Siamo
all’epoca della guerra franco-prussiana del 1870-1871; per fuggire da Rouen,
invasa dai prussiani, 10 personaggi noleggiano una carrozza, diretti verso Le
Havre. Essi sono:
1- il
signor Loiseau, commerciante di vino, notoriamente ladro
2- la
signora Loiseau, sua moglie, che guida con la sua prontezza la ditta
3- il
signor Carré-Lamadon, proprietario di filande, membro – per interesse –
dell’opposizione al secondo Impero francese (quello di Napoleone III)
4- la
signora Carré-Lamadon, sua moglie, “consolazione degli ufficiali di buona
famiglia”
5- il
conte di Bréville, rappresentante del partito che sosteneva Napoleone III
6- la
contessa di Bréville, figlia di un piccolo armatore, ma profondamente
aristocratica
7-
una vecchia suora
8-
una suora dall’aspetto malaticcio
9- il
signor Courdonet, un giovane democratico e repubblicano
10-
una prosperosa prostituta, soprannominata “Pallina di burro” (“Boule de suif”,
in originale).
Tutti
trattano con disprezzo la prostituta, fino a quando non hanno bisogno di lei.
Il
racconto venne pubblicato il 16 aprile 1880 su Les Soirées de Mèdan. Maupassant costruisce una storia a tesi, per
sottolineare l’ipocrisia di tutti i personaggi (i nobili e i borghesi, gli
ecclesiastici e i vincitori prussiani), tranne la protagonista, cui va tutta la
simpatia dell’autore e del lettore.
Per giorni e giorni i resti
dell’esercito in rotta attraversarono la città. Non erano soldati, ma orde
sbandate. Gli uomini, con la barba lunga e sporca, le uniformi a brandelli,
camminavano con passo stanco, senza bandiera, senza capi. Parevano tutti
depressi, sfiancati, incapaci di pensare o di decidere, andavano avanti solo
per abitudine, e appena si fermavano cadevano giù dalla fatica. Erano per lo
più richiamati, gente pacifica, tranquilli possidenti, curvi sotto il peso del
fucile; giovanissime reclute, vivaci, facili a spaventarsi come a
entusiasmarsi, pronte all’attacco come alla fuga; in mezzo ad essi, alcuni
pantaloni rossi, resti d’una divisione maciullata in una grande battaglia;
scuri artiglieri in fila con fanti di diverse armi; e, ogni tanto, l’elmo
lucido d’un dragone dal passo pesante che seguiva faticosamente la marcia più
spedita dei fanti. Passavano anche legioni di franchi tiratori dai nomi eroici:
«i Vendicatori della Disfatta; i Cittadini della Tomba; i Votati alla Morte», e
dall’aspetto di banditi.
I loro capi, ex commercianti di
tessuti o di granaglie, ex venditori di sego o di sapone, guerrieri
d’occasione, coperti d’armi e di gradi, imbottiti di maglie, che erano stati
nominati ufficiali per i loro soldi o per la lunghezza dei loro baffi,
parlavano con voce stentorea, discutevano piani di battaglia, e pretendevano di
sostenere da soli, sulle loro spalle di fanfaroni, la Francia agonizzante: ma
avevano anche paura dei loro soldati, gente da forca, spesso coraggiosi
all’estremo, predoni e viziosi.
I prussiani - si diceva - stavano
per entrare a Rouen.
La Guardia Nazionale, che da due
mesi faceva prudentissime ricognizioni nei boschi vicini, sparando talvolta
alle proprie sentinelle, e preparandosi al combattimento quando sentiva un
coniglietto muoversi tra le frasche, era rientrata alla base; le armi, le
divise, tutto l’apparato bellico con cui spaventava i paracarri delle strade
nazionali nel giro di una decina di chilometri, erano improvvisamente
scomparsi.
Gli ultimi soldati francesi erano
finalmente riusciti ad attraversare la Senna, per raggiungere Pont-Audemer
attraverso Saint-Sever e Bourg-Achard; e in coda a tutti, il generale, disperato,
impedito di tentare alcunché con quell’accozzaglia di straccioni, egli stesso
sperduto nella grande sconfitta d’un popolo abituato a vincere e battuto
disastrosamente nonostante il suo leggendario coraggio, veniva a piedi,
camminando fra due ufficiali d’ordinanza.
Poi una profonda calma, un’attesa
sgomenta e silenziosa erano discese sulla città. Parecchi borghesi panciuti,
evirati dal commercio, attendevano ansiosamente i vincitori, tremando al
pensiero che venissero considerati come armi gli spiedi del girarrosto o i
coltellacci delle cucine.
Pareva che la vita si fosse
fermata: le botteghe erano chiuse, le strade silenziose. Ogni tanto un
abitante, intimorito dal silenzio, sgattaiolava rapido lungo i muri.
L’angoscia dell’attesa faceva
desiderare l’arrivo del nemico.
Nel pomeriggio del giorno che
seguì la partenza delle truppe francesi, alcuni ulani, usciti non si sa di
dove, attraversarono rapidamente la città. Un po’ più tardi una massa nera
discese la costa di Santa Caterina, mentre altre due ondate d’invasori
comparivano dalle strade di Darnetal e di Boisguillaume. Le avanguardie dei tre
corpi d’armata si congiunsero proprio nello stesso momento in piazza del
Municipio; e da tutte le strade vicine arrivava l’esercito tedesco, snodando i
suoi battaglioni, che facevano risuonare il selciato con il loro passo duro e
cadenzato.
Lungo le case che parevano morte
e deserte salivano gli ordini gridati da una voce straniera e gutturale, mentre
dietro gli scuri socchiusi gli occhi degli abitanti spiavano i vincitori,
padroni della città, dei beni e delle vite per «diritto di guerra».
Nelle stanze in penombra gli
abitanti erano in preda allo sgomento che provocano i cataclismi, i grandi e
micidiali sconvolgimenti della terra, contro i quali forza e saggezza sono
inutili. Poiché, ogni volta che l’ordine delle cose è rovesciato, quando non
c’è più sicurezza, quando tutto ciò ch’era protetto dalle leggi degli uomini o
della natura si trova alla mercé d’una feroce ed incosciente brutalità, allora
quelle stesse sensazioni ricompaiono. Il terremoto che schiaccia sotto le case
in rovina un intero popolo; il fiume che straripando trascina assieme contadini
annegati, carogne di bovi e travi strappate dai tetti; oppure l’esercito
glorioso che massacra chi cerca di difendersi e imprigiona gli altri, che
saccheggia in nome della Spada e ringrazia Iddio col rombo del cannone: sono
altrettanti flagelli spaventosi che scuotono qualunque fede nell’eterna
giustizia, qualunque fiducia ci sia stata insegnata nella protezione del Cielo
e nella ragione dell’uomo.
Ad ogni porta bussavano piccoli
gruppi di soldati, che poi scomparivano dentro le case. Era l’occupazione dopo
l’invasione. Per i vinti cominciava il dovere d’essere cortesi coi vincitori.
Passato un po’ di tempo, e
scomparsi i primi terrori, s’instaurò una nuova calma. In molte famiglie
l’ufficiale prussiano mangiava a tavola con gli altri. Trattandosi talvolta di
persona bene educata, costui, per gentilezza, commiserava la Francia e
manifestava la ripugnanza di dover prender parte a una simile guerra. Gliene
erano riconoscenti; senza contare che un giorno o l’altro potevano aver bisogno
della sua protezione. Trattandolo bene si poteva forse ottenere di dover
nutrire qualche soldato di meno. E poi, perché mettersi contro uno da cui si
dipendeva completamente? Un simile comportamento sarebbe stato più temerario
che audace. E la temerità non è più un difetto dei borghesi di Rouen, come lo
era stato ai tempi delle eroiche difese che resero illustre la loro città. E
per ultimo - motivo essenziale, data l’urbanità francese - dicevano che era
permesso esser gentile coi soldati nemici, nell’intimità, purché non gli si
dimostrasse familiarità in pubblico. Per strada non ci si conosceva più, ma in
casa si chiacchierava volentieri, e ogni sera il tedesco si tratteneva sempre
più, a riscaldarsi accanto al focolare.
Anche la città riprendeva a poco
a poco il suo aspetto solito. Per il momento i francesi uscivano poco, ma i
soldati prussiani pullulavano nelle strade. Del resto gli ufficiali degli
ussari azzurri che con arroganza facevano risuonare sul selciato i loro grandi
arnesi di morte, non pareva che avessero per i comuni cittadini un disprezzo
maggiore di quello che l’anno prima avevano dimostrato gli ufficiali alpini
francesi, sedendo negli stessi caffè.
Tuttavia c’era qualcosa
nell’aria, qualcosa di sottile e d’ignoto, una insopportabile atmosfera
estranea e una specie di odore diffuso, l’odore dell’invasione. Riempiva le
case e i locali pubblici, mutava il gusto dei cibi, dando l’impressione che si
fosse in viaggio, lontanissimi, fra tribù barbare e pericolose.
I vincitori volevano denaro,
molto denaro. Gli abitanti pagavano sempre; erano ricchi, del resto. Ma più
l’opulenza di un negoziante normanno cresce, più egli soffre per ogni
sacrificio, per ogni particella del suo patrimonio che vede passare nelle mani
d’un altro.
Intanto, alcuni chilometri più
giù della città, seguendo il corso del fiume, verso Croisset, Dieppedalle o
Biessart, i barcaioli e i pescatori traevano spesso dal fondo dell’acqua il
cadavere d’un tedesco, enfiato nell’uniforme, ucciso a coltellate o a colpi di
zoccolo, con la testa schiacciata da una pietra, o spinto in acqua dall’alto di
un ponte. La melma del fiume seppelliva queste oscure vendette, selvagge e
legittime, eroismi sconosciuti, assalti silenziosi, più pericolosi delle
battaglie alla luce del giorno, e senza il frastuono della gloria.
Poiché l’odio contro lo straniero
arma sempre la mano degli intrepidi pronti a morire per un’idea.
Infine, siccome gl’invasori - per
quanto avessero piegato la città alla loro inflessibile disciplina - non
avevano perpetrato nessuno degli orrori che avrebbero dovuto, secondo quanto si
diceva, durante la loro marcia trionfale, ci s’imbaldanzì, e il bisogno di
trafficare ricominciò ad agitarsi nel cuore dei commercianti del paese. Taluni
avevano grossi interessi a Le Havre, che era in mano delle truppe francesi, e
vollero tentare di raggiungerne il porto andando via terra a Dieppe, e lì
imbarcandosi.
Ricorsero agli ufficiali tedeschi
che avevano conosciuto, e ottennero un’autorizzazione a partire dal generale in
capo.
Così, avevano prenotato per il
viaggio una grande diligenza a quattro cavalli. Dieci persone s’erano messe in
nota all’ufficio, e decisero di partire un martedì mattina, prima dell’alba per
evitare assembramenti.
Già da tempo il gelo aveva indurito
la terra, e il lunedì verso le tre dei nuvoloni neri provenienti dal nord
portarono la neve, che cadde ininterrottamente per tutta la sera e per tutta la
notte.
I viaggiatori si riunirono alle
quattro e mezzo del mattino nel cortile dell’Albergo di Normandia, da dove
sarebbe partita la diligenza.
Erano ancora insonnoliti e sotto
i panni tremavano dal freddo. Nell’oscurità si riconoscevano a malapena; e
tutti quei corpi imbottiti dai pesanti abiti da inverno, somigliavano a dei
preti obesi nelle loro sottane. Due uomini si riconobbero, un terzo li accostò,
cominciarono a parlare. - Porto con me mia moglie, - disse uno. - Anch’io. - E
io pure. - Il primo aggiunse: - Non ritorneremo più a Rouen, e se i prussiani
s’avvicinano a Le Havre ce ne andremo in Inghilterra. - Avevano gli stessi
progetti, perché avevano la stessa mentalità.
Intanto la vettura non veniva
ancora attaccata. Un lanternino, tenuto da un garzone di scuderia, usciva ogni
tanto da una porta scura e immediatamente spariva in un’altra. Si sentivano dal
fondo della stalla le zampe dei cavalli battere il suolo, smorzate dallo
strame, e una voce d’uomo che parlava alle bestie e bestemmiava. Un leggero
bubbolio di sonagli annunciò ch’era cominciata la bardatura; e il bubbolio
divenne presto un fremito chiaro e continuo, ritmato dai movimenti
dell’animale, talvolta interrotto, e ripreso poi con una scossa brusca che
accompagnava il rumore sordo d’uno zoccolo che batteva sul suolo.
La porta si richiuse
all’improvviso. Ogni rumore cessò. I borghesi, gelati, si chetarono rimanendo
immobili e irrigiditi.
Una ininterrotta cortina di
fiocchi bianchi brillava senza posa scendendo verso terra; annullava le forme,
impolverando tutto con una spuma gelata; e nel vasto silenzio della città calma
e sepolta sotto l’inverno si sentiva soltanto l’indicibile, vago e fluttuante
stropiccio della neve che cadeva, sensazione più che rumore, mischia di leggeri
atomi, che parevano riempire lo spazio, coprire il mondo.
L’uomo col lanternino ricomparve,
tirando dietro a sé, con una corda, un cavallo triste, che lo seguiva
malvolentieri. Lo mise contro il timone, attaccò le tirelle, gli girò intorno
parecchio per sistemare i finimenti, poiché dovendo reggere il lume poteva
usare una mano sola. Mentre andava a prendere l’altra bestia, vide i
viaggiatori immobili, già bianchi di neve, e disse: - Perché non salite in
carrozza? Almeno sarete al riparo...
Proprio non ci avevano pensato, e
si precipitarono dentro. I tre uomini fecero sistemare in fondo le loro mogli,
poi salirono; le altre forme vaghe e velate occuparono a loro volta i posti
rimasti, in silenzio.
Il pavimento della diligenza era
coperto di paglia e i piedi vi affondavano. Le donne sedute in fondo accesero
gli scaldini di rame a carbone chimico, che avevano portato con sé, e per un
po’ di tempo, a bassa voce, ne elencarono i vantaggi, ripetendo cose che
sapevano tutte da tempo.
Finalmente, appena la diligenza
fu attaccata, con sei cavalli al posto di quattro, a causa del tiro più
faticoso, una voce dal di fuori chiese: - Son saliti tutti? - Una voce da
dentro rispose: - Sì. - La diligenza partì.
Andavano avanti piano piano, di
passo. Le ruote affondavano nella neve, tutta l’ossatura gemeva tra sordi
scricchiolii: le bestie scivolavano, soffiavano, fumavano; e la gigantesca
frusta del cocchiere schioccava incessantemente, volteggiando da ogni lato, e
svolgendosi come un sottile serpente, d’improvviso attorcigliandosi sulle
groppe piene, che si tendevano in uno sforzo più violento.
A poco a poco la luce aumentava.
I leggeri fiocchi, che un viaggiatore - autentico figlio di Rouen - aveva
paragonato ad una pioggia di cotone, non cadevano più. Una sporca luce filtrava
attraverso i nuvoloni scuri e pesanti che facevano apparire più splendida la
bianchezza della campagna dove ogni tanto appariva una fila di grandi alberi
coperti di brina, o una capanna incappucciata di neve.
Nella diligenza i passeggeri si
guardavano incuriositi al triste chiarore dell’alba.
In fondo, ai posti migliori,
sonnecchiavano uno di fronte all’altro i coniugi Loiseau, venditori di vino all’ingrosso
in via Grand-Pont.
Già commesso d’un mercante che
s’era rovinato con gli affari, Loiseau ne aveva comprato il magazzino, e aveva
fatto fortuna. Vendeva a pochissimo prezzo dei vini pessimi ai piccoli minutanti
di campagna, ed era considerato, dai conoscenti e dagli amici, un furbo di tre
cotte, un vero normanno astuto e gioviale.
La sua fama di mariolo era così
salda, che una sera, alla Prefettura, il signor Tournel, rinomato autore di
barzellette e di canzoncine, spirito sottile e mordace, una celebrità locale,
vedendo le signore un po’ insonnolite, aveva proposto di giocare a «Loiseau
vole» (1): la freddura attraversò i salotti del prefetto, arrivò in quelli di
città, e fece ridere per un mese tutte le ganasce della provincia.
Loiseau, inoltre, era famoso per
i suoi scherzi d’ogni genere, per le sue spiritosaggini buone e cattive; e
nessuno parlava di lui senza aggiungere: - Quel Loiseau, non ce n’è un altro
come lui.
Basso di statura, aveva la pancia
a pallone sormontata da un viso rubicondo tra le fedine brizzolate.
Sua moglie, alta, robusta,
risoluta, forte di voce e rapida nel decidere, rappresentava l’ordine e la
contabilità della ditta, che animava con la sua allegra attività.
Accanto ad essi, più dignitoso,
perché appartenente ad una casta superiore, stava il signor Carré-Lamadon,
persona ragguardevole, ben collocato nei cotoni, proprietario di tre filande,
ufficiale della Legion d’Onore e membro del Consiglio generale. Finché era
durato l’Impero, era stato a capo dell’opposizione benevola, soltanto per farsi
pagar più cara la sua adesione alla causa che egli - per usare la sua
espressione - combatteva ad armi cortesi. La signora Carré-Lamadon, assai più
giovane di lui, era la consolazione degli ufficiali di buona famiglia mandati
di guarnigione a Rouen. Stava di fronte al marito, molto vezzosa, molto carina,
raggomitolata nella pelliccia, e guardava con occhio afflitto l’interno
desolato della diligenza.
I suoi vicini, il conte e la
contessa Hubert de Bréville, portavano uno dei nomi più antichi e più nobili di
Normandia. Il conte, vecchio gentiluomo di grande stile, cercava di accentuare
con palesi accorgimenti la sua naturale somiglianza con il re Enrico IV il quale,
secondo una gloriosa leggenda di famiglia, avrebbe ingravidato una signora di
Bréville per cui il marito di quest’ultima fu fatto conte e governatore di una
provincia.
Collega di Carré-Lamadon al
Consiglio generale, il conte Hubert rappresentava nel dipartimento il partito
orleanista. La storia del suo matrimonio con la figlia d’un piccolo armatore di
Nantes era sempre rimasta misteriosa. Ma siccome la contessa aveva gran tono,
sapeva ricevere meglio di chiunque, - si diceva pure che fosse stata benvoluta
da un figlio di Luigi Filippo - era ricercata dalla nobiltà e il suo salotto
era il primo della regione, l’unico dove fosse sopravvissuta l’antica cortesia e
dove fosse difficile entrare.
Si dice che il patrimonio dei
Bréville, tutto in beni immobili, fruttasse cinquecentomila lire di rendita.
Queste sei persone, che
occupavano il fondo della carrozza, rappresentavano la parte della società
fornita di rendite, serena e forte, la gente onesta provvista di Religione e di
Principii.
Per una strana combinazione tutte
le donne stavano sullo stesso sedile; le altre vicine della contessa erano due
suore che sgranavano lunghi rosari biascicando paternostri e avemarie. La prima
era vecchia, e aveva il viso butterato dal vaiolo, come se le avessero sparato
una scarica di mitraglia a bruciapelo. L’altra, dall’aria molto patita, aveva
una testina graziosa e malaticcia su un petto da tisica consumata dalla fede
divorante che crea i martiri e gli esaltati.
Di fronte alle due suore, un uomo
e una donna attiravano tutti gli sguardi.
L’uomo, assai noto, era Cornudet
il democratico, il terrore delle persone perbene. Da vent’anni egli inzuppava
il suo barbone fulvo nella birra di tutti i caffè democratici. S’era mangiato,
insieme ai fratelli e agli amici, un bel gruzzolo, ereditato dal padre
pasticciere, e aspettava con impazienza la venuta della repubblica per ottenere
finalmente il posto che s’era meritato con tante bevute rivoluzionarie.
Il quattro di settembre, forse in
seguito a uno scherzo, credette d’essere stato nominato prefetto, ma quando
tentò d’insediarsi, gli uscieri, rimasti arbitri della situazione, si
rifiutarono di riconoscerlo, costringendolo ad andarsene. Buon compagnone,
d’altronde, inoffensivo e servizievole, s’era incaricato, con ardore senza
pari, d’organizzare la difesa. Aveva fatto scavare delle buche, nelle pianure,
aveva fatto abbattere i giovani alberi delle foreste vicine, aveva seminato
trappole su tutte le strade, e all’avvicinarsi del nemico, soddisfatto dei suoi
preparativi, aveva ripiegato in fretta verso la città. Pensava, ora, di essere
più utile a Le Havre, dove sarebbero state necessarie nuove fortificazioni.
La donna, una di quelle che
vengon chiamate allegre, era rinomata per la sua floridezza, che le aveva
procurato il soprannome di Pallina. Piccina, tutta tonda, grassa grassa, con le
dita rigonfie strozzate alle falangi, simili a rosari di salsicciotti, aveva la
pelle lustra e tesa, un enorme seno che le gonfiava il vestito: pure, era
appetitosa e desiderata, tanto piacevole a vedersi era la sua freschezza. Il
suo viso era una mela rossa, un bocciolo di peonia vicino a schiudersi; vi si
aprivano, in alto, due magnifici occhi neri ombreggiati da lunghe e folte
ciglia, e sotto una bella bocca piccola, umida, da baci, guarnita di dentini lucenti
e microscopici.
Ella aveva inoltre - si diceva -
moltissime inestimabili qualità.
Appena la riconobbero, indignati
bisbiglii corsero tra le donne oneste, e le parole «prostituta», e «vergogna
pubblica» furono pronunciate così forte ch’ella alzò il capo, e fece scorrere
sui vicini uno sguardo così ardito e provocante che subito si fece un gran
silenzio, e tutti abbassarono gli occhi, eccettuato Loiseau, il quale la
guardava eccitato.
Ma poco dopo le tre signore
ripresero la conversazione, divenute d’improvviso amiche, anzi quasi intime, a
causa della ragazza. Esse, così pareva loro, dovevano riunire in fascio le loro
dignità di spose, di contro a quella svergognata mercenaria; poiché l’amore
legale tratta sempre con arroganza il suo libero confratello.
Anche i tre uomini, ravvicinati,
alla vista di Cornudet, da un istinto di conservatori, parlavano di soldi,
affettando un’aria sdegnosa verso i poveri. Il conte Hubert enumerava i danni
che aveva patito per colpa dei prussiani, il bestiame rubato, i raccolti
perduti, con la disinvoltura del gran signore dieci volte milionario che dopo
un anno avrebbe dimenticato tutte quelle rovine. Carré-Lamadon, assai colpito
nella sua industria di cotoni, s’era preoccupato di mandare seicentomila
franchi in Inghilterra, un’inezia che teneva in serbo per ogni evenienza.
Loiseau, dal canto suo, aveva brigato per vendere all’Intendenza francese tutto
il vino comune che gli era restato nelle cantine, dimodoché lo Stato gli era
debitore di una grossissima somma che egli sperava di riscuotere a Le Havre.
Tutti e tre si lanciavano
occhiate rapide e amichevoli. Per quanto fossero di diversa condizione si
sentivano affratellati dal denaro, la grande massoneria di coloro che
possiedono, di coloro che fanno tintinnare l’oro infilandosi la mano in tasca.
La diligenza andava così piano
che alle dieci del mattino aveva percorso una quindicina di chilometri. Gli
uomini scesero tre volte per fare a piedi le salite. Cominciò a trapelare
l’inquietudine, perché s’era previsto di mangiare a Tôtes, e ormai c’erano
poche speranze d’arrivarci prima di notte. Mentre tutti guardavano sulla
strada, se spuntasse una osteria, la diligenza s’incagliò in un mucchio di neve
e ci vollero due ore per liberarla.
L’appetito cresceva annebbiando i
cervelli; e non si vedeva nessuna trattoria, nessuna bottega di vini, poiché la
venuta dei prussiani e il passaggio delle fameliche truppe francesi avevano scoraggiato
qualunque industria.
Gli uomini andarono alla ricerca
di rifornimenti nei casolari lungo la strada, ma non trovarono neanche un po’
di pane, poiché i contadini sospettosi nascondevano tutto per paura dei
soldati, i quali non avendo nulla da mangiare prendevano per forza quel che
trovavano.
Verso l’una del pomeriggio
Loiseau dichiarò di sentirsi una gran buca nello stomaco. Ma tutti, da
parecchio tempo, erano nelle sue stesse condizioni; e il violento bisogno di
mangiare, sempre crescente, aveva ucciso la conversazione.
Ogni tanto qualcuno sbadigliava,
imitato quasi subito da un altro; a sua volta, ciascuno secondo il carattere,
l’educazione, la posizione sociale, apriva rumorosamente o con modestia la
bocca, tappando in fretta con la mano il buco spalancato dal quale usciva
vapore.
Pallina s’era chinata parecchie
volte, come a cercare qualcosa sotto le gonne. Rimaneva un momento esitante,
guardava i suoi vicini, poi si rialzava con calma. I visi dei viaggiatori erano
pallidi e contratti. Loiseau dichiarò che avrebbe pagato mille franchi per un
prosciuttino. Sua moglie abbozzò un gesto di protesta; poi si calmò. Sentir
parlare di soldi sciupati la faceva sempre soffrire, e non riusciva neanche a
capire come si potesse scherzare su quell’argomento. - Il fatto è che non mi
sento bene, - disse il conte; - chissà perché non ho pensato a portar qualcosa
da mangiare. - Ognuno rivolgeva a se stesso lo stesso rimprovero.
Cornudet aveva una fiaschetta
piena di rum: l’offrì in giro ma gli altri rifiutarono con freddezza, tranne
Loiseau che ne accettò una goccia e restituendo la fiaschetta ringraziò
dicendo: - Fa sempre bene, riscalda, e inganna l’appetito. - L’alcool lo mise
di buonumore, e propose di fare come nel piccolo naviglio della canzone: di
mangiare cioè il più grasso dei viaggiatori. L’indiretta allusione a Pallina
urtò le persone perbene. Nessuno rispose: il solo Cornudet sorrise. Le due
suore avevano smesso di biascicare avemarie, e con le mani nascoste nelle
grandi maniche stavano immobili, con gli occhi ostinatamente abbassati, senza
dubbio offrendo al Cielo, che gliele mandava, le loro sofferenze.
Finalmente, alle tre, mentre la
diligenza stava in mezzo a una interminabile pianura, senza nemmeno un
villaggio in vista, Pallina si chinò con vivacità, e tirò fuori di sotto al
sedile un largo paniere coperto da un tovagliolo bianco.
Ne trasse dapprima un piattino,
una delicata tazza d’argento, poi una zuppiera dov’erano due interi polli in
gelatina, già tagliati; si vedevano ancora nel paniere tante altre buone cose
incartate: sformati, frutta, dolci, tutte le provviste per un viaggio di tre
giorni, in modo da non dover mai ricorrere alla cucina degli alberghi. I colli
di quattro bottiglie sbucavano tra gli involti. La ragazza prese un quarto di
pollo e cominciò delicatamente a mangiarlo, con uno di quei panini che in
Normandia vengono chiamati «Reggenza».
Tutti gli sguardi erano su di
lei. Poi l’odore si diffuse, fece dilatare le narici, fece venire l’acquolina
in bocca, provocò una dolorosa contrazione all’attaccatura delle mascelle. Il
disprezzo delle signore per la ragazza divenne feroce, quasi voglia d’ammazzarla
o di scaraventarla fuori della diligenza, lei, la sua tazza, il suo paniere e
tutto quel che c’era dentro.
Loiseau divorava con gli occhi la
zuppiera del pollo. Disse: - La signora è stata più prudente di noi... C’è
della gente che pensa sempre a tutto. - Ella alzò la testa verso di lui: - Ne
volete, signore? È brutto star digiuni dalla mattina. - Egli si levò il cappello:
- Non dico di no, non ne posso più. Bisogna adattarsi, vero, signora? - E
guardandosi intorno aggiunse: - In momenti simili è bello trovar qualcuno che
vi fa un piacere. - Per non sporcarsi i calzoni, spiegò un giornale che aveva
con sé, infilò la punta di un coltellino che portava sempre in tasca su una
coscia lustra di gelatina, e cominciò a mangiare, masticando con un piacere
così visibile che si sentì nella vettura un gran sospiro d’angoscia.
Allora Pallina, con voce umile e
dolce, propose alle due suore di condividere la sua colazione. Esse accettarono
immediatamente, e senza alzar gli occhi cominciarono a mangiare sveltissime,
dopo aver farfugliato un ringraziamento. Neanche Cornudet rifiutò l’offerta
della sua vicina, e, insieme alle suore spiegando dei giornali sulle ginocchia,
venne formata una specie di tavola.
Le bocche s’aprivano e si
chiudevano senza sosta, trangugiavano, masticavano, inghiottivano ferocemente.
Loiseau, nel suo angolo, lavorava sodo e a bassa voce esortava sua moglie a far
come lui. Costei tenne duro per un po’, ma una più forte strizzata delle
viscere la fece cedere. Allora suo marito, con una frase tornita, chiese alla
loro «deliziosa compagna» se gli permetteva di darne un pezzetto alla signora
Loiseau. Ella rispose: - Ma certo, signore, - con un grazioso sorriso, e porse
la zuppiera.
Ci fu un po’ d’imbarazzo quando
fu stappata la prima bottiglia di bordò, perché c’era una tazza sola. I
viaggiatori se la passarono dopo averla ripulita. Il solo Cornudet, senza
dubbio per galanteria, posò le labbra sul punto ove era rimasta l’umida traccia
delle labbra della sua vicina.
Allora, circondati da persone che
mangiavano, soffocati dall’odore dei cibi, il conte e la contessa di Bréville e
i Carré-Lamadon soffrirono l’odioso supplizio che ha preso il nome da Tantalo.
D’improvviso la giovane moglie dell’industriale emise un sospiro che fece
voltar tutte le teste: era bianca come la neve lì fuori; chiuse gli occhi, la
fronte le ricadde: era svenuta. Suo marito, fuori di sé, implorò aiuto. Avevano
perso tutti la testa, allorché la suora più anziana, reggendo il capo della
donna indisposta, le insinuò tra le labbra la tazza di Pallina facendole
ingoiare qualche goccia di vino. La bella signora si riscosse, aprì gli occhi,
sorrise e dichiarò con voce supplichevole che ora si sentiva benissimo. Ma
perché il fatto non si ripetesse, la suora la costrinse a bere un intero
bicchiere di bordò, dicendo: - È la fame, e nient’altro.
Allora Pallina, arrossendo,
balbettò guardando i quattro viaggiatori rimasti a stomaco vuoto: - Dio mio, se
i signori e le signore volessero gradire... - Tacque, temendo di offenderli e
che le rispondessero in modo oltraggioso. Loiseau disse: - Perbacco, ma in casi
come questi siamo tutti fratelli, e bisogna aiutarci. Suvvia, signore, senza
complimenti, accettate, che diamine! Non siamo neanche sicuri di poter trovare
un posto dove passar la notte. Di questo passo non arriveremo a Tôtes prima di
domani a mezzogiorno. - Gli altri esitavano ancora: nessuno aveva il coraggio
di prendersi la responsabilità di un «sì».
Il conte tagliò corto. Volgendosi
verso la ragazzona intimidita, le disse con la sua aria da gran signore: -
Accettiamo con gratitudine, signora.
Il primo passo era il più
difficile. Una volta passato il Rubicone ci si misero di buzzo buono: il
paniere fu vuotato. C’erano rimasti ancora uno sformato di fegato di allodole,
un pezzo di lingua affumicata, alcune pere spadone, un pezzo di formaggio di
Pont-l’Evêque, dei pasticcini e una tazza piena di cetriolini e cipolline
sottaceto: Pallina, come tutte le donne, andava matta per i sottaceti.
Non era possibile mangiare la
roba della ragazza senza rivolgerle la parola. Perciò cominciarono a parlare,
dapprima con riservatezza, quindi, siccome ella si comportava molto bene, con
maggiore cordialità. Le signore di Bréville e Carré-Lamadon, che avevano di
gran belle maniere, si mostrarono delicatamente cortesi. Soprattutto la
contessa fece mostra dell’amabile condiscendenza propria delle nobilissime
signore, che nulla può contaminare, e fu affascinante. La robusta signora
Loiseau, che aveva un’anima di gendarme, rimase scontrosa, parlando poco e
mangiando molto.
Naturalmente si parlò della
guerra. Si raccontarono cose orribili sui prussiani, episodi di coraggio dei
francesi; e tutta quella gente che fuggiva rese omaggio alla bravura altrui.
Subito dopo cominciarono a raccontare i fatti personali, e Pallina, con vera
commozione, con quel calore di eloquio che hanno talvolta le ragazze del suo
genere quando esprimono i loro slanci naturali, narrò in che modo aveva
lasciato Rouen:
- Dapprincipio credetti di poter
rimanere - diceva. - La mia casa era ben rifornita e preferivo dar da mangiare
a qualche soldato piuttosto che scappare chissà dove. Ma quando ho visto quei
prussiani è stato più forte di me! Mi s’è rimescolato il sangue dalla rabbia, e
ho pianto di vergogna tutto il giorno. Ah! se ero uomo! Li guardavo dalla
finestra, quei maialoni col casco a punta, e la mia donna di servizio mi
reggeva le mani per impedirmi di scaraventargli i mobili addosso. Poi ne son
venuti certi per stare a casa mia: sono saltata addosso al primo. Non ci vuol
mica tanto a strozzarli. Ce l’avrei fatta, con quello, se non m’avessero tirato
via per i capelli. Dopo, mi son dovuta nascondere; alla prima occasione me ne
sono andata ed eccomi qui.
Pallina fu molto complimentata.
Ella saliva nella stima dei suoi compagni, i quali non erano stati risoluti
come lei; Cornudet, ascoltandola, sorrideva con la benevolenza e l’approvazione
dell’apostolo; proprio come un prete che senta un fedele lodare Dio: poiché i
democratici con la barba lunga hanno il monopolio del patriottismo come gli
uomini in sottana hanno quello della religione. Egli parlò a sua volta con tono
dottrinale, con l’enfasi che aveva imparato dai proclami appiccicati ogni
giorno sui muri, e terminò con uno squarcio d’eloquenza in cui conciò a dovere
quello «sporcaccione di Badinguet» (2).
Subito Pallina se n’ebbe a male
perché era bonapartista. Diventò più rossa d’una ciliegia, e balbettando per
l’indignazione:
- Avrei voluto veder voialtri al
suo posto. Bella roba! L’avete tradito voi quell’uomo! Sarebbe meglio andarsene
dalla Francia se al governo ci fossero dei cittadini come voi!
Cornudet era impassibile, con un
sorriso sdegnoso e superiore, ma si sentiva che le parole grosse stavano per
volare, allorché il conte si pose in mezzo e riuscì, non senza fatica, a
calmare la ragazza esasperata, affermando con autorevolezza che tutte le
opinioni sincere erano rispettabili. La contessa e la moglie di Carré-Lamadon,
che nutrivano in cuore l’irragionevole odio della gente dabbene contro la
Repubblica, e l’istintivo affetto che hanno le donne per i governi
impennacchiati e dispotici, si sentivano, loro malgrado, attirate da quella
prostituta piena di dignità, che la pensava in un modo così simile al loro.
Il paniere era vuoto. In dieci
l’avevano asciugato con facilità, rammaricandosi che non fosse più grande. La
conversazione andò avanti, un poco illanguidita ora che non c’era più nulla da
mangiare.
Cadeva la notte, l’oscurità a
poco a poco diventava profonda, e il freddo, che si fa sentir di più durante la
digestione, faceva rabbrividire Pallina, nonostante la sua grassezza. Allora la
signora di Bréville le offrì il suo scaldino dove il carbone, dalla mattina,
era stato cambiato parecchie volte, e l’altra accettò subito, perché si sentiva
i piedi gelati. La signora Carré-Lamadon e la signora Loiseau offrirono i loro
alle due suore.
Il vetturale aveva acceso i
fanali, che rischiararono con un vivace brillio una nuvola di vapore che saliva
dalle groppe sudate dei cavalli da timone, e ai lati della strada, la neve che
pareva rotolare nei mobili riflessi delle luci.
Dentro non ci si vedeva più;
all’improvviso ci fu un leggero rimestio fra Pallina e Cornudet; Loiseau, che
frugava nel buio con lo sguardo, credette di vedere l’uomo barbuto scostarsi
vivamente, come se avesse ricevuto una bella pedatona allungata in silenzio.
Alcuni puntini luminosi apparvero
in fondo alla strada: era Tôtes. La diligenza camminava da undici ore, e,
aggiungendovi le due ore di riposo concesse ai cavalli, in quattro riprese, per
mangiar l’avena e riprender fiato, si arrivava a tredici ore. La vettura entrò
in paese, e andò a fermarsi davanti all’albergo del Commercio.
Lo sportello s’aprì: un ben noto
rumore fece trasalire i viaggiatori: era il fodero d’una sciabola che sbatteva
al suolo. Subito dopo la voce d’un tedesco gridò qualcosa.
Per quanto la diligenza fosse
ormai ferma nessuno scendeva, come se i viaggiatori s’aspettassero, uscendo,
d’essere massacrati. S’affacciò il conducente reggendo uno dei fanali che
illuminò d’improvviso, fino in fondo alla vettura, le due file di teste
spaurite, con la bocca spalancata e con gli occhi sgranati dalla sorpresa e
dalla paura.
In piena luce, accanto al
cocchiere, c’era un ufficiale tedesco, un giovane alto, esageratamente smilzo,
biondo, stretto nell’uniforme come una ragazza nel busto, col berretto piatto e
incerato messo di traverso che lo faceva somigliare al fattorino d’un albergo
inglese. Aveva dei baffi smisurati, con certi peli lunghi e dritti che
s’assottigliavano indefinitamente ai due lati, e terminavano con un pelo solo
biondo e così sottile che non si vedeva come finisse; e sembrava che gli
pesassero sugli angoli della bocca, stirando la gota e facendo ripiegare le
labbra in giù.
In un francese d’Alsazia invitò i
viaggiatori a uscire dicendo duramente: - Folete scentere, signori e signore?
Le suore furon le prime a
obbedire, con una docilità di sante donne abituate a ogni sottomissione. Dietro
ad esse apparvero il conte e la contessa, seguiti dall’industriale e da sua
moglie, poi da Loiseau che spingeva innanzi la sua gran metà. Quest’ultimo,
posando il piede a terra, disse all’ufficiale, più per prudenza che per
cortesia: - Buongiorno, signore. - L’altro, insolente come tutte le persone
onnipotenti, lo guardò senza rispondere.
Pallina e Cornudet, per quanto si
trovassero vicino allo sportello, scesero per ultimi, gravi e alteri davanti al
nemico. La ragazza cercava di dominarsi e di star calma; il democratico con
mano tragica e un po’ tremante si tormentava la barba. Essi volevano conservare
la dignità, avendo capito che in simili circostanze ognuno rappresenta un po’
il suo paese. Ambedue erano disgustati dal comportamento dei loro compagni:
ella cercava di mostrarsi più fiera delle sue vicine, le donne oneste; mentre
egli, conscio di dover dare l’esempio, seguitava con l’atteggiamento la sua
missione di resistenza, intrapresa scavando buche nelle strade.
Entrarono nell’ampia cucina
dell’albergo, e il tedesco, dopo essersi fatto dare il permesso di viaggio
firmato dal generale in capo, e dov’erano elencati nome, connotati e
professione dei viaggiatori, esaminò a lungo le persone, paragonando ciascuno
con le informazioni scritte.
Poi disse bruscamente: - Fa pene
- e se ne andò.
Gli altri respirarono. Avevano
ancora fame e fu ordinata la cena. Ci sarebbe voluta una mezz’ora prima che
fosse pronta e, mentre due serve se ne occupavano, andarono a vedere le camere.
Erano tutte nello stesso lungo corridoio, che finiva con una porta a vetri su
cui c’era un numero eloquente.
Era venuto infine il momento di
mettersi a tavola, quando comparve il padrone dell’albergo. Costui era un ex
cavallaio, un omone asmatico con la gola piena di fischi, di gorgoglii, di
raschii. Suo padre gli aveva trasmesso il nome di Follenvie.
Chiese:
- La signorina Elisabeth Rousset?
Pallina trasalì, si voltò:
- Sono io.
- L’ufficiale prussiano vuol
vedervi subito, signorina.
- Me?
- Sì, se siete voi la signorina
Elisabeth Rousset.
Turbata, rifletté un momento,
dichiarando poi con decisione:
- Può darsi, ma non ci andrò.
Ci fu un brusio attorno a lei;
tutti discutevano, domandandosi il perché di quell’ordine. Il conte le si
accostò:
- Avete torto, signora;
rifiutando non fareste che procurare delle gravi noie, non soltanto a voi, ma
anche ai vostri compagni. Non si deve mai resistere a chi è più forte. Questa
chiamata sicuramente non è pericolosa; sarà certo per qualche formalità
trascurata.
Tutti si unirono a lui nel
pregarla, stimolandola, facendole raccomandazioni, e alla fine convincendola;
poiché temevano le complicazioni che potevano nascere da un’impuntatura. Ella
disse, infine:
- Siate certi che lo faccio
soltanto per voi.
La contessa le prese una mano:
- E noi ve ne siamo grati.
Pallina uscì. Gli altri
l’aspettarono per andare a tavola.
Ognuno si rammaricava di non
essere stato chiamato al posto di quella ragazza impetuosa e irascibile, e
preparava mentalmente delle vigliaccherie, in caso di chiamata.
Dopo dieci minuti ella ricomparve
sbuffando, congestionata, fuori di sé. Balbettava: - Che canaglia, che
canaglia!
Tutti erano ansiosi di sapere, ma
ella non aprì bocca; alle insistenze del conte rispose, con molta dignità:
- Son cose che non vi riguardano,
non posso dirvelo.
Si sedettero attorno a una gran
zuppiera donde usciva un odore di cavoli. Nonostante l’incidente la cena fu
allegra. Il sidro era buono e ne bevettero, per economia, i coniugi Loiseau e
le suore. Gli altri chiesero vino; Cornudet volle la birra. Aveva un modo tutto
suo di stappare la bottiglia, di far spumeggiare il liquido, di osservarlo
inclinando il bicchiere, e di alzarlo controluce per apprezzarne bene il
colore. Mentre beveva, la sua gran barba, che aveva conservato l’impronta della
bevanda prediletta, pareva trasalir di tenerezza; torceva gli occhi per non
perdere di vista il bicchiere, e sembrava che compisse l’unico atto per il
quale era nato. Si sarebbe detto che dentro di sé facesse un paragone e
ritrovasse una specie di affinità tra le due grandi passioni che dominavano la
sua vita: la Birra e la Rivoluzione; sicuramente non poteva assaggiare la prima
senza pensare alla seconda.
I coniugi Follenvie mangiavano
proprio all’estremità della tavola. L’uomo, che rantolava come una vecchia
locomotiva, aveva troppa pressione nel petto per poter parlare mangiando; ma la
donna non stava zitta un momento. Raccontò le sue impressioni sull’arrivo dei
prussiani, quello che facevano, quello che dicevano, che li odiava, prima
perché le costavano denaro e poi perché aveva due figli sotto le armi. Si
rivolgeva soprattutto alla contessa, lusingata di poter parlare con una vera
signora.
Abbassava la voce quando doveva
dire certe cose, e ogni tanto suo marito l’interrompeva: - Faresti meglio a
star zitta, signora Follenvie. - Lei non gli dava retta, e seguitava:
- Sissignora; quella gente lì non
fa che mangiar patate e maiale, e poi maiale e patate... E non crediate che
siano puliti. No! Sporcano dappertutto, parlando con rispetto. E li dovreste
vedere quando fanno le esercitazioni, per ore e per giorni di seguito; si
mettono tutti in un campo, e avanti marsc e dietro front, e volta di qui e
volta di là. Almeno zappassero la terra, o facessero le strade a casa loro!
Nossignora, questi soldati non portano beneficio a nessuno! I poveracci li
debbono mantenere perché imparino soltanto a massacrare! Io sono una vecchia
senza educazione, è vero, ma quando li vedo che si sfogano a battere i piedi
dalla mattina alla sera, mi dico: «C’è della gente che per essere utile fa
tante invenzioni, e ce ne dev’essere altra che s’affatica tanto per far del
male! Non è una vergogna ammazzar la gente, si tratti di prussiani, o di
inglesi, o di polacchi, o di francesi? Se uno si vendica di chi gli ha fatto un
torto, fa male, e infatti lo condannano; ma quando massacrano i nostri figlioli
come selvaggina, a fucilate, allora è bene, e danno anche la medaglia a chi ne
ha ammazzati di più!... No, sentite, non riuscirò mai a capirlo!».
Cornudet alzò la voce:
- La guerra è una barbarie quando
s’aggredisce un vicino pacifico; è un sacro dovere quando si difende la patria.
La vecchia abbassò la testa:
- Sì, quando bisogna difendersi è
un’altra cosa; ma allora non sarebbe meglio ammazzare i re che lo fanno per il
proprio piacere?
Gli occhi di Cornudet
s’infiammarono.
- Brava cittadina! - disse.
Carré-Lamadon stava riflettendo
profondamente. Nonostante il suo fanatismo per i grandi condottieri, il buon
senso della contadina l’aveva fatto pensare al benessere che nel paese
avrebbero portato tante braccia inoperose - e di conseguenza dannose - tante
forze che restavano improduttive, se fossero state usate per i grandi lavori
industriali che non bastano i secoli a compiere.
Loiseau, alzandosi dal suo posto,
andò a parlar sottovoce con l’albergatore. L’omone rideva, tossiva, sputava: il
suo ventre enorme sobbalzava di gioia alle spiritosaggini del suo vicino; e gli
comprò sei barili di bordò per la primavera, quando i prussiani se ne sarebbero
andati.
Appena finito di cenare, siccome
i viaggiatori erano stanchi morti, se ne andarono a letto.
Intanto Loiseau, che era stato
attento a tutto, fece mettere a letto sua moglie, e poi appoggiò
alternativamente l’orecchio e l’occhio al buco della serratura per cercar di
scoprire quelli che chiamava «i misteri del corridoio».
In capo a un’ora sentì un
fruscio, guardò meglio e vide Pallina, più grassoccia che mai nel suo
accappatoio di lana turchina orlato di pizzo bianco. Aveva in mano una bugia, e
andava verso la porta vetrata in fondo al corridoio. Accanto si socchiuse una
porta, e quando dopo qualche minuto ella ritornò, Cornudet in maniche di
camicia la seguì. Pareva che Pallina gli impedisse energicamente di entrare in
camera. Purtroppo Loiseau non riusciva ad afferrare le parole, ma siccome i due
alzavano la voce capì qualcosa. Cornudet insisteva con vivacità. Diceva:
- Su, non fate la stupida, cosa
ve ne importa?
Ella rispose in tono indignato:
- No, caro mio, ci sono momenti
in cui certe cose non si fanno; qui poi, sarebbe proprio vergognoso.
Indubbiamente l’altro non capiva,
e chiese il perché. La ragazza allora s’arrabbiò alzando di più la voce:
- Perché? Non capite perché?
Quando in casa, forse nella camera qui accanto, ci sono i prussiani?
Egli tacque. Quella specie di
patriottico pudore da sgualdrina che non si faceva toccare vicino al nemico,
dovette ridestargli nel cuore la vacillante dignità, poiché limitandosi a darle
un bacio, se ne tornò in camera sua in punta di piedi.
Loiseau, molto eccitato, lasciò
il buco della serratura, fece un giro di danza per la camera, si mise il
berretto da notte, alzò il lenzuolo sotto cui giaceva la dura carcassa della
sua compagna, e la svegliò con un bacio, mormorando: - Mi vuoi bene, tesoro?
Ormai la casa pareva
addormentata. Ma poco dopo, in una direzione indeterminata, da un punto
qualsiasi che poteva essere tanto la cantina quanto il solaio, si levò un
russare potente, uniforme, regolare, un rumore sordo e prolungato, con dei
borbottii di caldaia sotto pressione: Follenvie dormiva.
Avevano deciso di ripartire la
mattina seguente alle otto, e si ritrovarono tutti in cucina; ma la vettura
stava solitaria in mezzo al cortile, con il mantice coperto di neve, senza
cavalli né vetturale. Quest’ultimo fu cercato invano nella scuderia, nel
magazzino, nella rimessa. Gli uomini uscirono, per andare a vedere se lo
trovavano in paese. Si rincontrarono nella piazza, in fondo alla quale c’era la
chiesa, e, ai lati, case basse dove si vedevano dei soldati prussiani. Il primo
che videro stava sbucciando patate. Il secondo, più giù, stava lavando la
bottega del barbiere. Un terzo, con un barbone fino agli occhi, abbracciava un
bimbetto piangente e cercava di calmarlo cullandolo sulle ginocchia; le grosse
contadine che avevano i mariti «al fronte», indicavano a gesti, agli obbedienti
vincitori, il lavoro che dovevano fare: spaccar la legna, versare il brodo sul
pane affettato, macinare il caffè; ce n’era uno, perfino, che lavava la
biancheria della sua ospite, una vecchia ormai incapace.
Il conte, stupefatto, interrogò
il sacrestano che stava uscendo dal presbiterio. Il vecchio bacchettone gli
rispose:
- Ah, quelli non son mica
cattivi; si dice che non siano prussiani. Son di più su, non so bene di dove; e
tutti hanno lasciato al paese moglie e figli; non si divertono a far la guerra,
date retta. Son sicuro che lassù si fanno dei gran pianti, per questi uomini: e
ci sarà gran miseria da loro, come da noi. Qui, per ora, non siamo tanto
disgraziati, perché del male non ne fanno, e lavorano come se fossero a casa
loro. Tra povera gente, signore, bisogna aiutarsi... La guerra la vogliono
quelli che comandano...
Cornudet, indignato dei cordiali
rapporti stabilitisi tra vincitori e vinti, se ne andò, preferendo piuttosto
chiudersi in albergo. Loiseau disse una frase spiritosa: - Stanno ripopolando.
- Carré-Lamadon disse una frase grave: - Stanno riparando. -
E intanto il cocchiere non si
trovava. Fu scoperto finalmente nel caffè del villaggio, fraternamente seduto
allo stesso tavolino con l’attendente dell’ufficiale. Il conte lo apostrofò:
- Non vi era stato ordinato di
attaccare i cavalli per le otto? - Sì, sì, ma dopo ho avuto un altro ordine.
- Quale?
- Di non attaccar più.
- Chi vi ha dato quest’ordine.
- Perdio! Il comandante
prussiano.
- Perché?
- Che ne so io? Andate a
domandarglielo. Mi hanno proibito di attaccare, e io non ho attaccato. Ecco
tutto.
- Ve lo ha detto proprio lui?
- Nossignore, me l’ha detto
l’albergatore da parte sua.
- E quando è stato?
- Ieri sera, quando me ne stavo
andando a letto.
I tre uomini tornarono in albergo
assai inquieti.
Chiesero di Follenvie, ma la
sguattera rispose che il padrone, per via dell’asma, non s’alzava mai prima
delle dieci. Aveva categoricamente proibito che lo svegliassero prima, fuorché
in caso d’incendio.
Vollero parlare con l’ufficiale,
ma era proprio impossibile nonostante abitasse nell’albergo. Il solo Follenvie
aveva l’autorizzazione di parlargli, quando si trattava di affari civili.
Allora si misero ad aspettare. Le donne risalirono nelle loro camere, e
cercarono d’ingannare l’attesa con dei nonnulla.
Cornudet si piazzò in cucina
sotto l’alto camino, dove fiammeggiava un gran fuoco. Si fece portare un
tavolino da caffè, una bottiglietta di birra, tirò fuori la pipa, che tra i
democratici era tenuta in considerazione quanto lui stesso, come se, servendo
Cornudet, avesse servito la patria anche lei. Era una magnifica pipa di
schiuma, cotta in modo ammirevole, nera quanto i denti del suo proprietario, ma
ben modellata, lucida, familiare in mano sua e che completava la sua
fisionomia. E restò immobile, fissando lo sguardo ora sulle fiamme, ora sulla
schiuma che coronava il bicchiere; ogni volta che beveva si passava con aria
soddisfatta le dita lunghe e magre tra i capelli unti, e si asciugava i baffi
orlati di schiuma.
Loiseau, col pretesto di
sgranchirsi le gambe, andò in giro a vendere il suo vino ai negozianti del
paese. Il conte e l’industriale cominciarono a parlare di politica. Facevano
previsioni sull’avvenire della Francia: uno credeva negli Orléans, l’altro in
uno sconosciuto salvatore, un eroe che sarebbe spuntato nel momento più
tragico: forse un Du Guesclin, una Giovanna d’Arco; o un altro Napoleone? Ah,
se il principe imperiale (3) non fosse stato così giovane! Cornudet sorrideva,
ascoltandoli, da uomo che sa bene cosa può riserbare il destino. L’odore della
sua pipa riempiva la cucina.
Mentre suonavano le dieci
comparve Follenvie. Fu subito interrogato; ma poté soltanto ripetere, per due o
tre volte, e senza varianti, queste parole: - L’ufficiale m’ha detto così:
«Signor Follenvie, dovete impedire, domani, che venga attaccata la carrozza di
quei viaggiatori. Non debbono partire senza un mio ordine. Avete capito? Basta
così».
Allora vollero parlare con
l’ufficiale. Il conte gli fece mandare il suo biglietto da visita, nel quale
Carré-Lamadon aggiunse il suo nome e tutti i suoi titoli. Il prussiano fece
rispondere che avrebbe ammesso alla sua presenza i due uomini dopo aver
mangiato, ossia verso l’una.
Le signore ridiscesero, e
nonostante l’inquietudine, tutti mangiarono qualcosa. Pallina pareva che si
sentisse male, ed era assai sconvolta.
Stavano finendo di bere il caffè,
quando l’attendente venne a chiamare quei due signori.
Ad essi si unì Loiseau; tentarono
di far venire anche Cornudet, per render più solenne l’ambasceria, ma questi
dichiarò con fierezza che non voleva avere alcun rapporto coi tedeschi, e si
rimise sotto il camino, ordinando un’altra birra.
I tre uomini salirono e furono
fatti entrare nella più bella camera dell’albergo, dove l’ufficiale era
sdraiato in una poltrona, coi piedi sul piano del caminetto, e stava fumando in
una lunga pipa di porcellana, avvolto in una chiassosa vestaglia, rubata senza
dubbio nella casa abbandonata di qualche borghese di cattivo gusto. Non si
alzò, non li salutò, né li guardò. Era un magnifico campione della villania
propria dei soldati vincitori.
Finalmente dopo qualche istante
disse:
- Cosa folete?
Parlò il conte:
- Vorremmo partire, signore.
- No.
- Potrei chiedervi il perché di
questo rifiuto?
- Perché non foglio.
- Vi faccio rispettosamente
osservare, signore, che il vostro generale in capo ci ha rilasciato un permesso
fino a Dieppe; e credo che non abbiamo fatto nulla perché voi siate così
severo.
- Non foglio, ecco tutto...
Potete antarfene.
I tre uscirono, dopo essersi
inchinati.
Il pomeriggio fu disastroso. Non
riuscivano a rendersi conto del capriccio del tedesco. E le supposizioni più
strampalate turbinavano nei loro cervelli. Stavano tutti in cucina, discutendo
senza sosta, immaginando cose inverosimili. Forse li volevano trattenere come
ostaggi, ma a quale scopo? o farli prigionieri; o piuttosto chiedere un grosso
riscatto? Quest’ultimo pensiero li terrorizzò. I più ricchi erano i più
spaventati, e si vedevano costretti, per riscattar la vita, a versare sacchi
pieni d’oro nelle mani di quell’insolente soldato. Si lambiccavano il cervello
per inventare bugie passabili; per celare le loro ricchezze, per farsi credere
poveri, poverissimi. Loiseau levò la catena dall’orologio, e la nascose in
tasca. La notte che cadeva aumentava l’apprensione. Fu acceso il lume, e
Loiseau, siccome mancavano due ore alla cena, propose di fare una partita a
trentuno (4). Sarebbe stata una distrazione. Gli altri accettarono. Perfino
Cornudet prese parte al gioco, dopo avere spento, per cortesia, la pipa.
Il conte mescolò, e distribuì le
carte: Pallina fece trentuno alla prima; e presto l’interesse per la partita
placò i timori che assillavano le menti. Cornudet s’accorse che i coniugi
Loiseau erano d’accordo per imbrogliare.
Al momento d’andare a tavola
ricomparve Follenvie, e disse, con la sua voce catarrosa: - L’ufficiale
prussiano fa chiedere alla signorina Elisabeth Rousset se non ha ancora
cambiato idea.
Pallina stava ritta, immobile,
pallida pallida, subito dopo fu presa da un tale accesso di rabbia che,
diventata paonazza, non poteva neanche parlare. Alla fine scoppiò: - Direte a
quel farabutto, a quello sporcaccione, a quella carogna di prussiano, che non
vorrò mai; sentitemi bene: mai, mai, mai.
Uscito che fu il grosso
albergatore, tutti furono intorno a Pallina, interrogandola, invitandola a
spiegare il mistero. Dapprima ella cercò di resistere, ma poi, trascinata
dall’esasperazione, esclamò: - Cosa vuole?... cosa vuole? Vuol venire a letto
con me!
L’indignazione fu così viva che
la frase non scandalizzò nessuno. Cornudet spezzò il bicchiere, sbattendolo con
forza sulla tavola. Si levò un vocìo di riprovazione, contro l’ignobile
soldataccio, un urlo di collera; e si sentirono tutti pronti a resistere, come
se ad ognuno fosse stata chiesta una parte del sacrificio che si pretendeva
dalla ragazza. Il conte dichiarò con disgusto che quella gente si comportava
come gli antichi barbari. Le donne soprattutto manifestarono a Pallina una
commiserazione energica e affettuosa. Le suore, che si facevano vedere soltanto
all’ora dei pasti, avevano abbassato la testa, e non dicevano nulla.
Andarono a tavola, non appena si
fu placato il primo slancio di furore, ma parlarono poco: pensavano.
Le signore si ritirarono di
buon’ora; gli uomini, fumando, organizzarono una partita di écarté (5),
invitando anche Follenvie, per poterlo abilmente interrogare sui mezzi da usare
per vincere la resistenza dell’ufficiale. Ma egli non pensava che alle carte,
non ascoltava, e ripeteva di continuo: - Attenti al gioco, signori, attenti. -
Era così intento che si scordava di sputare, ed allora, a momenti, pareva che
gli uscisse dal petto un suono d’organo. Il fischio dei suoi polmoni percorreva
tutta la gamma dell’asma, dalle note gravi e profonde, fino al chioccolìo acuto
dei galletti che si sforzano di cantare.
Rifiutò perfino di salire, quando
sua moglie, che cascava dal sonno, lo venne a cercare. Se ne andò sola, perché
lei era «mattutina», sempre in piedi col sole, mentre suo marito era
«notturno», sempre pronto a trascorrere la notte con gli amici. Egli le gridò:
- Lasciami accanto al fuoco l’uovo sbattuto! - e si rimise a giocare. Dopo aver
capito che non c’era da tirargli fuori nulla, gli altri dissero che era ora di
smettere, e se ne andarono a letto.
Il giorno dopo si alzarono molto
presto, con una vaga speranza, una maggior voglia di andarsene, e il terrore di
avere ancora una giornata da passare in quell’orrido alberghetto.
Purtroppo i cavalli erano ancora
nella scuderia, e il vetturale era sparito. Allora, tanto per far qualcosa, si
misero a girare attorno alla diligenza. Il desinare fu triste: s’era prodotto
una specie di raffreddamento nei riguardi di Pallina, perché la notte, che
porta consiglio, aveva modificato alquanto le opinioni. Quasi quasi ora ce
l’avevano con la ragazza, rimproverandola di non essere andata di nascosto dal
prussiano, sì da riservare ai suoi compagni una bella sorpresa per il
risveglio. Sarebbe stato tanto semplice! E d’altronde, chi l’avrebbe saputo?
Poteva salvare le apparenze facendo dire all’ufficiale che aveva pietà dei suoi
compagni angustiati. Cosa poteva contare, per lei?
Però nessuno ancora confessava
questi pensieri.
Il pomeriggio, siccome
s’annoiavano, il conte propose di fare una passeggiata nei dintorni del
villaggio. Ognuno si coprì bene, e partirono tutti fuorché Cornudet, che
preferì restare accanto al fuoco, e le due suore, che passavano le giornate in
chiesa, o dal parroco.
Il freddo, che di giorno in
giorno si faceva più intenso, pizzicava crudelmente il naso e le orecchie; i
piedi doloravano al punto che ogni passo faceva soffrire; e non appena furono
in vista della campagna, questa apparve loro così spaventosamente lugubre sotto
lo sterminato biancore, che subito tornarono indietro, con l’anima gelata e il
cuore stretto.
Le quattro donne camminavano
avanti, e i tre uomini venivano dietro un po’ discosti.
Loiseau, che si rendeva conto
della situazione, chiese all’improvviso se «quella sgualdrina» aveva intenzione
di farli restare ancora per parecchio tempo in un simile luogo. Il conte,
sempre gentile, disse che non si poteva pretendere da una donna un così penoso
sacrificio, che doveva essere spontaneo. Carré-Lamadon notò che se i francesi -
come si diceva - avevano intenzione di fare una controffensiva da Dieppe, lo
scontro doveva avvenire per forza a Tôtes. A questa constatazione gli altri si
preoccuparono. - E se cercassimo di scappare a piedi? - disse Loiseau. Il conte
scrollò le spalle: - Con tutta questa neve? con le nostre donne? Saremmo subito
inseguiti, ripresi dopo dieci minuti, e fatti prigionieri, in balia dei
soldati. - Era vero; tutti tacquero.
Le signore parlavano di mode; ma
sembrava che qualcosa le dividesse.
All’improvviso, in fondo alla
strada comparve l’ufficiale prussiano. La sua alta figura di vespa in uniforme
si stagliava sulla neve che chiudeva l’orizzonte, e camminando scartava le
ginocchia con la mossa caratteristica dei soldati che cercano di non sporcarsi
gli stivali accuratamente lucidati.
Passando accanto alle signore,
s’inchinò, e guardò sprezzantemente gli uomini, i quali, del resto, furono così
dignitosi da non togliersi il cappello, per quanto Loiseau ne avesse abbozzato
il gesto.
Pallina era arrossita fino alle
orecchie; le tre donne sposate erano molto umiliate per essersi fatte vedere
dall’ufficiale in compagnia della ragazza ch’egli aveva trattato tanto incivilmente.
Si cominciò a parlar di lui, del
suo personale, del suo viso. La signora Carré-Lamadon, che aveva conosciuto
molti ufficiali, e poteva giudicarli da competente, disse che non era male; le
dispiaceva perfino che non fosse francese, perché di certo sarebbe stato un
bell’ussaro, da far girare la testa alle donne.
Dopo esser rientrati in albergo,
non seppero più che fare. Ci fu perfino una mezza litigata per cose da nulla.
La cena, silenziosa, durò poco; e ognuno se ne andò a letto sperando di dormire
per ammazzare il tempo.
Il mattino seguente i viaggiatori
scesero col viso stanco e gli animi inaspriti. Le donne rivolgevano appena la
parola a Pallina.
S’udì il rintocco d’una campana.
C’era un battesimo. Pallina aveva un figlio che veniva allevato da certi
contadini d’Yvetot. Lo vedeva sì e no una volta all’anno, e non si occupava
punto di lui; ma il pensiero di quello che stava per esser battezzato le
suscitò un’improvvisa e violenta tenerezza per il suo, e volle assolutamente
assistere alla cerimonia.
Appena se ne fu andata, gli altri
si guardarono, poi fecero capannello con le sedie, sentendo che bisognava pur
decidere qualcosa. Loiseau ebbe un’ispirazione: a parer suo si doveva proporre
all’ufficiale di trattenere la sola Pallina, e di lasciar ripartire gli altri.
Follenvie s’incaricò
dell’ambasciata, ma ridiscese quasi subito. Il tedesco, che conosceva la natura
umana, l’aveva messo alla porta. Avrebbe trattenuto tutti, finché il suo
desiderio non fosse stato soddisfatto.
Allora la natura plebea della
signora Loiseau esplose: - Non moriremo mica di vecchiaia qui. Dal momento che
lo fa di mestiere, quella sgualdrina, di andare con tutti gli uomini, mi pare
che non abbia il diritto di rifiutare questo o un altro. Dico io, ha pigliato
tutto quel che ha trovato, a Rouen, perfino i cocchieri; sissignora, il
cocchiere della prefettura. Lo so, perché si serve da noi. E oggi che dovrebbe
tirarci fuori da quest’impiccio, fa la difficile, quella mocciosa! A me mi pare
che l’ufficiale si stia comportando bene. Forse è a digiuno da parecchio tempo,
e noi tre ci avrebbe senz’altro preferite. Invece no si contenta di quella di tutti.
Rispetta le donne sposate. Pensateci un po’, lui è il padrone. Gli basterebbe
dire: «Voglio», e potrebbe prenderci per forza, coi suoi soldati.
Le altre due donne ebbero un
piccolo brivido. Gli occhi della graziosa signora Carré-Lamadon brillavano, ed
era un poco pallida, come se si sentisse già presa per forza dall’ufficiale.
Gli uomini, che stavano
discutendo in disparte, s’avvicinarono. Loiseau, furibondo, voleva consegnare
«quella miserabile» al nemico, legata mani e piedi. Ma il conte, che discendeva
da tre generazioni d’ambasciatori, ed aveva la figura del diplomatico,
propendeva per l’astuzia: - Bisognerà convincerla, - disse. Allora cospirarono.
Le donne s’avvicinarono, fecero
crocchio; la discussione si estese, a voce bassa, perché ognuno voleva dir la
sua. Era una cosa molto ammodo, del resto. Le signore, soprattutto, usarono
delicati giri di frase, espressioni di mirabile sottigliezza, per i discorsi
più scabrosi. Un estraneo non avrebbe capito nulla tante erano le precauzioni
del parlare. Ma, poiché la leggera crosta di pudore che ricopre tutte le donne
del bel mondo è soltanto superficiale, costoro gioivano di quell’avventura licenziosa,
in fondo si divertivano pazzamente, si sentivano a loro agio, intrugliando
nell’amore con la sensualità d’un cuoco ghiotto che prepari il pranzo a un
altro.
L’allegria nasceva da sé, tanto
buffa pareva quella storia. Il conte disse delle spiritosaggini un po’ spinte,
ma così bene che fece sorridere. A sua volta Loiseau ne lanciò di più scurrili,
ma che non diedero fastidio a nessuno; tutti erano rimasti colpiti dalla frase
brutale di sua moglie: - Dal momento che lo fa di mestiere, perché dovrebbe
rifiutarsi a quello o a un altro? - La graziosa moglie di Carré-Lamadon
sembrava perfino pensare che, nei panni di Pallina, avrebbe rifiutato lui meno
d’un altro.
Prepararono il blocco, a lungo,
come se dovessero assediare una fortezza. Si misero d’accordo sulla parte che
ognuno avrebbe sostenuto, sulle argomentazioni da portare, sulle manovre da
eseguire. Furono concordati il piano d’attacco, le astuzie da usare, e le
sorprese dell’assalto, per obbligare quella cittadella vivente a ricevere il
nemico nella piazza.
Cornudet, però, restava in disparte,
estraneo alla manovra.
Erano così intenti che non
sentirono entrare Pallina. Il conte disse piano: - Zitti, - tutti alzarono gli
occhi. Era lì. Tacquero di colpo, e ci fu un certo imbarazzo, che impedì
dapprima di rivolgerle la parola. La contessa, più scaltrita degli altri nelle
ipocrisie dei salotti, le chiese: - Era bello, il battesimo?
La ragazzona, ancora commossa,
raccontò tutto, della gente, degli atteggiamenti, perfino di com’era la chiesa.
E aggiunse: - Fa bene pregare ogni tanto.
Fino all’ora di mangiare le
signore si limitarono a mostrarsi gentili con lei, per accrescere la sua
fiducia e la sua arrendevolezza ai loro consigli.
Appena furono a tavola ebbero
inizio le prime avvisaglie. Dapprincipio furono vaghi discorsi
sull’abnegazione. Furono citati antichi esempi: Giuditta e Oloferne, poi -
senza alcun motivo - Lucrezia e Sesto, Cleopatra che faceva passare nel suo
letto tutti i generali nemici, riducendoli a esser servili come schiavi. Quindi
sciorinarono una storia di fantasia, sbocciata nella loro mente di milionari
ignoranti, in cui le cittadine di Roma, a Capua, facevano addormentare Annibale
tra le loro braccia, e con lui i suoi luogotenenti e le falangi dei mercenari.
Furono rammentate tutte le donne che fermarono i conquistatori, usando il
proprio corpo come campo di battaglia, come mezzo di dominio, come arma; che
riuscirono a vincere, con le loro eroiche carezze, esseri schifosi e odiati;
che sacrificarono la loro castità, per vendetta o per abnegazione.
Si parlò anche, a mezze parole,
di quell’inglese di grande casato, la quale s’era fatta inoculare una tremenda
e contagiosa malattia per trasmetterla a Bonaparte, che fu salvato per
miracolo, all’ora del fatale incontro, da un improvviso mancamento.
Tutti questi racconti furono
fatti in modo corretto e moderato, ma talora vibrante d’un entusiasmo atto a
suscitare l’emulazione.
Si poteva credere, alla fine, che
il compito della donna, su questa terra, fosse un sacrificio continuo di se stessa,
un perpetuo abbandonarsi ai capricci della soldataglia.
Le due suore, immerse in profondi
pensieri, pareva che non sentissero nulla. Pallina non apriva bocca.
La lasciarono riflettere tutto il
pomeriggio. Ma invece di chiamarla «signora», come avevano fatto fino ad
allora, la chiamavano semplicemente «signorina» - e nessuno sapeva bene perché
- come se avessero voluto farle scendere un gradino della stima che ella aveva
raggiunto, farle sentire la vergogna della sua posizione.
Mentre stavano servendo la
minestra, apparve Follenvie, e ripeté la frase del giorno prima: - L’ufficiale
prussiano fa chiedere alla signorina Elisabeth Rousset se non ha ancora
cambiato idea.
Pallina rispose seccamente: -
Nossignore.
Durante la cena la coalizione
s’indebolì. Loiseau si fece sfuggire alcune frasi infelici. Ognuno si dava un
gran da fare per trovar nuovi esempi, e non trovava nulla, quando la contessa,
forse senza neanche pensarci, e per il vago bisogno di fare un omaggio alla
Religione, interrogò la suora più anziana sui grandi fatti della vita dei
santi. Molti hanno compiuto delle azioni che ai nostri occhi apparirebbero come
delitti, ma la Chiesa assolve senza difficoltà questi misfatti, quando son
compiuti per la gloria di Dio, o per il bene del prossimo. Era una potente
argomentazione, e la contessa ne approfittò. Così, fosse a causa di quelle
tacite intese o nascoste compiacenze di cui è maestro chiunque indossi un abito
ecclesiastico, fosse semplicemente a causa d’una felice mancanza
d’intelligenza, o d’una favorevole stupidità, la vecchia suora portò un
grandissimo aiuto alla cospirazione. Credevano che fosse timida, e si rivelò
ardita, verbosa, violenta. Costei non era vincolata dalle cautele della
casistica; la sua dottrina era simile a una sbarra di ferro; la sua fede non
aveva mai esitazioni, la sua coscienza non aveva scrupolo alcuno. Trovava
semplice il sacrificio d’Abramo perché non avrebbe esitato a uccidere suo padre
e sua madre se glielo avessero ordinato dall’alto; secondo lei nulla poteva
dispiacere al Signore, quando l’intenzione fosse buona. La contessa,
profittando dell’autorità sacra dell’inattesa complice, le fece fare una specie
di edificante parafrasi di quest’assioma della morale: «Il fine giustifica i
mezzi».
Le chiedeva:
- Così, sorella, pensate che Dio
accetti ogni mezzo, e perdoni qualunque azione, quando il motivo sia puro?
- Chi potrebbe metterlo in
dubbio, signora? Una azione in sé riprovevole spesso diventa meritoria, perché
è bene ispirata.
Andarono avanti di questo passo,
mettendo in chiaro i voleri di Dio, prevedendo le sue decisioni, costringendolo
a interessarsi di cose, che, a dir la verità, non lo riguardavano affatto.
E tutti questi discorsi erano
involuti, misurati, abili. Eppure ogni parola della santa donna con la cuffia
faceva breccia nell’indignata resistenza della cortigiana. Poi la conversazione
si sviò un poco, e la donna col rosario parlò delle case del suo ordine, della
sua superiora, di se stessa, e della sua graziosa vicina, la cara suora Saint
Nicéphore. Le avevano richieste da Le Havre per curare, negli ospedali,
centinaia di soldati colpiti dal vaiolo. Dipinse quei miseri, descrisse la loro
malattia. Così, intanto ch’erano ferme per strada a causa d’un capriccio di
quel prussiano, potevano morire tantissimi francesi che, forse, esse avrebbero
potuto salvare. Curare i soldati era proprio la sua specialità: era stata in
Crimea, in Italia, in Austria, e raccontando le sue campagne si rivelò
all’improvviso come una di quelle religiose battagliere, che sembrano fatte apposta
per seguire gli accampamenti, per raccogliere i feriti nella mischia e che
riescono, meglio dei capi, a tenere a freno con una parola sola i vecchi
soldati indisciplinati. Una vera e propria suora Rataplan il cui viso
straziato, crivellato d’innumerevoli buchi, sembrava raffigurare le
devastazioni della guerra.
Nessuno aggiunse una parola a
quanto ella aveva detto, tanto l’effetto parve eccellente. Dopo aver finito di
mangiare ognuno risalì alla svelta in camera sua, riscendendo la mattina dopo,
assai tardi.
Desinarono tranquillamente, dando
tempo al seme piantato il giorno prima di germogliare e di dare i suoi frutti.
La contessa propose di fare una
passeggiata, nel pomeriggio; e il conte, com’era stato stabilito, prese
sottobraccio Pallina, restando discosto dagli altri, con lei.
Le parlò col tono familiare,
paterno e un po’ altero che gli uomini posati usano con le ragazze facili,
chiamandola «mia cara bambina», trattandola dall’alto della sua posizione
sociale della sua indiscussa onorabilità. Andò subito al sodo della questione:
- Allora, preferite lasciarci
qui, esposti - come voi stessa, del resto - alle violenze che seguirebbero una
sconfitta dei prussiani; piuttosto che accordare uno di quei favori, che avete
concesso così spesso, in vita vostra?
Pallina non rispose.
Egli seppe essere buono,
ragionevole, sentimentale. Seppe restare «il signor conte», ma mostrandosi,
all’occorrenza, galante, complimentoso, insomma amabile. Esaltò il servigio
ch’ella avrebbe reso loro, parlò della loro riconoscenza; poi, all’improvviso,
dandole allegramente del tu: - E sai, mia cara, pensa che lui potrà vantarsi
d’aver assaporato una ragazza così carina, come non ce ne son molte al suo
paese.
Pallina non rispose, e raggiunse
il gruppo.
Appena furono rientrati andò in
camera sua e non si fece più vedere. Gli altri erano assai inquieti. Cosa
avrebbe fatto? Sarebbe stato un bell’imbarazzo, se avesse ancora resistito.
Suonò l’ora della cena:
l’attesero invano. Follenvie, che entrava in quel momento, annunciò che la
signorina Rousset si sentiva indisposta, e perciò non sarebbe scesa. Tutte le
orecchie si rizzarono. Il conte, avvicinatosi all’albergatore, disse a bassa
voce: - Ci siamo? - Sì. - Per correttezza, non disse nulla ai suoi compagni e
si limitò semplicemente a fare un leggero cenno col capo. Subito da tutti i
petti uscì un gran sospiro di sollievo, i visi divennero allegri. Loiseau
gridò: - Perdindirindina! Pago lo sciampagna, se qui ce n’è! - e la signora
Loiseau si sentì mancare, quando il padrone tornò con quattro bottiglie in
mano. Di colpo tutti divennero chiacchieroni, chiassosi. Una gioia vivace
riempiva i cuori. Il conte parve accorgersi che la signora Carré-Lamadon era
affascinante, l’industriale fece dei complimenti alla contessa. La
conversazione divenne brillante, allegra, spiritosa.
All’improvviso Loiseau, col viso
pieno di ansia, alzò il braccio gridando: - Silenzio! - Tutti tacquero
sorpresi, quasi spaventati. Allora egli tese l’orecchio e chiedendo silenzio
con le mani, alzò gli occhi al soffitto, si rimise ad ascoltare e soggiunse con
voce normale: - Rassicuratevi, tutto va bene.
Lì per lì non capirono, poi
sorrisero.
Dopo un quarto d’ora ricominciò
lo stesso scherzo, e lo ripeté spesso nel corso della serata; fingeva di
chiamare qualcuno al piano di sopra, gli dava dei consigli a doppio senso,
germogliati nella sua fantasia di commesso viaggiatore. Ogni tanto, assumendo
un’aria triste, sospirava: - Povera figliola... - oppure mormorava tra i denti,
con rabbia: - Farabutto d’un prussiano! - Oppure, proprio quando nessuno ci
pensava, esclamava più volte, con voce vibrante: - Basta! basta! - aggiungendo,
come se parlasse a se stesso: - Purché riusciamo a rivederla; non vorrei che
quel miserabile la facesse morire!
Nonostante fossero spiritosaggini
di bassa lega, tutti si divertivano e nessuno si sentiva offeso, poiché
l’indignazione - come ogni altra cosa - dipende dall’ambiente; l’atmosfera che
a poco a poco era venuta creandosi attorno a loro era carica di pensieri
licenziosi.
Al momento del dolce, anche le
donne fecero spiritose e misurate allusioni. Gli sguardi brillavano: avevano
bevuto molto. Il conte, che anche oltrepassando i limiti sapeva conservare una
gravità contegnosa, fece un paragone, molto apprezzato, sullo sciogliersi delle
nevi al polo, e la gioia dei naufraghi i quali vedono aprirsi una strada verso
il sud.
Loiseau, ormai sfrenato, s’alzò
con una coppa di sciampagna in mano: - Bevo alla nostra liberazione! - Tutti si
alzarono, acclamando. Perfino le suore, incitate dalle signore, acconsentirono
a bagnare le labbra nel vino spumante che non avevano mai assaggiato. Dissero
che sembrava limonata gassosa, però più delicata.
Loiseau ricapitolò i fatti.
- È un peccato non avere un
pianoforte, si potrebbe fare una quadriglia.
Cornudet non aveva aperto bocca,
né fatto un gesto; sembrava sprofondato in gravissimi pensieri e ogni tanto si
tirava furiosamente quel suo barbone come se volesse farlo diventar più lungo.
Finché, verso mezzanotte, al momento di separarsi, Loiseau un po’ titubante gli
diede un colpetto sulla pancia e disse barbugliando: - Non avete voglia di
scherzare stasera, cittadino? Non dite nulla? - Allora Cornudet rialzò
bruscamente la testa e gettando uno sguardo vivido e terribile sulla brigata: -
Ve lo dico a tutti: avete commesso un’infamia! - Si alzò, raggiunse la porta,
ripetendo ancora: - Un’infamia! - e scomparve.
Dapprima questa frase raggelò
tutti. Loiseau, interdetto, era rimasto a bocca aperta; ma si riprese e
all’improvviso esclamo, torcendosi dalle risa: - Vi scoprite troppo, caro mio,
vi scoprite troppo... - Siccome non capivano raccontò i «misteri del
corridoio». Risorse un’allegria sfrenata. Le signore si divertivano come pazze.
Il conte e Carré-Lamadon piangevano, dal ridere. Non riuscivano a crederci.
- Come? siete sicuro? voleva...
- Vi dico che l’ho visto...
- Perché c’era il prussiano nella
camera accanto...
- Possibile?
- Ve lo giuro.
Il conte non ne poteva più.
L’industriale si reggeva la pancia con le mani. Loiseau seguitò:
- Così, capite, stasera la storia
non lo ha fatto ridere, proprio per niente.
E ricominciarono a ridere tutti e
tre fino a non farcela più. Si lasciarono ridendo ancora. Ma la signora
Loiseau, che era come le ortiche, fece osservare a suo marito, quando stavano
per mettersi a letto, che «quella strega» della giovane Carré-Lamadon per tutta
la sera non aveva fatto che ridere controvoglia: - Le donne, sai, quando hanno
un debole per le uniformi, gliene importa poco che si tratti di francesi o di
prussiani. Mi domando e dico, Signore Iddio, se non è una cosa da far
rivoltare!
Tutta la notte nel corridoio
oscuro si sentirono come dei fremiti, dei lievi rumori, appena distinguibili,
simili a soffi, scalpiccio di piedi nudi, impercettibili scricchiolii.
Certo tutti s’addormentarono
tardissimo, perché sotto le porte trasparirono per parecchio tempo dei fili di
luce. Lo sciampagna fa questo effetto; dicono che guasti il sonno.
Il giorno dopo un chiaro sole
invernale rendeva abbagliante la neve. La diligenza, finalmente pronta,
aspettava davanti alla porta; uno stormo di piccioni bianchi, dagli occhi rosa
macchiati al centro da un punto nero, impettiti sotto l’imbottitura delle
piume, passeggiavano con dignità tra le gambe dei sei cavalli sparpagliandone
lo sterco fumante dove cercavano il loro nutrimento.
Il cocchiere, avvolto nella
pelliccia di montone, si fumava la pipa, seduto al suo posto, intanto che i
viaggiatori, raggianti, si facevano incartare le provviste per il viaggio.
Mancava soltanto Pallina. Ella
comparve.
Sembrava un po’ agitata,
vergognosa, andò timidamente verso i suoi compagni, i quali, tutti, con lo
stesso movimento, si voltarono come se non l’avessero vista. Con sussiego il
conte prese sua moglie sottobraccio allontanandola dall’impuro contatto.
La ragazza si fermò, sbalordita;
e facendosi animo, mormorò umilmente: - Buongiorno, signora - alla moglie
dell’industriale. Costei fece soltanto un salutino impertinente con la testa,
accompagnandolo con un’occhiata di donna perbene oltraggiata. Pareva che tutti
avessero da fare, e le stavano lontani come se avesse le gonnelle appestate.
Poi si precipitarono in carrozza, ed ella entrò sola, per ultima, rioccupando
in silenzio il suo vecchio posto.
Sembrava che non la vedessero,
che non la conoscessero, ma la signora Loiseau sogguardandola indignata, da
lontano, disse al marito, a mezza voce: - Per fortuna non sto accanto a lei.
La pesante vettura si scosse, e
il viaggio ricominciò.
Dapprima nessuno parlò. Pallina
non aveva il coraggio di alzar gli occhi. Era furiosa contro i suoi vicini, e
al tempo stesso umiliata per aver ceduto, si sentiva insozzata dai baci del
prussiano fra le braccia del quale l’avevano gettata, ipocritamente.
La contessa, voltandosi verso la
signora Carré-Lamadon, ruppe l’imbarazzante silenzio.
- Conoscete, mi pare, la signora
D’Étrelles?
- Sì, è una mia amica.
- Che donna incantevole!
- Affascinante! Una natura
veramente eletta; è assai colta, e artista fino alla cima dei capelli; canta in
modo insuperabile, e disegna alla perfezione.
L’industriale discuteva con il
conte e tra il tintinnio dei vetri ogni tanto venivano fuori parole come: -
Cedole... scadenza... premio... a termine.
Loiseau, che aveva sgraffignato
all’albergo il vecchio mazzo di carte, unte per i cinque anni di uso sulle
tavole mal pulite, giocava a briscola con sua moglie.
Le suore si tolsero dalla cintura
il lungo rosario che vi pendeva, si fecero insieme il segno della croce, e
all’improvviso le loro labbra cominciarono a muoversi con gran rapidità, accelerando
sempre più, quasi a precipizio, quel loro vago mormorio, come per una corsa
d’oremus; ogni tanto baciavano una medaglia, si segnavano un’altra volta e
ricominciavano il loro borbottio rapido e continuo.
Cornudet, immobile, pensava.
Dopo tre ore che erano in strada,
Loiseau raccattò le carte dicendo:
- Ho fame.
Sua moglie prese un pacchettino
legato con lo spago, e ne trasse fuori un pezzo di vitello freddo. Lo tagliò
ammodo, in pezzettini regolari, e tutti e due si misero a mangiare.
- Se facessimo lo stesso anche
noi? - disse la contessa. I Carré-Lamadon e il conte erano d’accordo, e allora
furono scartati gli involti. In uno di quei recipienti ovali che hanno sul
coperchio una lepre di ceramica, per indicare che sotto c’è un pasticcio di
lepre, c’erano vivande succulente, bianchi fiumi di lardo che attraversavano la
carne scura della cacciagione, insieme ad altre carni finemente macinate. Un
bel pezzo di groviera ch’era stato incartato in un giornale, recava stampato
sulla polpa grassa: «cronaca».
Le suore tirarono fuori un pezzo
di salame odoroso d’aglio; e Cornudet infilando insieme le mani nei tasconi del
suo cappotto trasse da una quattro uova sode, e dall’altra un cantuccio di
pane. Levò il guscio alle uova, gettandolo ai suoi piedi, fra la paglia, e le
mangiò a morsi facendo cadere sulla sua gran barba dei pezzetti di tuorlo che
parevano stelle, perdute lì in mezzo.
Pallina si era levata dal letto
in fretta, sconvolta, e non aveva pensato a portarsi qualcosa: esasperata,
fremente di rabbia, guardava quella gente che mangiava tranquillamente. Fu
presa dapprima da una collera furibonda e aprì la bocca per gridare a tutti il
fatto loro col torrente d’ingiurie che le saliva alle labbra; ma era così fuori
di sé che non riusciva a parlare.
Nessuno la guardava, o pensava a
lei. Ella si sentiva soffocata dal disprezzo di quegli onesti cialtroni che
prima l’avevano sacrificata, e poi respinta come una cosa sudicia e inutile.
Ripensò al suo bel paniere pieno di cose buone che avevano ingordamente mangiato,
ai suoi polli lustri di gelatina, ai pasticci, alle pere, alle quattro
bottiglie di bordò; il suo furore svanì subito come una corda troppo tesa che
si spezzi, e si sentì vicina a piangere. Fece sforzi terribili, s’irrigidì,
ingoiò i singhiozzi come fanno i bambini, ma le lacrime salivano, luccicavano
sull’orlo delle palpebre, e presto due lacrimoni, staccandosi dagli occhi, le
rotolarono lentamente sulle guance. Altre le seguirono, più rapide, colando
come le gocce d’acqua che sgorgano dalla roccia e caddero una dopo l’altra sul
suo seno ricolmo.
La contessa se ne accorse e la
indicò a suo marito con un segno. Questi scrollò le spalle, come per dire: -
Non ci posso fare nulla, non è colpa mia. - La signora Loiseau sorrise
silenziosa e trionfante, mormorando: - Piange sulla sua vergogna.
Le suore avevano ricominciato a
pregare, dopo aver riposto nel paniere l’avanzo del salame.
Cornudet, che stava digerendo le
uova, stese le sue lunghe gambe sotto il sedile di faccia, rovesciò il capo,
incrociò le braccia, sorrise come chi ha avuto una buona idea e cominciò a
fischiare la Marsigliese.
I visi di tutti si oscurarono. La
canzone popolare di certo non era gradita ai suoi vicini. S’innervosirono,
irritati e pronti a urlare come cani che sentono suonare un organino. Egli se
ne accorse e non si fermò più. Ogni tanto cantarellava anche le parole:
Amour sacré de la patrie,
Conduis, soutiens, nos bras
vengeurs,
Liberté, liberté chérie,
Combats avec tes défenseurs! (6)
La vettura correva più lesta, la
neve era più dura; e fino a Dieppe, per tutte le lunghe e tetre ore del
viaggio, tra gli scossoni della strada, al crepuscolo e poi nella profonda
oscurità che sopravvenne, egli continuò con feroce ostinazione il suo fischio
vendicatore e monotono, obbligando le menti stanche ed esasperate a seguire il
canto da cima a fondo, a ricordarsi ogni parola, applicandola a ciascuna
battuta.
Pallina seguitava a piangere;
talora un singhiozzo che non era riuscita a trattenere scivolava tra una strofa
e l’altra, nelle tenebre.
______________________________________________________________________
(1) Loiseau vole = gioco di
parole intraducibile tra “l’oiseau vole” (l’uccello vola), un vecchio gioco di
società, e “Loiseau vole” (Loiseau ruba).
(2) Badinguet = soprannome
satirico di Napoleone III.
(3) Il principe imperiale =
Eugenio Luigi Napoleone, figlio di Napoleone III e di Eugenia di Montijo.
(4) Trentuno = gioco di carte.
(5) Écarté = gioco francese di
carte da fare in due o in quattro.
(6) Amore sacro della Patria, /
Conduci, sostieni le nostre braccia vendicatrici, / Libertà, amata Libertà, /
Combatti con i tuoi difensori.
4 fotogrammi dal film western “Ombre rosse” di John Ford (1939), tratto
da un racconto di Ernest Haycox, a sua volta ispirato al racconto di Maupassant
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