“L’infinito”
fa parte di un gruppo di poesie scritte tra il 1819 e 1821, che Leopardi
pubblicò con il titolo di Idilli. Nella
letteratura greca antica il termine idillio significava “piccolo quadro,
piccola immagine” e veniva usato per componimenti sulla vita pastorale e sul
contatto semplice e immediato con la natura. Per Leopardi il piccolo quadro è
tutto interiore, un mezzo per scoprire nella contemplazione solitaria della natura
una intuizione personale.
In questa
poesia l’intuizione ha a che fare con il senso dell’immensità e dell’eternità
che noi percepiamo pur vivendo una vita limitata e circoscritta a poche cose
dolorose; però dentro di noi c’è un forte bisogno di ricercare qualcosa di più
grande e di più importante e sebbene riusciamo soltanto a immaginare questo
qualcosa, provandone come una vertigine del pensiero e del cuore, è
estremamente dolce abbandonarsi a tale immaginazione.
Sempre caro mi fu quest'ermo
colle,
e questa siepe, che da tanta
partedell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.
PARAFRASI:
Mi fu sempre caro questo colle
solitario [il monte Tabor]
e questa siepe, che per un gran
trattomi impedisce di vedere l’orizzonte lontano.
Ma se mi siedo e osservo [come in contemplazione], spazi
senza confini al di là di essa, e sovrumani
silenzi, e una profondissima quiete
io mi raffiguro nel pensiero; tanto che per poco
il cuore non si spaventa. E non appena sento
il vento stormire tra queste piante, io paragono
quel silenzio infinito [che ho immaginato] a questo suono
[che ho appena udito]: e ciò mi porta a pensare all’eternità,
e ai secoli passati, e al tempo presente
e vivo e al suo suono [cioè alla sua inutilità, dato che è soltanto un suono].
Così in questa immensità il mio pensiero annega
e mi è dolce naufragare in questo mare.
Letta
la parafrasi [questa o un’altra], bisogna anche dimenticarla e abbandonarsi invece
al fascino di questa poesia, fatta di musicalità, suoni, pause e silenzi.
Poi si
può leggere qualunque commento; ad esempio questo di Walter Siti, pubblicato su
la Repubblica il 16 marzo 2014:
Studiandola a scuola spesso ci si
dimentica che è la poesia di un ragazzo appena ventunenne; precoce sì, ma fino
a quel momento aveva scritto (da tenere per il futuro) solo due enfatiche
canzoni patriottiche e delle terzine d'amore inventate su una parente venuta in
visita. Qui di colpo cambia tutto, nasce una musica. Lo chiama "Idillio
primo", pensando agli idilli di Mosco (un poeta alessandrino della Magna
Grecia) che aveva tradotto; per esempio l'idillio quinto («in selva oscura/
seder m'è grato, mentre canta un pino/ al soffiar di gran vento»). Vuole
scrivere una cosa breve, intima, di contatto con la natura; ha il mito degli
antichi greci e della loro "ingenuità", come aveva letto in Schiller.
In un suo scartafaccio di appunti aveva notato, per lodare i classici rispetto
ai romantici, che gli antichi descrivono la natura con spontaneità,
semplicemente indicandone gli elementi («quell'albero, quell'edifizio, quella
selva, quel monte») e grazie a una specie di stupore infantile «ci rapiscono,
ci sublimano e ci immergono in un mare di dolcezza». Anche lui vuol fare come i
greci, ma da inesperto esagera: a forza di indicare ci mette otto aggettivi e
pronomi dimostrativi («questo», «quello») in quindici versi. Quasi senza volere
crea qualcosa di inedito nella poesia italiana: invece di raccontarci
un'esperienza già fatta, o abituale, ci racconta un'emozione intellettuale e
psichica che lui stesso sta scoprendo in quel momento; qui, adesso, mentre sto
seduto e guardo, e immagino, tanto che, e poi succede un'altra cosa, e allora
io, e così… Ci porta dentro, nella lirica come istante.
La cornice è chiara, il primo e
l'ultimo verso sono endecasillabi cristallini, tant'è vero che tutti li abbiamo
nella memoria; ma all'interno del testo il ritmo procede per onde successive,
la sintassi segue l'emozione della scoperta e travolge la metrica. Gli
endecasillabi sciolti non permettono alla voce di fermarsi, si inarcano gli uni
sugli altri; le inarcature più forti (interminati/ spazi; sovrumani/ silenzi;
quello/infinito; questa/immensità) si trovano negli snodi-chiave del senso,
dove si parla dell'infinito.
Il ventunenne è sul Monte Tabor,
una collina "erma", cioè solitaria, non lontano dal suo palazzo di
Recanati; forse ciò che gli toglie la visuale non è nemmeno una siepe ma un
fittume di sterpi (in una prima versione aveva scritto "questo
roveto", poi corretto nobilitandolo in "questo lauro";
"siepe" è un compromesso ragionevole). Scopre che gli ostacoli
favoriscono l'immaginazione e che il troppo immaginato fa paura; in un altro
appunto dell'epoca racconta che una voce lo chiama a cena mentre fantastica
sull'infinito e che di colpo «mi parve un niente la vita nostra… e tutta la
storia». Il ragazzo è di nervi fragili, facile agli estremismi; basta uno
stormire di foglie e gli salta addosso tutta la sproporzione tra il
velleitarismo dei sogni e la pochezza del quotidiano, tra il presente meschino
e l'eternità. Ma invece di lottare si abbandona, forse ricorda il quaresimale
di Paolo Segneri, un predicatore seicentesco che ha studiato («assorbito nel
vasto oceano di una grandezza infinita, il mio spirito amerà di andare
eternamente annegandosi in un giocondo naufragio di contentezza»). Solo che il
mare in cui il ragazzo si perde non può essere Dio, in cui non crede più – può
essere soltanto il mare filosofico dell'assenza di limiti; che è anche,
segretamente, il mare dolce della bellezza ottenuta col canto. (Ma
"colle" e "mare", che inquadrano il testo, sono anche i
principali elementi del paesaggio marchigiano).
L'anno dopo su queste emozioni
ingenue comincerà a riflettere; non accontentandosi di annegare nell'infinito,
vorrà possederlo. «Sempre adorata mia solinga sponda»: tenta di riciclare
l'incipit nell'abbozzo di una poesia su Saffo, ma già la poetessa (fisicamente
brutta) si lamenta che la siepe la deruba del panorama che concede ai belli. Il
desiderio è il demone che porta all'infelicità. Tra i 22 e i 26 anni Leopardi,
in un violento processo di razionalizzazione, mette a punto un sistema di
logica spietata: gli uomini desiderano l'infinito ma nell'universo l'infinito
non esiste, dunque gli uomini sono destinati a non soddisfare mai il proprio
desiderio. Se non auto-imbrogliandosi, contrabbandando l'indefinito per
infinito. "Dolci" e "cari" saranno ormai, nella sua poesia
adulta, solo gli "inganni". Quando, nel 1835, proverà a ordinare il
suo libro di poesie come se fosse un romanzo, dovrebbe mettere cronologicamente
L'infinito al primo posto tra gli idilli, subito dopo le canzoni; invece si
inventa un falso d'autore – finge che il Passero solitario, un testo del 1832 o
1833, sia invece stato scritto a vent'anni. La situazione è più o meno la
stessa, anche lì il ragazzo si apparta «romito e strano» verso la campagna; ma
non ignora gli altri ragazzi che intanto si guardano a vicenda. L'infinito non
regge alla prova, lo sguardo solitario perso all'orizzonte sarà solo fonte di
rimpianto nella vecchiaia. Decidendo di farlo precedere dal Passero nella
raccolta, è come se Leopardi si vergognasse un po' della sua poesia più famosa,
dello "spaurarsi" e del naufragare. È come se ci dicesse "così
ingenuo lo sono rimasto per poco, il canto già funzionava ma il pensiero
no".
Manoscritto originale (non è
però l’unico) della poesia
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.