ragazzona, ancora commossa, raccontò tutto, della gente, degli atteggiamenti, perfino di com’era la chiesa. E aggiunse: - Fa bene pregare ogni tanto.
Fino all’ora di mangiare le signore si limitarono a mostrarsi gentili con lei, per accrescere la sua fiducia e la sua arrendevolezza ai loro consigli.
Appena furono a tavola ebbero inizio le prime avvisaglie. Dapprincipio furono vaghi discorsi sull’abnegazione. Furono citati antichi esempi: Giuditta e Oloferne, poi - senza alcun motivo - Lucrezia e Sesto, Cleopatra che faceva passare nel suo letto tutti i generali nemici, riducendoli a esser servili come schiavi. Quindi sciorinarono una storia di fantasia, sbocciata nella loro mente di milionari ignoranti, in cui le cittadine di Roma, a Capua, facevano addormentare Annibale tra le loro braccia, e con lui i suoi luogotenenti e le falangi dei mercenari. Furono rammentate tutte le donne che fermarono i conquistatori, usando il proprio corpo come campo di battaglia, come mezzo di dominio, come arma; che riuscirono a vincere, con le loro eroiche carezze, esseri schifosi e odiati; che sacrificarono la loro castità, per vendetta o per abnegazione.
Si parlò anche, a mezze parole, di quell’inglese di grande casato, la quale s’era fatta inoculare una tremenda e contagiosa malattia per trasmetterla a Bonaparte, che fu salvato per miracolo, all’ora del fatale incontro, da un improvviso mancamento.
Tutti questi racconti furono fatti in modo corretto e moderato, ma talora vibrante d’un entusiasmo atto a suscitare l’emulazione.
Si poteva credere, alla fine, che il compito della donna, su questa terra, fosse un sacrificio continuo di se stessa, un perpetuo abbandonarsi ai capricci della soldataglia.
Le due suore, immerse in profondi pensieri, pareva che non sentissero nulla. Pallina non apriva bocca.
La lasciarono riflettere tutto il pomeriggio. Ma invece di chiamarla «signora», come avevano fatto fino ad allora, la chiamavano semplicemente «signorina» - e nessuno sapeva bene perché - come se avessero voluto farle scendere un gradino della stima che ella aveva raggiunto, farle sentire la vergogna della sua posizione.
Mentre stavano servendo la minestra, apparve Follenvie, e ripeté la frase del giorno prima: - L’ufficiale prussiano fa chiedere alla signorina Elisabeth Rousset se non ha ancora cambiato idea.
Pallina rispose seccamente: - Nossignore.
Durante la cena la coalizione s’indebolì. Loiseau si fece sfuggire alcune frasi infelici. Ognuno si dava un gran da fare per trovar nuovi esempi, e non trovava nulla, quando la contessa, forse senza neanche pensarci, e per il vago bisogno di fare un omaggio alla Religione, interrogò la suora più anziana sui grandi fatti della vita dei santi. Molti hanno compiuto delle azioni che ai nostri occhi apparirebbero come delitti, ma la Chiesa assolve senza difficoltà questi misfatti, quando son compiuti per la gloria di Dio, o per il bene del prossimo. Era una potente argomentazione, e la contessa ne approfittò. Così, fosse a causa di quelle tacite intese o nascoste compiacenze di cui è maestro chiunque indossi un abito ecclesiastico, fosse semplicemente a causa d’una felice mancanza d’intelligenza, o d’una favorevole stupidità, la vecchia suora portò un grandissimo aiuto alla cospirazione. Credevano che fosse timida, e si rivelò ardita, verbosa, violenta. Costei non era vincolata dalle cautele della casistica; la sua dottrina era simile a una sbarra di ferro; la sua fede non aveva mai esitazioni, la sua coscienza non aveva scrupolo alcuno. Trovava semplice il sacrificio d’Abramo perché non avrebbe esitato a uccidere suo padre e sua madre se glielo avessero ordinato dall’alto; secondo lei nulla poteva dispiacere al Signore, quando l’intenzione fosse buona. La contessa, profittando dell’autorità sacra dell’inattesa complice, le fece fare una specie di edificante parafrasi di quest’assioma della morale: «Il fine giustifica i mezzi».
Le chiedeva:
- Così, sorella, pensate che Dio accetti ogni mezzo, e perdoni qualunque azione, quando il motivo sia puro?
- Chi potrebbe metterlo in dubbio, signora? Una azione in sé riprovevole spesso diventa meritoria, perché è bene ispirata.
Andarono avanti di questo passo, mettendo in chiaro i voleri di Dio, prevedendo le sue decisioni, costringendolo a interessarsi di cose, che, a dir la verità, non lo riguardavano affatto.
E tutti questi discorsi erano involuti, misurati, abili. Eppure ogni parola della santa donna con la cuffia faceva breccia nell’indignata resistenza della cortigiana. Poi la conversazione si sviò un poco, e la donna col rosario parlò delle case del suo ordine, della sua superiora, di se stessa, e della sua graziosa vicina, la cara suora Saint Nicéphore. Le avevano richieste da Le Havre per curare, negli ospedali, centinaia di soldati colpiti dal vaiolo. Dipinse quei miseri, descrisse la loro malattia. Così, intanto ch’erano ferme per strada a causa d’un capriccio di quel prussiano, potevano morire tantissimi francesi che, forse, esse avrebbero potuto salvare. Curare i soldati era proprio la sua specialità: era stata in Crimea, in Italia, in Austria, e raccontando le sue campagne si rivelò all’improvviso come una di quelle religiose battagliere, che sembrano fatte apposta per seguire gli accampamenti, per raccogliere i feriti nella mischia e che riescono, meglio dei capi, a tenere a freno con una parola sola i vecchi soldati indisciplinati. Una vera e propria suora Rataplan il cui viso straziato, crivellato d’innumerevoli buchi, sembrava raffigurare le devastazioni della guerra.
Nessuno aggiunse una parola a quanto ella aveva detto, tanto l’effetto parve eccellente. Dopo aver finito di mangiare ognuno risalì alla svelta in camera sua, riscendendo la mattina dopo, assai tardi.
Desinarono tranquillamente, dando tempo al seme piantato il giorno prima di germogliare e di dare i suoi frutti.
La contessa propose di fare una passeggiata, nel pomeriggio; e il conte, com’era stato stabilito, prese sottobraccio Pallina, restando discosto dagli altri, con lei.
Le parlò col tono familiare, paterno e un po’ altero che gli uomini posati usano con le ragazze facili, chiamandola «mia cara bambina», trattandola dall’alto della sua posizione sociale della sua indiscussa onorabilità. Andò subito al sodo della questione:
- Allora, preferite lasciarci qui, esposti - come voi stessa, del resto - alle violenze che seguirebbero una sconfitta dei prussiani; piuttosto che accordare uno di quei favori, che avete concesso così spesso, in vita vostra?
Pallina non rispose.
Egli seppe essere buono, ragionevole, sentimentale. Seppe restare «il signor conte», ma mostrandosi, all’occorrenza, galante, complimentoso, insomma amabile. Esaltò il servigio ch’ella avrebbe reso loro, parlò della loro riconoscenza; poi, all’improvviso, dandole allegramente del tu: - E sai, mia cara, pensa che lui potrà vantarsi d’aver assaporato una ragazza così carina, come non ce ne son molte al suo paese.
Pallina non rispose, e raggiunse il gruppo.
Appena furono rientrati andò in camera sua e non si fece più vedere. Gli altri erano assai inquieti. Cosa avrebbe fatto? Sarebbe stato un bell’imbarazzo, se avesse ancora resistito.
Suonò l’ora della cena: l’attesero invano. Follenvie, che entrava in quel momento, annunciò che la signorina Rousset si sentiva indisposta, e perciò non sarebbe scesa. Tutte le orecchie si rizzarono. Il conte, avvicinatosi all’albergatore, disse a bassa voce: - Ci siamo? - Sì. - Per correttezza, non disse nulla ai suoi compagni e si limitò semplicemente a fare un leggero cenno col capo. Subito da tutti i petti uscì un gran sospiro di sollievo, i visi divennero allegri. Loiseau gridò: - Perdindirindina! Pago lo sciampagna, se qui ce n’è! - e la signora Loiseau si sentì mancare, quando il padrone tornò con quattro bottiglie in mano. Di colpo tutti divennero chiacchieroni, chiassosi. Una gioia vivace riempiva i cuori. Il conte parve accorgersi che la signora Carré-Lamadon era affascinante, l’industriale fece dei complimenti alla contessa. La conversazione divenne brillante, allegra, spiritosa.
All’improvviso Loiseau, col viso pieno di ansia, alzò il braccio gridando: - Silenzio! - Tutti tacquero sorpresi, quasi spaventati. Allora egli tese l’orecchio e chiedendo silenzio con le mani, alzò gli occhi al soffitto, si rimise ad ascoltare e soggiunse con voce normale: - Rassicuratevi, tutto va bene.
Lì per lì non capirono, poi sorrisero.
Dopo un quarto d’ora ricominciò lo stesso scherzo, e lo ripeté spesso nel corso della serata; fingeva di chiamare qualcuno al piano di sopra, gli dava dei consigli a doppio senso, germogliati nella sua fantasia di commesso viaggiatore. Ogni tanto, assumendo un’aria triste, sospirava: - Povera figliola... - oppure mormorava tra i denti, con rabbia: - Farabutto d’un prussiano! - Oppure, proprio quando nessuno ci pensava, esclamava più volte, con voce vibrante: - Basta! basta! - aggiungendo, come se parlasse a se stesso: - Purché riusciamo a rivederla; non vorrei che quel miserabile la facesse morire!
Nonostante fossero spiritosaggini di bassa lega, tutti si divertivano e nessuno si sentiva offeso, poiché l’indignazione - come ogni altra cosa - dipende dall’ambiente; l’atmosfera che a poco a poco era venuta creandosi attorno a loro era carica di pensieri licenziosi.
Al momento del dolce, anche le donne fecero spiritose e misurate allusioni. Gli sguardi brillavano: avevano bevuto molto. Il conte, che anche oltrepassando i limiti sapeva conservare una gravità contegnosa, fece un paragone, molto apprezzato, sullo sciogliersi delle nevi al polo, e la gioia dei naufraghi i quali vedono aprirsi una strada verso il sud.
Loiseau, ormai sfrenato, s’alzò con una coppa di sciampagna in mano: - Bevo alla nostra liberazione! - Tutti si alzarono, acclamando. Perfino le suore, incitate dalle signore, acconsentirono a bagnare le labbra nel vino spumante che non avevano mai assaggiato. Dissero che sembrava limonata gassosa, però più delicata.
Loiseau ricapitolò i fatti.
- È un peccato non avere un pianoforte, si potrebbe fare una quadriglia.
Cornudet non aveva aperto bocca, né fatto un gesto; sembrava sprofondato in gravissimi pensieri e ogni tanto si tirava furiosamente quel suo barbone come se volesse farlo diventar più lungo. Finché, verso mezzanotte, al momento di separarsi, Loiseau un po’ titubante gli diede un colpetto sulla pancia e disse barbugliando: - Non avete voglia di scherzare stasera, cittadino? Non dite nulla? - Allora Cornudet rialzò bruscamente la testa e gettando uno sguardo vivido e terribile sulla brigata: - Ve lo dico a tutti: avete commesso un’infamia! - Si alzò, raggiunse la porta, ripetendo ancora: - Un’infamia! - e scomparve.
Dapprima questa frase raggelò tutti. Loiseau, interdetto, era rimasto a bocca aperta; ma si riprese e all’improvviso esclamo, torcendosi dalle risa: - Vi scoprite troppo, caro mio, vi scoprite troppo... - Siccome non capivano raccontò i «misteri del corridoio». Risorse un’allegria sfrenata. Le signore si divertivano come pazze. Il conte e Carré-Lamadon piangevano, dal ridere. Non riuscivano a crederci.
- Come? siete sicuro? voleva...
- Vi dico che l’ho visto...
- Perché c’era il prussiano nella camera accanto...
- Possibile?
- Ve lo giuro.
Il conte non ne poteva più. L’industriale si reggeva la pancia con le mani. Loiseau seguitò:
- Così, capite, stasera la storia non lo ha fatto ridere, proprio per niente.
E ricominciarono a ridere tutti e tre fino a non farcela più. Si lasciarono ridendo ancora. Ma la signora Loiseau, che era come le ortiche, fece osservare a suo marito, quando stavano per mettersi a letto, che «quella strega» della giovane Carré-Lamadon per tutta la sera non aveva fatto che ridere controvoglia: - Le donne, sai, quando hanno un debole per le uniformi, gliene importa poco che si tratti di francesi o di prussiani. Mi domando e dico, Signore Iddio, se non è una cosa da far rivoltare!
Tutta la notte nel corridoio oscuro si sentirono come dei fremiti, dei lievi rumori, appena distinguibili, simili a soffi, scalpiccio di piedi nudi, impercettibili scricchiolii.
Certo tutti s’addormentarono tardissimo, perché sotto le porte trasparirono per parecchio tempo dei fili di luce. Lo sciampagna fa questo effetto; dicono che guasti il sonno.
Il giorno dopo un chiaro sole invernale rendeva abbagliante la neve. La diligenza, finalmente pronta, aspettava davanti alla porta; uno stormo di piccioni bianchi, dagli occhi rosa macchiati al centro da un punto nero, impettiti sotto l’imbottitura delle piume, passeggiavano con dignità tra le gambe dei sei cavalli sparpagliandone lo sterco fumante dove cercavano il loro nutrimento.
Il cocchiere, avvolto nella pelliccia di montone, si fumava la pipa, seduto al suo posto, intanto che i viaggiatori, raggianti, si facevano incartare le provviste per il viaggio.
Mancava soltanto Pallina. Ella comparve.
Sembrava un po’ agitata, vergognosa, andò timidamente verso i suoi compagni, i quali, tutti, con lo stesso movimento, si voltarono come se non l’avessero vista. Con sussiego il conte prese sua moglie sottobraccio allontanandola dall’impuro contatto.
La ragazza si fermò, sbalordita; e facendosi animo, mormorò umilmente: - Buongiorno, signora - alla moglie dell’industriale. Costei fece soltanto un salutino impertinente con la testa, accompagnandolo con un’occhiata di donna perbene oltraggiata. Pareva che tutti avessero da fare, e le stavano lontani come se avesse le gonnelle appestate. Poi si precipitarono in carrozza, ed ella entrò sola, per ultima, rioccupando in silenzio il suo vecchio posto.
Sembrava che non la vedessero, che non la conoscessero, ma la signora Loiseau sogguardandola indignata, da lontano, disse al marito, a mezza voce: - Per fortuna non sto accanto a lei.
La pesante vettura si scosse, e il viaggio ricominciò.
Dapprima nessuno parlò. Pallina non aveva il coraggio di alzar gli occhi. Era furiosa contro i suoi vicini, e al tempo stesso umiliata per aver ceduto, si sentiva insozzata dai baci del prussiano fra le braccia del quale l’avevano gettata, ipocritamente.
La contessa, voltandosi verso la signora Carré-Lamadon, ruppe l’imbarazzante silenzio.
- Conoscete, mi pare, la signora D’Étrelles?
- Sì, è una mia amica.
- Che donna incantevole!
- Affascinante! Una natura veramente eletta; è assai colta, e artista fino alla cima dei capelli; canta in modo insuperabile, e disegna alla perfezione.
L’industriale discuteva con il conte e tra il tintinnio dei vetri ogni tanto venivano fuori parole come: - Cedole... scadenza... premio... a termine.
Loiseau, che aveva sgraffignato all’albergo il vecchio mazzo di carte, unte per i cinque anni di uso sulle tavole mal pulite, giocava a briscola con sua moglie.
Le suore si tolsero dalla cintura il lungo rosario che vi pendeva, si fecero insieme il segno della croce, e all’improvviso le loro labbra cominciarono a muoversi con gran rapidità, accelerando sempre più, quasi a precipizio, quel loro vago mormorio, come per una corsa d’oremus; ogni tanto baciavano una medaglia, si segnavano un’altra volta e ricominciavano il loro borbottio rapido e continuo.
Cornudet, immobile, pensava.
Dopo tre ore che erano in strada, Loiseau raccattò le carte dicendo:
- Ho fame.
Sua moglie prese un pacchettino legato con lo spago, e ne trasse fuori un pezzo di vitello freddo. Lo tagliò ammodo, in pezzettini regolari, e tutti e due si misero a mangiare.
- Se facessimo lo stesso anche noi? - disse la contessa. I Carré-Lamadon e il conte erano d’accordo, e allora furono scartati gli involti. In uno di quei recipienti ovali che hanno sul coperchio una lepre di ceramica, per indicare che sotto c’è un pasticcio di lepre, c’erano vivande succulente, bianchi fiumi di lardo che attraversavano la carne scura della cacciagione, insieme ad altre carni finemente macinate. Un bel pezzo di groviera ch’era stato incartato in un giornale, recava stampato sulla polpa grassa: «cronaca».
Le suore tirarono fuori un pezzo di salame odoroso d’aglio; e Cornudet infilando insieme le mani nei tasconi del suo cappotto trasse da una quattro uova sode, e dall’altra un cantuccio di pane. Levò il guscio alle uova, gettandolo ai suoi piedi, fra la paglia, e le mangiò a morsi facendo cadere sulla sua gran barba dei pezzetti di tuorlo che parevano stelle, perdute lì in mezzo.
Pallina si era levata dal letto in fretta, sconvolta, e non aveva pensato a portarsi qualcosa: esasperata, fremente di rabbia, guardava quella gente che mangiava tranquillamente. Fu presa dapprima da una collera furibonda e aprì la bocca per gridare a tutti il fatto loro col torrente d’ingiurie che le saliva alle labbra; ma era così fuori di sé che non riusciva a parlare.
Nessuno la guardava, o pensava a lei. Ella si sentiva soffocata dal disprezzo di quegli onesti cialtroni che prima l’avevano sacrificata, e poi respinta come una cosa sudicia e inutile. Ripensò al suo bel paniere pieno di cose buone che avevano ingordamente mangiato, ai suoi polli lustri di gelatina, ai pasticci, alle pere, alle quattro bottiglie di bordò; il suo furore svanì subito come una corda troppo tesa che si spezzi, e si sentì vicina a piangere. Fece sforzi terribili, s’irrigidì, ingoiò i singhiozzi come fanno i bambini, ma le lacrime salivano, luccicavano sull’orlo delle palpebre, e presto due lacrimoni, staccandosi dagli occhi, le rotolarono lentamente sulle guance. Altre le seguirono, più rapide, colando come le gocce d’acqua che sgorgano dalla roccia e caddero una dopo l’altra sul suo seno ricolmo.
La contessa se ne accorse e la indicò a suo marito con un segno. Questi scrollò le spalle, come per dire: - Non ci posso fare nulla, non è colpa mia. - La signora Loiseau sorrise silenziosa e trionfante, mormorando: - Piange sulla sua vergogna.
Le suore avevano ricominciato a pregare, dopo aver riposto nel paniere l’avanzo del salame.
Cornudet, che stava digerendo le uova, stese le sue lunghe gambe sotto il sedile di faccia, rovesciò il capo, incrociò le braccia, sorrise come chi ha avuto una buona idea e cominciò a fischiare la Marsigliese.
I visi di tutti si oscurarono. La canzone popolare di certo non era gradita ai suoi vicini. S’innervosirono, irritati e pronti a urlare come cani che sentono suonare un organino. Egli se ne accorse e non si fermò più. Ogni tanto cantarellava anche le parole:

Amour sacré de la patrie,
Conduis, soutiens, nos bras vengeurs,
Liberté, liberté chérie,
Combats avec tes défenseurs! (6)

La vettura correva più lesta, la neve era più dura; e fino a Dieppe, per tutte le lunghe e tetre ore del viaggio, tra gli scossoni della strada, al crepuscolo e poi nella profonda oscurità che sopravvenne, egli continuò con feroce ostinazione il suo fischio vendicatore e monotono, obbligando le menti stanche ed esasperate a seguire il canto da cima a fondo, a ricordarsi ogni parola, applicandola a ciascuna battuta.
Pallina seguitava a piangere; talora un singhiozzo che non era riuscita a trattenere scivolava tra una strofa e l’altra, nelle tenebre.

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(1) Loiseau vole = gioco di parole intraducibile tra “l’oiseau vole” (l’uccello vola), un vecchio gioco di società, e “Loiseau vole” (Loiseau ruba).
(2) Badinguet = soprannome satirico di Napoleone III.
(3) Il principe imperiale = Eugenio Luigi Napoleone, figlio di Napoleone III e di Eugenia di Montijo.
(4) Trentuno = gioco di carte.
(5) Écarté = gioco francese di carte da fare in due o in quattro.
(6) Amore sacro della Patria, / Conduci, sostieni le nostre braccia vendicatrici, / Libertà, amata Libertà, / Combatti con i tuoi difensori.

4 fotogrammi dal film western “Ombre rosse” di John Ford (1939), tratto da un racconto di Ernest Haycox, a sua volta ispirato al racconto di Maupassant

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